Anime & Manga > Captain Tsubasa
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Autore: Yoshiko    12/10/2010    1 recensioni
"Uno scalpiccio di passi affrettati che si avvicinavano e i due si volsero all’unisono verso l’ingresso in penombra. Una sagoma si stagliò contro la porta, poi piombò a terra come un sacco di patate. La pietra che Tom aveva scagliato rimbalzò sull’impiantito e si fermò in un angolo.
-Che hai fatto?- Evelyn crollò in ginocchio accanto al corpo privo di sensi.
-È Benji!-
-Certo che è Benji!-
-Non l’avevo riconosciuto! Questa me la farà pagare cara! Non mi perdonerà mai!-"
In un mondo virtuale e nelle situazioni più improbabili, un pericoloso inseguimento, un rapimento e una tempesta creeranno situazioni impreviste e imprevedibili.
Genere: Avventura, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Hikaru Matsuyama/Philip Callaghan, Jun Misugi/Julian Ross, Kojiro Hyuga/Mark, Tsubasa Ozora/Holly
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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-Sei pronto?-
Holly si tolse il casco. Lo appese su un ramo del folto ligustro dietro cui avevano parcheggiato le motociclette affinché non dessero nell’occhio e si volse verso Bruce. La luna faceva capolino tra le nuvole che si inseguivano nel cielo notturno spinte da un vento superiore che loro non percepivano. Quest’alternarsi di chiarore e oscurità li avrebbe senz’altro avvantaggiati. Illuminava i dintorni quel tanto che bastava per non avanzare a casaccio e li nascondeva da qualsiasi sguardo insonne che avesse indugiato al di là dei vetri. Bastava adeguarsi al rincorrersi delle nubi e l’impresa sarebbe stata un gioco da ragazzi.
-Non tanto… Mi scappa.-
-Diamine Bruce! Adesso non è proprio il momento!-
L’altro sospirò e annuì.
Si sporsero oltre i rami del ligustro e osservarono l’edificio dal loro nascondiglio. Sorgeva su una collinetta, imponente nella sua solitudine. La strada che saliva dalla statale era tutta curve e tornanti fino al parcheggio lastricato, scandito da aiuole fiorite e circondato da altri arbusti. Era proprio lì tra quei cespugli che si erano nascosti per studiare la bella e rustica costruzione in pietra viva, circondata da un giardino curato e un orto ricco di frutti.
-Dov’è?-
-In una stanza al secondo piano.- Holly si infilò un paio di guanti neri che celarono il candore della pelle  -Dobbiamo scavalcare il muro di cinta del giardino, forzare il portone d’ingresso, salire al secondo piano e girare a destra fino all’ultima porta del corridoio, che forse è chiusa a chiave.-
-Non so se riuscirò a resistere fino alla fine.-
-Certo che ce la farai, Bruce.- e lo fissò come per dire “non cominciare a crearmi problemi”.
Harper sapeva che non era il momento, ma non era colpa sua se all’improvviso doveva andare in bagno. Forse era proprio l’ansia a stimolargli la vescica.
Holly frugò nel portaoggetti della moto, si agganciò un marsupio alla vita e s’incamminò verso la collina.
-Andiamo?-
-Non ci sono cani da guardia?-
-Non mi risulta.-
-Ma non ne sei sicuro.-
-Se ci fossero stati, lui me l’avrebbe detto.-
-A meno che non si sia dimenticato di farlo.-
-Bruce...-
-Ho capito, sto zitto.-
Avanzarono in direzione del muro di cinta guardinghi come ladri, l’unico rumore che si udiva echeggiare per la collina e nelle valli circostanti era un insistente frinire di grilli. Gli ortotteri sembravano essere in gran forma, quella notte, sebbene fossero quasi le tre e stessero cantando ormai da ore.
I due ragazzi raggiunsero il muretto e si fermarono. Holly saltò per primo, si aggrappò al bordo e si issò con la forza delle braccia. Si mise a cavalcioni, poi afferrò la mano che Bruce gli tendeva per agevolarlo nell’arrampicata. Insieme balzarono dall’altra parte e atterrarono agilmente sull’erba.
Rimasero accoccolati a terra ad aspettare che la luna venisse di nuovo nascosta dalle nubi. Il profumo del gelsomino in fiore riempiva l’aria. Quando l’oscurità calò di nuovo sull’edificio e sul terreno circostante, si tirarono in piedi e avanzarono agili e svelti.
Avevano oltrepassato il muro nel punto più distante dalla costruzione e per raggiungere l’ingresso furono costretti a inoltrarsi nell’orto, tra i filari di pomodori, affondando gli anfibi su un terreno reso molle dall’acqua dell’irrigazione. Proseguirono piegati in due finché non raggiunsero lo slanciato granturco carico di pannocchie, che consentì loro di procedere più agevolmente eretti.
La porta non era chiusa a chiave, bastò loro spingerla per poter entrare. Un sordo cigolio di legno li accompagnò mentre la luna veniva ricoperta dalle nubi, facendoli piombare in una perfetta oscurità. Holly riesumò una minuscola torcia dal marsupio e illuminò tutt’intorno a loro. Le scale erano sulla destra e l’edificio era completamente immerso nel silenzio.
I passi dei due intrusi non fecero rumore sulla striscia di moquette scura che ricopriva i gradini nella parte centrale, scivolando giù dal pianerottolo come la lingua di un serpente. Salirono rapidamente un piano, poi l’altro. Il corridoio del secondo piano percorreva l’edificio per la sua intera lunghezza e terminava in fondo con una porta finestra che si affacciava sulle scale antincendio. Sulle pareti si aprivano cinque porte per lato e se non avessero saputo fin dall’inizio quale puntare, sarebbero stati costretti a perdere parecchi inutili minuti per tentarle tutte, tra l’altro con il rischio di venire scoperti.
Avanzando nel corridoio, le suole di Bruce iniziarono a cigolare sul pavimento in un modo così fastidioso che Holly gli intimò di toglierle. Il ragazzo si fermò, le slacciò in fretta e furia e se le sfilò, per poi proseguire a piedi scalzi dietro il compagno. L’ultima porta a destra, la loro porta, era chiusa ma non a chiave.
Bruce appoggiò gli anfibi a terra perché non gli fossero d’impiccio nella fase più delicata del piano. La vescica premeva da impazzire, non ce la faceva più.
Holly abbassò la maniglia e aprì la porta. Si fermò sulla soglia, frugò silenziosissimo nel marsupio e tirò fuori un lembo di stoffa bianca. Stringendolo tra le dita di una mano, entrò e si lanciò una rapida occhiata attorno.
La luce della luna entrava dalle imposte spalancate e illuminava la stanza. Era semplice e disadorna con essenziali mobili in legno scuro. Un armadio a due ante, un tavolo con una sedia, un vaso di fiori sul comodino. Un arredamento completamente impersonale. Mentre il compagno si muoveva furtivo, Bruce rimase sulla porta a fare da palo, premendo i piedi sul pavimento, un po’ l’uno e un po’ l’altro, nell’insperato tentativo di trattenersi. Avevano finito, mancava pochissimo e sarebbero tornati all’esterno, tra le siepi di ligustro, quelle bellissime e invitanti siepi di ligustro così fitte, così accoglienti e tutto il tempo del mondo a disposizione. Però no, non era sicuro, non era sicuro per niente di riuscire a fare in senso inverso tutta la strada percorsa. Il lungo corridoio, due piani di scale, l’attraversamento dell’orto, il salto sul muretto, la discesa fino al parcheggio, al luogo dove avevano nascosto le motociclette. Alle siepi di ligustro.
Gemette piano e la sua voce riecheggiò nella cameretta. La ragazza spalancò gli occhi nel momento in cui Holly si chinava sul letto e le piazzava una mano sulla bocca. Lei scalciò via le coperte nel disperato tentativo di resistergli. Gli afferrò il polso con le mani e cercò di liberarsi dalla stretta, mugolando un grido atterrito. Il cloroformio che impregnava il fazzoletto fece effetto nel giro di pochi istanti e la ragazza giacque immobile tra le lenzuola ormai in disordine. -Bruce! Che ti salta in mente? Stavi per farci scoprire!-
-Non resisto più! Oddio non ce la faccio più!- si guardò intorno disperato, poi individuò una porticina e sperò con tutto se stesso che quello fosse il bagno privato della stanza. Si fiondò dentro, le lacrime che gli riempivano gli occhi.
Quando tornò in camera era pieno di rinnovata energia e motivazione. Holly lo aspettava seccato sulla soglia, la ragazza svenuta tra le braccia.
-Abbiamo i minuti contati.-
-Ho fatto prestissimo.-
-Potevi anche evitare di tirare lo sciacquone.-
-Perché? Penseranno che sia stata lei.-
Uscirono guardinghi nel corridoio. Stavolta fu Bruce ad andare avanti e far strada e Holly a seguirlo con il carico tra le braccia. Scesero senza intoppi fino al piano terra, varcarono l’ingresso e uscirono all’aperto. Rimasero sulla soglia ad attendere il successivo passaggio delle nuvole davanti alla luna e quando il chiarore a poco a poco si spense, attraversarono svelti l’orto e il giardino fino a raggiungere il gelsomino profumato e il muro di cinta.
Bruce saltò su per primo, poi afferrò la ragazza svenuta che il compagno gli porgeva. Per scendere fecero l’inverso. Holly balzò giù e si fece allungare quel corpo addormentato. Raggiunsero le motociclette contenti e soddisfatti.
-è filato tutto liscio, non posso crederci!-
-Nonostante la tua puntata in bagno.-
-Mi scappava, Holly...- guardò le motociclette, poi osservò la ragazza che il compagno aveva adagiato sull’erba -E adesso come facciamo?-
L’altro si grattò una guancia.
-In effetti non ci avevo pensato.-
-Rubiamo una macchina?-

La strada più rapida che portava all’isola più piccola dell’arcipelago della baia era uno stretto ponte pedonale teso sopra la laguna, fatto di corde intrecciate e pezzi di legno di recupero. L’impalcatura era così sottile ed elastica che oscillava ad ogni colpo di vento. Patty e Julian avanzavano con tutta la velocità che quel percorso sconnesso consentiva loro, le dita strette al corrimano umido di salsedine e un passo alla volta su quelle assi di legno che sembravano sul punto di sgretolarsi. Intorno a loro non si scorgeva niente, neanche l’azzurro del cielo, perché la nebbia di quel primo mattino avvolgeva ogni cosa ricoprendo le superfici di uno strato bagnato e freddo. Incombeva su di loro come una cappa che toglieva il fiato. Non riuscivano neppure a scorgere la fine del ponticello, avvolta in quel vapore umido che stentava ad alzarsi.
-Sei sicuro che l’appuntamento sia qui?-
Non era la prima volta che Patty gli poneva quella domanda e l’intervallo di tempo che separava una dall’altra si assottigliava sempre più, man mano che si addentravano in un paesaggio che non aveva nulla di accogliente. Erano arrivati con la macchina da sud e l’avevano parcheggiata in una piazzola di sosta per raggiungere a piedi il luogo dell’appuntamento, servendosi di un ponte pedonale che aveva risparmiato un lungo giro intorno alla loro meta a cui sarebbero stati costretti se fossero arrivati da nord dopo aver attraversato in macchina tre isolotti collegati da altrettanti ponti a pagamento in quasi quaranta minuti di viaggio.  
-Sì. Sicurissimo.- rispose Julian paziente. Bastava guardarsi intorno per condividere le perplessità dell’amica -Ma non proprio qui. Un po’ più avanti. Fai attenzione a dove metti i piedi.-
La nebbia inghiottiva le loro voci dissolvendole nel nulla. Il rumore della risacca sugli scogli, da qualche parte intorno a loro, faceva da eco alla brezza che accarezzava i loro volti. Ogni tanto il grido di uno sconosciuto uccello marino li faceva sobbalzare, l’ombra di un gabbiano si stagliava contro il cielo latteo. Sotto di loro l’acqua stagnava di un brutto verde scuro, canne e altre piante acquatiche creavano un groviglio impenetrabile in cui mai e poi mai Patty avrebbe infilato neppure un dito. Si ficcò una mano nella tasca per assicurarsi che il cellulare fosse al sicuro.
-Che atmosfera spettrale.-
-Con il sole è più bello.-
-Se lo dici tu.-
Finalmente arrivarono alla fine del ponte e poterono rimettere piede sulla terraferma, ricoperta di ciottoli misti a sabbia. Julian proseguì dritto sul sentiero appena tracciato nella vegetazione. Quando furono tra gli alberi la nebbia si diradò e il mondo riacquistò colore, ritrovando i marroni e i verdi della natura. C’era odore di resina e di mare, tra i pini bassi e piegati dal vento. Gli aghi secchi ricoprivano il terreno di una coltre morbida nella quale i loro piedi affondavano ad ogni passo. Attraverso i tronchi degli alberi ogni tanto si scorgeva il candore di una striscia di sabbia che si perdeva nella nebbia. Non prestavano più attenzione, ormai, al mormorio delle onde sulla risacca. Si erano abituati a quel sottofondo e adesso i loro sensi erano concentrati a captare altre presenze umane oltre alla loro. Si fermarono a riposare a ridosso di un’insenatura. Patty si appoggiò al tronco di un pino e si sfilò una scarpa per togliere la sabbia che vi era finita dentro. I suoi occhi si spostarono tutt’intorno e vagarono fino alla distesa marina che si apriva davanti a lei. Gli alberi, nella laguna, sembravano galleggiare tra le nubi basse senza un perché.
Ripresero il cammino e infine sbucarono sulla spiaggia principale, a lato della strada asfaltata proveniente dal ponte sospeso in acciaio bianco che collegava la parte nord dell’isoletta a quella che la precedeva, che a sua volta la collegava all’altra in un susseguirsi di ponti che finiva svariate decine di chilometri più lontano, sulla terraferma.
-Non c’è nessuno.-
Patty guardò l’orologio.
-Siamo un po’ in anticipo.-
Ficcandosi le mani nelle tasche della leggera gonna di jeans, avanzò verso la spiaggia e verso la riva, affondando le scarpe nella sabbia. La nebbia si stava sollevando e oltre al blu profondo del mare, cominciava a distinguersi anche l’azzurro splendente del cielo. Presto il sole sarebbe arrivato ad illuminare le isole e a dissolvere l’atmosfera lugubre di quei luoghi. Si arrampicò su una duna e, con gli occhi fissi sul piano viabile del ponte, proseguì verso il mare. Si fermò di colpo quando scorse dei corpi abbandonati sulla spiaggia. Le si gelò il sangue ed emise un’esclamazione di terrore.
-Julian!-
L’urgenza che percepì nella voce dell’amica lo spinse a raggiungerla di corsa, alzando tutt’intorno a sé spruzzi di sabbia bianca.
-Che c’è?-
Patty indicò quel mucchio di abiti smossi dalle onde.
-Naufraghi!-
Il ragazzo si precipitò giù dalla duna, dimenticando d’un tratto il motivo che li aveva portati in quel luogo. Mentre Patty continuava a tenersi distante, lui raggiunse i due corpi distesi, zuppi d’acqua e sbiancati dalla salsedine.
-Sono morti?- domandò lei da lontano.
Julian si accostò di più e li voltò.
-Sono Philip ed Evelyn!-
-Impossibile!-
-Sono davvero loro!- persino Julian stentava a credere a ciò che aveva davanti.
-Ma sono vivi?- insistette Patty, indecisa se avvicinarsi.
Ross li tastò in vari punti, poi assentì.
-Philip, svegliati!- lo afferrò per le spalle e lo scosse un po’, ma visto che lui non dava cenni di udirlo gli mollò un sonoro ceffone.
Quello spalancò gli occhi e lo fissò.
-Ross.- dopodiché si portò una mano alla guancia colpita -Mi hai picchiato?-
-Non riprendevi i sensi, pensavo fossi morto!- si giustificò leggermente in colpa perché ci era andato giù un po’ troppo pesante. Forse gli sarebbe spuntato un livido.
Philip si tirò su seduto e vide Patty che si avvicinava di corsa.
-Che ci fate qui?-
-Cosa ci fai tu qui, piuttosto! Evelyn!- la ragazza cadde in ginocchio accanto all’amica svenuta e la prese tra le braccia scuotendola su e giù -Eve! Eve svegliati! Eve, mi senti? Sono Patty! Eve!-
Philip si era completamente dimenticato di lei, ma gli bastò posarle per un istante gli occhi addosso che i ricordi cominciarono ad affiorare.
Mentre l’amica riprendeva a poco a poco conoscenza, balzò in piedi e corse nell’acqua immergendo i piedi fino alle caviglie. Fissò la distesa del mare all’orizzonte, in cerca di qualcosa che non riusciva a scorgere.
-Lo yacht! Dov’è finito lo yacht?-
-Quale yacht?-
Philip si portò le mani al viso, disperato.
-Mio dio! Sono rovinato! È affondato! Mark! No! Non voglio avere Landers sulla coscienza!-
-Datti una calmata, Callaghan! Che ti prende? Vuoi farti venire un coccolone?-
Lui avrebbe voluto seguire il consiglio dell’amico ma non era mica così facile calmarsi.
-Evelyn! Che ci facevi sullo yacht?-
-Stavamo scappando!-
-Da cosa? Tu e chi? Non eri sola, vero?-
-No.- deglutì a fatica, la gola bruciata dall’acqua di mare -Non avete dell’acqua?-
-Sì, in macchina.- annuì Patty -Abbiamo anche dei vestiti asciutti.-
-Evelyn!- Philip invocò di nuovo il suo nome. Dal tono della sua voce proveniva una certa urgenza -Chi era con te sullo yacht?-
-C’erano Tom e Benji. E anche Jenny.-
Le forze lo abbandonarono di colpo e Philip cadde in ginocchio.
-Jenny! Miodio, no!-
Neppure sposo e già vedovo.
Impiegarono un bel po’ a riscuotere dal lutto l’inconsolabile compagno. Si prodigarono intorno a lui per quasi un’ora, poi Julian ricevette la telefonata che aspettava se all’appuntamento non si fosse presentato nessuno, e si prepararono a lasciare quello sfortunato luogo. Dovettero trascinare Philip alla macchina quasi di peso. La disperazione gli aveva risucchiato ogni energia e non faceva altro che recriminare il giorno in cui era salito a bordo di un fantomatico yacht per portarlo chissà dove. Sembrava che i suoi pensieri si fossero bloccati su quell’ultimo evento e non riuscisse più andare né avanti, né indietro.
Dopo che si fu scolata quasi un litro d’acqua, Evelyn ritrovò abbastanza voce per rassicurarlo. Anche se in realtà, nonostante le parole incoraggianti con cui cercava di confortarlo, neppure lei aveva la certezza che gli amici fossero riusciti a sopravvivere alla tempesta che si era abbattuta sulla barca. Forse soltanto lei e Philip, per un colpo di fortuna, si erano salvati.
   
 
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