Ian
osservò incredulo
il moncherino della spada frantumata, ancora nelle sue mani. La risata
sguaiata
di Glasdale echeggiò nelle sue orecchie, mentre si vide
perduto.
Dai libri sapeva
che
l’inglese sarebbe morto quel giorno, annegato nella Loira. Ma
più di questo, la
sua conoscenza della storia non chiariva se prima di morire Glasdale
avesse
ucciso anche lui.
Isabeau…
Gli
bastò scandire
mentalmente quel nome per percepire il fuoco divampare nuovamente nelle
vene e
pervaderlo del tutto. L’Inglese ghignava ancora e
giudicandolo ormai alla sua
mercé, aveva abbassato l’arma, appoggiando il filo
della lama a terra.
L’ira
incontrollabile
gli donò il coraggio per una mossa disperata. Con un colpo
di reni, si scagliò inaspettatamente
contro il suo nemico, chinando il capo come un ariete e facendo cozzare
il
proprio elmo contro il petto di Glasdale.
Il colpo fu
terrificante
e per qualche secondo lasciò entrambi frastornati.
L’inglese indietreggiò di un
passo e per mantenersi in equilibrio istintivamente staccò
una mano dalla
spada. Ian se ne avvide nel momento stesso in cui, con un calcio,
colpì la mano
che reggeva lo spadone, facendolo volare lontano.
L’inglese
sembrò
esitare per qualche secondo, sbalordito. Ian non gli lasciò
il tempo di
riaversi, caricò ancora a testa bassa, colpendo ancora una
volta l’avversario
sul petto. L’urto avrebbe scaraventato a terra qualsiasi
altro uomo ma non
Glasdale, che indietreggiò ancora ma riuscì a
reggersi in piedi. La linea perfettamente
ricurva della sua armatura adesso esibiva una voluminosa rientranza,
dove
l’elmo di Ian l’aveva centrato.
Glasdale non
riusciva
ancora a credere di essersi fatto disarmare così
stupidamente. Con la mente
tornò alla battaglia di Verdun, quando il vecchio conte di
Ponthieu gli aveva
strappato di mano la spada, umiliandolo davanti al suoi uomini. Come
allora,
una furia incontenibile e folle si appropriò di lui.
Se
non potrò sminuzzare con la spada la tua carne, allora la
staccherò a brandelli con i miei stessi denti! E si
scagliò contro la linea di
cintura di Ian, abbrancandolo in presa.
L’americano
si avvide
troppo tardi che la carica di Glasdale mirava a imprigionarlo nella
morsa delle
sue braccia, cercò invano di divincolarsi dalla sua stretta
mostruosa e fu
sorpreso di sentirsi sollevare da terra dalla forza di quel demonio.
Prima che
Ian riuscisse a scalciare, l’inglese piegò a terra
un ginocchio, e fece piombare Ian
sullo spuntone
della piastra metallica che proteggeva l’articolazione. Ian
fu investito da un
dolore lancinante, ma Glasdale non gli diede nemmeno il tempo di
urlare: adesso
che aveva il volto del nemico alla portata del suo elmo, prese a
tempestarlo di
testate.
Ian
cercò di voltare il
capo, quel tanto perché i colpi dell’inglese non
lo centrassero frontalmente:
diversamente, gli avrebbe schiacciato il setto nasale, come se fosse
burro.
Dalle feritoie
del suo
elmo, Glasdale intravedeva il sangue del rivale imbrattare il metallo
della
corazza ad ogni colpo che sferrava. Ma non sarebbe riuscito a finirlo
in quel
modo, con un guizzo degli occhi cercò la spada e la
trovò a una decina di passi
alla sua destra. Assestò un ultimo colpo al suo avversario e
lo abbandonò a
terra, mente scattava verso l’arma.
Ben presto, Ian
comprese che sul lato dove l’inglese l’aveva
colpito ripetutamente, il metallo
deformato dell’elmo sfregava contro la carne viva. Appena
mosse il capo, un
dolore atroce lo paralizzò, come se un coltello stesse
affondando dentro la
guancia. Ignorando con uno sforzo tremendo la fitta, si
sfilò l’elmo e lo
scagliò a terra. Davanti a lui, più lontano,
Glasdale stava raccogliendo la
spada.
Ty, che fino ad
allora
non aveva potuto fare altro che assistere impotente allo scontro,
irruppe tra i
soldati che assistevano al duello.
“E’
finita, Ian! E’
finita!” gli urlava, “Les Tourelles è in
mano nostra! Lascia che questo infame
sia catturato, non morire per orgoglio, non morire per
niente!”
“La
mia vita non vale
niente senza Isabeau!” gli gridò di rimando
l’americano.
“Maledizione,
non permetterò
che tu ti faccia ammazzare davanti ai miei occhi! Me ne frego del tuo
orgoglio,
so di fare la cosa giusta…”, con un cenno
ordinò ad alcuni soldati di farsi
avanti, avanzando lui stesso verso Ian.
“Non
immischiarti!” gli
ringhiò rabbiosamente contro, “Se mi sei amico
stanne fuori”.
“Oh,
va al diavolo!”
gli replicò Ty mentre sguainava la sua spada e la lanciava
in alto verso
l’amico, “Prendila, è tua! Appartiene al
Falco d’Argento, non si spezzerà, né
ti tradirà mai!”
Ian
afferrò al volo
l’elsa, nel momento in cui Glasdale raccoglieva la sua arma e
la sollevava
verso di lui.
Era la spada
più
straordinaria che avesse mai visto: la guardia era forgiata in modo da
riprodurre
due ali stilizzate che si aprivano in volo. Gli intarsi
sull’impugnatura descrivevano
il piumaggio di un falco i cui artigli si aggrappavano in rilievo alla
base
della lama, mentre la testa e il grosso becco ricurvo davano forma al
pomolo.
La lama era
percorsa
dalle parole intagliate nel mezzo: In Manu
Falconis Invictum Ero.
L’inglese
si dispose in
una posta d’attacco.
“Riconosco
che sei
migliorato, da quando abbiamo combattuto l’ultima volta, ma
temo di essermi
stancato di giocare”, annunciò Lord Glasdale.
“Adesso tocca a me attaccare…”
Ora che non
indossava
più l’elmo, Ian era certo che l’inglese
avrebbe mirato al volto e si preparò a
difendersi. Glasdale trasformò gli ultimi passi in corsa e
con straordinaria
agilità portò l’assalto con un fendente
alto.
Ian
sollevò i gomiti in alto e bloccò il ferro
avversario con una parata rovesciata. La lama di Glasdale
cozzò contro la sua a
pochi centimetri dal suo viso.
L’inglese
non arrestò
tuttavia la sua azione e con un gesto fluido portò un nuovo
attacco dal lato
opposto. Ian fu costretto a indietreggiare mentre parava
l’assalto frapponendo
orizzontalmente la lama davanti al proprio volto.
Glasdale non lo
lasciò
nemmeno respirare mentre continuava ad affondare i colpi come se
fossero un unico
movimento, naturale e continuo. Con un sapiente gioco dei polsi, lo
tempestò di
fendenti rovesci e diritti, uno dopo l’altro, senza sosta,
senza tregua.
Ian attinse alla
propria
rabbia infinita, che ancora avvampava dentro, per ignorare il dolore
sempre più
acuto ai polsi, dopo ogni parata e le forze che gli venivano
inesorabilmente meno.
Aveva sempre un occhio sulle mani del nemico, in modo da avere
conoscenza dell'origine
dell'attacco e prefigurare la direzione dell’assalto.
All’improvviso,
l’inglese eseguì un movimento più ampio
delle spalle e trasformò il fendente
alto al volto in un falso dritto sotto la cintura. Ian roteò
disperatamente i
polsi, guidando la lama di traverso e sollevando
l’impugnatura della spada fino
al petto, per difendere il maggiore spazio possibile. Vide un lampo
attraversare gli occhi dell’inglese e subito dopo si accorse
dello stivale
dell’avversario che lo centrava al ginocchio sinistro.
Il dolore fu
tremendo e
Ian dovette inginocchiarsi per non perdere l’equilibrio.
Glasdale, con un urlo
gutturale, roteò ancora una volta i polsi e portò
un colpo di taglio rovescio
diretto alla gola dell’avversario.
Ian
alzò rapidamente,
ancora più in alto, la presa sull’arma, mentre con
la spada rovesciata, parava
con difficoltà il colpo dell’inglese.
Il clangore fu
così
potente che sembrò che la spada dovesse spezzarsi ancora, ma
le lame rimasero
invece legate l’una all’altra.
“Iaaaaan!”
Fu in quel
momento che
udì il grido di una donna.
Davanti a lui,
dietro
alle spalle di Glasdale, vide Daniel emergere dai miasmi delle rovine
in fiamme
della fortezza. Una ragazza era aggrappata alle sue spalle, e pure se
ai suoi
occhi appariva irriconoscibile, pure se il suo urlo era alterato dalla
paura,
qualcosa dentro di lui la riconobbe.
Isabeau.
E in quel
momento finalmente
seppe. Seppe che anche nell’abisso più cupo e
tetro poteva albergare la
speranza. Che non c’era sofferenza senza gioia. Che non
esisteva tenebra senza
luce.
E fu consapevole
che persino
l’odio più viscerale, cui aveva attribuito il
potere di infondere una forza invincibile,
era in realtà ben misera cosa rispetto alle energie che
poteva trasmettergli l’amore.
Glasdale, del
tutto
ignaro della donna che era comparsa alle sue spalle,
disimpegnò la lama e si
preparò a calare come una mannaia il colpo che avrebbe
sbriciolato il cranio indifeso
del suo avversario.
Nel tempo in cui
l’inglese portava indietro i gomiti, per sferrare
l’attacco decisivo, Ian sollevò
il ginocchio posato a terra. Per darsi slancio usò come
perno l’altro piede,
roteò come un fulmine il busto e il braccio, e
falciò l’aria con un fendente
orizzontale.
Glasdale,
stupito e
innervosito dalla rapidità del movimento, non
poté che rinunciare all’assalto e
disporsi per una parata rovescia in grado di intercettare il ferro
avversario.
Ian aveva bene a
mente
la raccomandazione del maestro d’armi di Chatel Argent,
durante il suo
addestramento a Chécy: “il colpo migliore
è sempre quello che percorre la
minore distanza, il colpo della strada retta”.
Ebbene,
vuol dire che d’ora in poi farò l’esatto
contrario,
se voglio avere qualche possibilità di sorprendere quel
maledetto.
Un istante prima
che la
sua lama toccasse quella dell’inglese, arrestò
l’attacco, ruotò i gomiti e in quello
che sembrò un solo movimento, senza soluzione di
continuità, eseguì un giro
completo su se stesso nella direzione opposta.
Glasdale si
avvide troppo
tardi di quel gesto folle. Per preparare la difesa aveva caricato tutto
il suo
peso sulle spalle e sulle braccia, che ora erano lente a reagire. Senza
poterne
approfittare, osservò il rivale che per un istante apriva
del tutto la guardia,
mentre piroettava su se stesso.
L’avvitamento
del busto
fornì al colpo di Ian una forza e una
imprevedibilità altrimenti
inimmaginabili.
Per la prima
nella sua
vita, Glasdale conobbe l’atroce consapevolezza di non aver
saputo prevedere,
con una frazione di anticipo, la mossa del suo avversario.
Un istante dopo
percepiva un lampo incandescente abbattersi contro il suo fianco
sinistro,
proprio sotto la corazza, dove lo proteggeva solo una cotta di maglia.
Nessuno era mai
riuscito a ferirlo in un duello, era incredulo e indignato. Non
riusciva a
spiegarsi in che modo quell’uomo avesse trovato le forze,
l’ingegno e la
velocità per sferrare un attacco del genere.
L’umiliazione lo ferì più del
dolore che gli bruciava il fianco. Sollevò l’arma,
bramando di vendicare senza
indugio quell’offesa intollerabile.
Ian
disimpegnò la lama
dalle maglie di ferro che aveva sbriciolato, staccò la mano
sinistra dall’elsa,
e col solo movimento del polso dell’altra mano,
mulinò il ferro come se fosse
un’elica impazzita. La spada ruotò più
volte su se stessa, e quando Ian l’arrestò,
la stava impugnando al contrario, pronto a lanciarsi contro
l’avversario con un
gesto ancora più folle e inatteso.
Sollevò
in alto il braccio, adoperando come
un’arma il pomolo forgiato con la testa del falco e si
scagliò su Glasdale, con
tutta la forza di cui era capace. Lo centrò sulla parte
bassa dell’elmo, cogliendo
l’inglese del tutto impreparato a fronteggiare quella mossa
inconcepibile.
Il metallo che
proteggeva Glasdale si incrinò, screziandosi di rigagnoli
sangue.
E Ian
colpì ancora,
ancora e ancora, riducendo in una poltiglia raccapricciante il muso
dell’inglese, finché il pomolo stesso della sua
spada si sbriciolò sotto la sua
furia.
Solo allora fece
un
passo indietro e ruotando nuovamente tra le dita l’elsa della
spada, tornò a
impugnarla nel verso corretto, preparandosi a sferrare il colpo di
grazia.
Glasdale sI
levò l’elmo
sputando a terra l’impiastro di sangue e denti che gli
riempiva la bocca. La
lingua si muoveva liberamente nel palato, senza trovare più
altro attrito che
il sangue.
L’incredulità
lasciò
per la prima volta il posto al terrore. Qualcosa aveva trasformato
quell’uomo e
non riusciva a capire cosa. Ian sembrava attendere che
l’avversario fosse di
nuovo pronto a brandire la sua arma.
Glasdale decise
di
accontentarlo immediatamente, si scagliò su di lui come un
cane rabbioso,
facendo cozzare la sua lama contro quella di Ian e impegnandola in una
prova di
forza e di abilità che sapeva che non avrebbe mai potuto
perdere.
Con un solo
movimento
del polso che aveva imparato da Geoffrey Martewall, Ian
strappò via la spada
all’inglese, facendola volare in alto e lasciando una volta
di più Glasdale
sgomento. Con la mano sinistra, Ian afferrò l’elsa
dell’arma del rivale mentre
ricadeva in basso. Ci fu lo stridore acuto del metallo contro metallo,
mentre
incrociava a forbice le due spade ai lati della gola del suo avversario.
Sul campo
calò un
silenzio innaturale.
Poi Ian
udì le grida
dei francesi che esultavano e lo acclamavano e di colpo la sete di
vendetta che
per tanto tempo l’aveva consumato,
l’abbandonò, mentre la stanchezza aveva
finalmente ragione di lui. Separò le due lame tese davanti
alla testa di
Glasdale e abbandonò le braccia lungo i fianchi, facendo
strisciare le punte
delle due spade a terra.
Glasdale
indietreggiò
cautamente verso il cancello della fortezza alle sue spalle.
Era sconfitto,
finito,
umiliato. Ma più di questo, non riusciva a capacitarsi di
come era potuto
accadere.
Gustò
il sapore
metallico del suo sangue. Tutt’intorno scorgeva solo i volti
ostili dei suoi nemici,
che gli gridavano contro ogni genere di oscenità.
Incrociò lo sguardo con la
strega francese dentro l’armatura. Nei suoi occhi vi lesse
una pietà che non fu
capace di sostenere.
Distolse
immediatamente
lo sguardo e fu sbalordito di posarlo su un’altra donna,
quella cagna maledetta
che non era riuscito né ad uccidere né a
possedere. Vi scorse un odio infinito,
identico a quello che covava lui stesso verso tutta la gente. Ma poi
l’odio negli
occhi della ragazza si smorzò, tramutandosi in una desolata
commiserazione.
Voltò
disperatamente gli occhi in un’altra
direzione, e Incrociò lo sguardo del giovane conte di
Ponthieu che lui stesso
aveva assassinato insieme al padre, a Verdun. Ma anche quel fantasma lo
osservò
severamente, esprimendo silenziosamente soltanto pena e compatimento.
All’ora
estrema, gli incubi del suo passato erano tornati ad esigere il loro
prezzo.
Per Glasdale fu
troppo,
gli sguardi della folla presero a turbinare nella sua testa, insieme
alle
occhiate impotenti di tutte le vittime a cui in passato aveva strappato
la vita.
Perché tutti lo stavano fissando con
quell’espressione di insopportabile pietà?
Perché nessuno lo temeva più?
Quelle domande
senza
risposta lo gettarono nella follia e urlò più
volte a quegli occhi di
smetterla, ma essi non smisero di vorticare, né di fissarlo.
Girò
goffamente su sé stesso,
nel disperato tentativo di scorgere un posto dove quegli sguardi
indagatori non
avrebbero potuto seguirlo: davanti a lui si apriva la cancellata della
fortezza
in fiamme e senza esitazioni, si lanciò dentro.
Nessuno lo
fermò.
Eccola Les
Tourelles,
l’inespugnabile. La roccaforte che finché lui era
vivo non sarebbe mai caduta.
Si addentrò ancora per qualche passo all’interno
del passaggio, mentre il fumo
nero lo accoglieva nel suo fosco abbraccio. Cominciò a
tossire e a sputare
sangue, mentre avanzava barcollando, picchiando di qua e di
là contro le mura e
i sostegni della fortezza.
Lontano dalle
porte, il
calore era intollerabile e le fiamme incombevano dall’alto e
da ogni lato,
aggrappate alle travi che bruciavano. Inevitabilmente, una lingua di
fuoco ghermì
la sua lunga chioma rossiccia, imprigionando i capelli
nell’odore
raccapricciante della morte.
Glasdale se ne
avvide
solo quando il calore incandescente lambì la carne.
Agitò le mani nel vano
tentativo di difendersi dal fuoco, ma riuscì soltanto a
bruciarsi le dita. Non
aveva fiato per urlare, non poteva fare nulla per alleviare il dolore
lancinante, allora cominciò a correre. Una luce tenue
illuminava il cancello
sul retro che immetteva sul ponte e concentrò tutte le sue
forze per
raggiungere l’uscita.
Attraversò
il ponte impazzito dal
dolore e mentre esalava un ultimo grido disumano, si gettò
nella Loira, compiendo
il suo destino.