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Autore: vincenzoborriello    17/10/2010    1 recensioni
Questo breve racconto affronta la questione delle difficili condizioni di vita clochard, prendendo spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era la prima notte mite, dopo un rigido inverno. Il cielo era limpido e mi addormentai, disteso su di una scomoda panca, contando le stelle che in esso brillavano. Sporadicamente il fischio di un treno disturbava il mio sonno, ma solo per poco, avendo appreso a dormire, dopo anni di vita in strada, anche nelle peggiori delle condizioni. Lasciai il mio paese…non ricordo quanti anni or sono. Lo abbandonai per essere libero…libero di seguire la mia passione, la mia natura, desideroso di riappropriarmi della mia identità, della mia vita. Non sapevo bene a cosa stessi andando incontro; quando armato di un piccolo fagotto con dentro le mie poche cose, partii lasciandomi il passato alle spalle con il sogno di costruire il mio futuro, giorno dopo giorno, mattone su mattone. Sono un artista e d’arte volevo vivere, saziarmi, di essa volevo inebriarmi. Dove sono nato avevo un nome, ma in molti, forse in troppi, mi conoscevano come “IL Pittore”. Perseguitato per la mia arte, accusata d’essere immorale, pornografica, e blasfema persino, una notte, priva di stelle, come se fosse un segno nefasto del mio fato, lasciai Teheran. Quella notte era certo, se non di fare la cosa giusta, di fare quanto meno l’unica cosa possibile…cogliere l’alternativa al nulla, scegliere tra una vita tranquilla tentando di metabolizzare il prima possibile il lutto per la morte della mia arte, o tentare. Tentare di salvare l’arte che era in me affinché i miei quadri sopravvivessero alla mia stessa vita. Sapevo che non sarebbe stato facile, vivere da clandestino in un paese straniero, ma era sempre meglio che vivere da clandestino nella terra che mi ha dato i natali. Giunsi in Italia su di una nave, ma prima attraversai città e deserti, imbattendomi in cadaveri di persone che prima di me avevano intrapreso quel disperato viaggio. Attraversai l’Iraq, poi la Siria. Lì m’imbarcai su una nave merci insieme con altri disperati. Tutti con lo stesso sogno di una vita migliore. Ricordo il capitano di quell’imbarcazione, era un Siriano. Aveva una grossa cicatrice all’altezza dell’occhio destro, che era mancante, un ghigno perenne stampato sul volto di marinaio vissuto. Portava alla cintola una pistola, non so dire di che modello, non essendo esperto di armi. Sventolava quell’arma davanti agli occhi di noi tutti per intimidirci. Non bastava, infatti, aver pagato 30000 SYP, dovevamo anche lavorare sulla nave. Lavori massacranti che non erano risparmiati neanche ad una donna incinta che viaggiava con noi. Bastò un solo giorno di navigazione perché capissi che su quella nave non eravamo nessuno, non esistevamo, e se qualcuno di noi fosse morto, nessuno se ne sarebbe accorto a parte i pesci che avrebbero divorato il cadavere gettato in mare. E così fu quando Akbar fu ucciso con una pugnalata al cuore, per difendere la sua donna da Emad, un membro dell’equipaggio. Atterriti guardammo i corpi di Akbar, a cui fu legata sua moglie Anahita, dopo essere stata violentata, gettati in mare, con lei ancora viva. Invisibili, perché in molti fingono di non vederci, ecco cosa siamo noi che come fantasmi, ci aggiriamo tra le città, fatte di grigie mura e di automi che corrono da una parte all’altra, senza fermarsi un solo attimo per guardare, per riflettere. Puoi porre a queste persone mille domande, tutte diverse, tutte interessanti, ma ti daranno sempre la stessa fredda risposta: «Non ho tempo!». A volte penso che il vero fortunato sono io, perché ho tempo. Ho tempo per ascoltare, ho tempo per pensare, ho tempo per osservare, ho tempo per capire, comprendere, ho tempo per sorridere e per piangere. Lascio che le poche cose che la vita mi offre, mi riempiano fino a saziarmi. Non come quei ragazzi, che quella notte, annoiati dal vuoto perenne che si portano dentro, come un fardello di cui ignorano l’enorme peso, bighellonavano nei pressi della stazione. Non era la prima volta che li vedevo, anzi erano sempre lì la sera, sembrava si pavoneggiassero della loro stupidità, della loro miseria interiore. Uno di essi, credo il più grande dei tre, penso fosse poco più che maggiorenne, mi sgambettò mentre passavo davanti a lui. Risero, io non cercavo guai, così mi alzai da terra in silenzio ed andai via. Il silenzio…tante volte mi ha accompagnato lungo la mia vita e quante volte avrei voluto che s’interrompesse, magari da una risata amica, ma quanti hanno voglia di ridere tra quelli come me, che devono ritenersi fortunati se trovano un posto per la notte non troppo freddo da morire assiderati. Sopravvissuto all’inverno credevo che il peggio fosse passato, la mattina avevo venduto un quadro, intascai pochi euro, ma andava bene lo stesso, ero felice perché il mio quadro era piaciuto a qualcuno. Chiusi gli occhi per riposare, dormivo quando fui scaraventato a terra dalla panchina su cui ero disteso. Non riuscivo a vedere nulla, tenevo gli occhi chiusi e rannicchiato in terra cercavo di proteggermi dai calci e dai pugni che mi davano. Persi i sensi, non ricordo per quanto tempo, è ancora tutto così confuso, rinvenni perché avvertii un forte bruciore alle gambe. Spaventato aprii gli occhi e mi accorsi che stavo bruciando, mi avevano dato alle fiamme e per il dolore svenni nuovamente. Mi risvegliai in ospedale con ustioni su gran parte del corpo, ma quello che bruciava ben più delle ustioni furono le parole usate dai tre ragazzi dopo l’arresto. Dissero :«Cercavamo un barbone a cui fare uno scherzo, uno che dorme in strada, non per forza un romeno, un ragazzo di colore, solo uno a cui dare una lezione. Volevamo fare un gesto eclatante, provare una forte emozione per finire la serata.» (vera dichiarazione di un ragazzo accusato insieme ai suoi amici di aver dato fuoco ad un senzatetto)
   
 
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