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Autore: crazyfred    18/10/2010    7 recensioni
Questa ff è il seguito di Canto di Natale, ed i Robsten sono ben indaffarati a preparare il loro GIORNO MIGLIORE...dal capitolo1:… mio Dio, non posso ancora crederci, io ho sposato davvero Rob, e aspetto un figlio suo … sfacciatamente fortunata!!! ... nei miei pensieri queste parole ricorrevano spesso in quel periodo. Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo.I personaggi non noti della storia sono frutto della mia fantasia, e le loro interazoni con i personaggi noti sono assolutamente fittizie.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kristen Stewart, Robert Pattinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'My big complicated Robsten family'
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The best day - capitolo 27 Sono desolata se venerdì ho saltato la pubblicazione del capitolo, ma purtroppo ho avuto un guasto tecnico al computer e non ho potuto scrivere, ed ero così di cattivo umore che se anche l'avessi fatto sul mio quaderno di scrittura sarebbe venuto fuori un disastro. ma bando alle ciance. buona lettura e mi raccomando alle recensioni.
vi aspetto come sempre alla fine del capitolo nell'angolo dell'autrice.



















CAPITOLO 27 - Monkeys and little rabbits
P.O.V. Kristen

Ero stanca, come se avessi fatto il giro del mondo a piedi senza mai fermarmi, ma paradossalmente sentivo che avevo dormito abbastanza per i miei ritmi, ed il mio corpo premeva per restare sveglio e rimettersi in moto al più presto.
Aprii dunque gli occhi e mi ritrovai in una stanza d'ospedale, con un ago conficcato nel mio braccio sinistro ed una flebo di chissà cosa collegata ad esso. Ovviamente ricordai in un istante perché fossi lì; mi senti immediatamente meglio e le mie labbra si distesero in un sorriso astatico e beato, e tutte le mie ossa a quel pensiero ripresero vigore. Volevo, anzi dovevo vederla.
La mia creatura era nata, ed era una splendida bambina.
A dir la verità, non è che la ricordassi nitidamente.
L'avevo vista e avuta tra le mie braccia per pochi, brevi istanti, giusto il tempo necessario a realizzare che quello non era un sogno, ma la più bella delle realtà, ed il mio ventre sgonfio ora ne era una prova inconfutabile; ma poi, altrettanto rapidamente me l'avevano portata via, quasi con violenza, ai miei occhi, per i controlli dei primi minuti. Non ebbi la forza di protestare, sfinita dalla fatica del parto, soprattutto se quei controlli erano davvero importanti per la sua salute, ma ero rimasta interdetta e contrariata dal modo in cui presero la piccola, quasi strappandola al nostro momento madre-figlia. Sapevo che avremmo avuto tutta una vita davanti per recuperare, ma era un momento così speciale quello, il primo tutto nostro, che sprecarlo mi sembrò una blasfemia.
Ma dovevo essermi addormentata prima che me la portassero di nuovo e quindi, per consentire un riposo migliore e una ripresa più rapida da parte mia, avranno pensato che fosse il caso di lasciarla nel nido, insieme agli altri neonati; voltandomi, infatti, non trovai la culletta come avevo visto, durante le mie visite, nelle altre stanze del reparto.
L'avevo vista per pochi secondi e tutto ciò che ricordavo di lei era un batuffolino piccolo e paffuto avvolto in un telino verde, tutta sporca e già con delle guanciotte leggermente arrossate. Le manine erano chiuse a pugno, quasi a voler protestare per tutto il trambusto ed il baccano che l’avevano accolta, e gli occhietti chiusi, serrati mentre piangeva, accecati dalla luce dei neon che erano accesi nella stanza. Persino quando l’appoggiarono al mio petto, nella tranquillità che i battiti del mio cuore le infondevano, aveva continuato a tenere chiuse le palpebre, seppur rilassate, la mia piccola dispettosa. Non avevo quindi potuto vedere quale fosse il colore dei suoi occhi, la cosa che prima di tutte avrei voluto conoscere di lei. Probabilmente si era divertita a nasconderli, perché tante volte le avevo confidato, mentre eravamo da sole, che avrei voluto vedere sua padre nei suoi occhi, e l’avevo spronata a impegnarsi in questo. O chissà, lei e suo padre forse si erano già alleati contro di me, ed aveva i miei occhi.
Ora che la parte più dura era passata avrei dovuto pensare ad un nome da darle: l’avevo tenuta con me talmente poco, che i miei vaghi ricordi di lei non potevano aiutarmi a trovare un nome che le si addicesse. Ero sicura, inoltre, che avrei dovuto tenere a bada Robert che, preso dall’euforia del momento, avrebbe potuto sfoderare, ne ero certa, i nomi più strampalati ed improponibili. Ecco perché dovevo assolutamente vederla.
Già, Robert. Era lì accanto a me, accucciato e appisolato in una poltroncina di pelle, di fianco al mio letto. Dalla luce che filtrava nella stanza dalla finestra, si poteva indovinare che era una mattina calda ed assolata a Londra, e dunque Robert era rimasto tutta la notte accanto a me, perché ancora indossava gli abiti con cui mi aveva accompagnata in ospedale, e aveva un faccino a dir poco sbattuto. Le occhiaie erano decisamente marcate, la barba incolta ed ispida era ancor più accentuata dalle righe che, a causa della cerniera del cuscino, gli erano rimaste stampate sulla guancia. Dormiva profondamente, con la bocca leggermente aperta, raggomitolato su una poltroncina troppo piccola per lui, e immaginavo che si era opposto con tutte le sue forze alle palpebre che scendevano sui suoi occhi a chiudersi, perché nei suoi sogni di futuro padre c’era quello di non perdersi un minuto di quella veglia, ma soprattutto del mio risveglio, quando sarebbe stato lì ad accogliermi, magari un po’ assonnato, ma sorridente. Avrei rispettato questo suo piccolo desiderio, e avrei fatto attenzione a farmi trovare con gli occhi chiusi, ad un suo minimo accenno di risveglio.
Sul comodino la radiosveglia segnava le 9 del mattino di giovedì primo luglio 2010.
Ricordavo vagamente il ginecologo annunciare la nascita della piccola, la sera prima, avvenuta alle 23.45. La mia piccola ci aveva giocato un bello scherzo: era nata agli sgoccioli del 30 giugno, il giorno in cui Eclipse usciva nelle sale. I fan, ne ero sicura, sarebbero andati nel delirio più totale. Avevo dormito per nove ore di fila e per tutto quel tempo Robert era rimasto al mio fianco. Non mi stupì che avesse un’espressione tanto sbattuta.
Nel frattempo, per non fare rumore e rischiare di svegliarlo, diedi uno sguardo veloce ma attento alla stanza. Non era fredda e asettica come tutte le degenze ospedaliere, bianche e spoglie, ma, al contrario, era calda ed accogliente, le pareti dipinte di fresco con un rosa salmone, quasi arancio ed il mobilio nuovo e familiare. Avevo scelto quella struttura proprio perché, oltre alla professionalità del suo personale e alla grande riservatezza, garantiva anche quell’atmosfera serena ed informale, che sembra di essere in casa anziché in una clinica, seppur extralusso.
Alla mia sinistra, sul lato di ingresso nella stanza, su di un comò sobrio ed elegante in legno, erano stati posizionati diversi vasi con bouquet di fiori coloratissimi, degni dell’estate inoltrata ed alcuni peluche di orsacchiotti e paperotti sbucavano qua e là, nel poco spazio che era rimasto per loro sul ripiano; erano uno più dolce dell’altro, e già immaginavo la mia bambina giocarci ed io davanti a lei come la più tipica mamma isterica attenta perché li mettesse in bocca.
Notai poi che all’angolo tra il letto ed il mobile c’erano dei palloncini ad elio colorati, a forma di cuore; probabilmente alcuni erano stati portati da casa mia dove la festa era stata interrotta proprio sul più bello, altri invece erano nuovi di zecca: oltre ai classici AUGURI, W LA MAMMA, BENVENUTA ce n’era uno, che settava sugli altri, ed era stato messo in prima linea: TI AMO, c’era scritto. Una sola persona poteva averlo portato, ed in quel momento era lì accanto a me.
A seguito della nascita della piccola, avevo scoperto, con mia enorme sorpresa, quanto il cuore di una donna, possa essere colmo d’amore. Non avevo, infatti, diviso il mio amore tra lei ed mio marito. Al contrario, invece, questo amore si era raddoppiato, triplicato anche, e sentivo che il cuore poteva contenerne tanto altro.
Amavo la mia bambina pur avendola vista anche solo pochi secondi, ed amavo Robert, perché nelle sue paranoie, nelle sue paure, nei suoi complessi, era sempre al mio fianco, sempre.
“Kris …” un debole sussurro alla mia destra mi fece capire che Robert si era risvegliato.
Mi voltai verso di lui e notai che  da sveglio sembrava ancor più stanco di quando era addormentato. In più, sul suo volto, notai una vena di preoccupazione che, calmo, non aveva nel riposo. Allungai verso di lui il mio braccio destro, che non era braccato dal deflussore della flebo, con quel poco di forza che i muscoli mi offrivano, e lui non si fece attendere più tanto; mi strinse forte la mano con le sue, sempre calde e delicate, attente a me come fossi un prezioso vaso di porcellana francese. Si alzò dalla poltrona e si portò a sedere sul letto, di fronte a me. Sempre tenendo con una mano la mia, portò l’altra sulla mia guancia, riscaldandomi con una sua carezza fin dentro l’anima; con un suo sguardo, struggente e profondo, attento al più piccolo dettaglio del mio volto, uccise le ultime forze che avevo. Era possibile che non abituarsi mai al suo modo straordinario di prendersi cura di me, alla sua maniera gentile e sensuale di amarmi ogni secondo? Sì, scoprii decisamente che lo era.
Era rimasto in silenzio, mentre mi scrutava, e finalmente, seppur flebile e quasi strozzato da singulti interiori, che i suoi occhi non potevano celare, mi disse: “Amore mio … sei bellissima!”
Io arrossii immediatamente alla sua dichiarazione, sconvolta dalla commozione che l’aveva accompagna, e scostai il mio viso per nascondere la vergogna ed il rossore, ed anche le lacrime che iniziavano a venire fuori. La sua era certamente un’opinione di parte, in più era stato sicuramente indulgente perché l’equilibrio emotivo post-partum di una donna è notoriamente precario, ma sapevo perfettamente quanto fosse menzognero. Mi ero vista poco prima, seppur di sfuggita, nel piccolo specchio da toeletta che avevano messo su comodino di fianco al letto, e avevo visto riflessa la peggiore delle Kristen mattutine: alone nerastro sotto gli occhi, puntini lentigginosi tutt’attorno le guance e sul naso e la punta del naso e le narici rosse come se avessi una brutta febbre da fieno.
“No, non è vero!” mugugnai, lamentandomi scherzosamente della sua bugia.
Lui sembrò divertito dalla situazione e continuò ad accarezzare il mio volto, scendendo fino al collo e aprendosi finalmente in un sorriso più rilassato.  “È così … davvero … sei bellissima!!!” non potei in alcun modo protestare, e sinceramente nemmeno mi interessava tanto, perché si avventò con foga sulle mie labbra, a dover sfogare una tensione inspiegabile, repressa per troppo tempo. Non capii. Quasi si allungò su me, cingendo i miei fianchi ed il mio fisico, ricordandomi che avevo partorito da poche ore, protestò con una fitta sul ventre. “mmmh! Noo!!” fui costretta a lamentarmi, con un fremito strozzato in gola dalle sue labbra che premevano ancora sulle mie. Si staccò repentinamente, guardandomi con timore di aver commesso chissà quale grave errore.
“Come stai?” si rivolse a me, preoccupato.
“Sto bene” risposi, con sollievo, per il dolore scomparso rapidamente.
“Sicuro?” non mi credeva, sapeva che tante volte per non preoccuparlo avevo celato i miei malesseri. Non avevo però motivo di mentirgli e dunque risposi, onestamente: “Sì. Stanca, ma bene!” restammo immobili per alcuni secondi, a guardarci negli occhi. I suoi erano ancora agitati, sconvolti dalla grandezza dell’evento e cercai con i miei di rassicurarlo; non c’era ragione per avere paura, se restavamo uniti.
“Tu come stai?” gli domandai, retoricamente, ma non lasciai che mi rispondesse continuando a parlare “mi dispiace essermi svegliata prima di te ed aver rovinato il tuo sogno”.
Sorrise, mi  aveva capita al volo, come sempre; fece spallucce “oh, figurati, era solo una stupida fantasia …”. Sapevo che per lui era qualcosa di più: una dimostrazione, piuttosto, del suo amore per me, lui che amava stupirmi e dimostrarmi il suo sentimento nei suoi più minimi particolari, come i pittori manieristi nelle loro opere. Forse era al limite della mania, ma io lo amavo anche per questo.
“Mi dispiace anche che tu sia dovuto rimanere qui tutta la notte, potevi lasciare che fosse tua madre ad assistermi, so che ci teneva, e tu tornare a casa a riposare …”
“no, non potevo” mi interruppe, tornando serio. Proseguì: “ho rimandato tutti a casa perché qui non c’era molto da fare per loro, poi con i tuoi in arrivo volevo che ci fosse qualcuno ad accoglierli …”
“I miei sono qui?” domandai, felice.
“Sono in albergo ora, sono arrivati alle otto e sono corsi direttamente qui ma tu dormivi ancora così li ho mandati via … torneranno al prossimo turno visite” mi rispose tranquillo “tua madre, lo sai com’è fatta, voleva darmi il cambio con te, ma non potevo, non dopo stanotte …”
“Stanotte? Che ho combinato stanotte?” chiesi, più scherzosa che altro; tuttavia Robert non sembrava altrettanto divertito. Mi fissò negli occhi, tornando a sedersi alla poltroncina, con un espressione grave e di nuovo preoccupata “non è per te che ho passato la notte in bianco, Kris …” mi freddò.
Mi rifiutavo di comprendere, di realizzare ciò che il mio istinto materno aveva già elaborato. Cercai di tirarmi almeno a sedere sul letto, e Rob si precipitò ad alzarmi lo schienale. Lo bloccai immediatamente per un braccio e i nostri occhi si scontrarono per pochi secondi, perché lui distolse in fretta il suo sguardo, ma furono sufficienti quei brevi istanti a comprendere che i miei timori erano fondati.
“La bambina Rob? La bambina?” mi ritrovai, senza volerlo, ad alzare il tono di voce contro di lui. Robert non poté altro che annuire, passivamente ed esausto, prostrato per aver dovuto affrontare quella notte, terribile a quanto sembrava, da solo.
“Cos’ha la bambina?” la mia voce era rotta, mentre urlavo dei singhiozzi avevano infatti iniziato a spezzare il mio respiro in gola e, per quanto cercassi di respingerlo, il pianto si faceva prorompente ad ogni secondo che passava.
“Subito dopo la nascita ha avuto una crisi respiratoria … i suoi polmoni sono ancora immaturi …”
Non potevo crederci. Sapevo che sarebbe stata piccolina e sicuramente più debole del normale, dato il parto prematuro, ma non immaginavo che le condizioni potessero essere tanto peggiori. Dio, che madre ero da non essere riuscita a crescere mia figlia nel mio grembo? Perché non ero stata attenta quando il medico non aveva fatto altro che raccomandarsi? Perché, Dio, perché?
Non ero mai stata una persona dalla fede solida e praticante eppure non riuscivo a fare altro che interpellare a Dio sul perché di quella sofferenza, di quel dolore tanto grande inflitto ad una creatura così piccola ed indifesa; se mi ero comportata male, perché allora non aveva punito me, e si era invece accanito sulla mia creatura?
Non conoscevo l’entità della crisi, né le conseguenze, ma i pensieri più brutti affollarono in un istante la mia mente, portandomi quasi uno stato di shock, ma sicuramente ad una crisi di pianto e nervi.
Iniziai ad urlare: “Voglio vederla Rob! Fammela vedere! Voglio vedere la mia bambina!!!” lui, impotente, tratteneva a stento delle lacrime che per pietà, amore e frustrazione condivideva con me  e tentava di calmarmi come meglio poteva. “Calma Kris, devi stare calma, sei ancora molto debole!” Nei suoi occhi rividi le mie paure, il mio smarrimento, le stesse domande che stavano affollando la mia mente, e capii che davvero era impotente in tutta la questione e che, se avesse potuto, avrebbe dato se stesso per far terminare quell’inferno. Ma non riuscivo a darmi pace.
Una piccola equipe medica e paramedica entrò nella stanza di corsa a tentare di calmarmi e solo dopo mille preghiere e carezze di Robert riuscii a placarmi ed evitare dei tranquillanti che avevano già preparato da introdurre direttamente in vena. Sarebbero stati un biglietto di sola andata direttamente per il mondo dei sogni e non volevo assolutamente che accadesse; dovevo accertarmi con i miei occhi che la situazione, come sostenevano i medici, non fosse poi così grave, dovevo vedere mia figlia.
Mi aiutarono a salire su una sedia a rotelle, i miei muscoli non erano ancora così rinvigoriti da permettermi di camminare da sola, per lunghi tratti e venni accompagnata, da un infermiera, insieme a Robert, nel reparto di neonatologia dell’ospedale. Mi fecero indossare un camice e la cuffietta per i capelli. Mentre entravo nel piccolo reparto, seduta in carrozzella, scorgevo a malapena, dalla mia altezza, tutte le culle termiche che contenevano tutti quegli scriccioli. Erano uno più piccolo dell’altro e sembravano così beati mentre riposavano, ma la loro quiete e innocenza celava la malattia, la sofferenza, il dolore. Mi chiedevo se nelle loro memorie sarebbe rimasto un ricordo, seppur inconscio di quei momenti; speravo ardentemente che fosse l’oblio ad occuparsi di quei giorni.
Ci fermammo davanti ad una culla, e sul lato c’era scritto baby Pattinson – Stewart. Non aveva un nome, e non volevo che fosse la fretta e il terrore di perderla a costringerci a sceglierne uno: baby Pattinson - Stewart suonava bene, al momento. Volli alzarmi, testarda, per poterla vedere meglio e Robert mi aiutò, cingendomi i fianchi ed io mi sorressi sulle sue grandi spalle.
Eccolo il mio angelo. Era sveglia, e sperai che lo fosse perché in attesa di rivedere la sua mamma. I suoi grandi occhioni era finalmente aperti, sgranati ed erano blu. Blu, come l’oceano più profondo, come gli zaffiri più rari. Dio ti ringrazio! Almeno questo regalo me l’hai fatto …
Rapita da quello sguardo così sveglio, vispo ed anche ammaliante, così simile a quello di suo padre, quasi non mi curai del resto. Ma fui costretta a far fronte alla realtà più cruda. A parte il pannolino,e la medicazione che le copriva il moncone del cordone ombelicale, la bimba era completamente nuda, e sul suo petto, così piccolo, che si alzava e si abbassava con grande rapidità, come se avesse fame d’aria, erano stati attaccati tre piccoli elettrodi che controllavano i battiti del suo cuoricino. Ad uno dei piedini un altro cerottino collegava la bimba ad un’altra apparecchiatura ed, al suo nasino, erano stati posti i tubicini per l’ossigeno.
Eppure non si lamentava, sopportava in silenzio tutte quelle torture ed i suoi occhietti, così giovani, ma già così intelligenti, mi imploravano solo di porre fine a tutto questo.
Si avvicino a noi un medico, che supposi essere il neonatologo che si occupava della piccola, dal modo in cui Robert si era approcciato a lui.
“Dottore, lei è mia moglie …” gli comunicò.
Senza battere ciglio, mi si avvicino e con un gran sorriso, che non mi aspettavo date le circostanze, mi posò un braccio sulla spalla, accarezzandomi leggermente la schiena, a darmi coraggio.
“Lo capisco signora, che vedere la piccola così le fa paura … o comunque le fa male, ma se le dicessi che la sua bambina è quella che sta meglio, mi crederebbe?” restai interdetta dalle sue parole, non potevo credere che la bambina non fosse poi così grave. Allora perché aveva tutti quei macchinari addosso? Certo, mi  faceva male saperla costretta lì, e non tra le mie braccia, e sapevo che faceva male anche a lei stare lontana dalle braccia dei suoi genitori.
“ma … la crisi?”
“La crisi respiratoria l’abbiamo gestita molto bene, ma del resto eravamo preparati ad un’eventualità simile. È troppo piccola ed i suoi polmoni non erano completamente maturi, nonostante fossero ormai formati. Comunque ora l’emergenza è rientrata; stiamo sottoponendo vostra figlia ad una terapia con il Surfactante, una sostanza che permette ai polmoni di lavorare e che lei non produce ancora in quantità sufficienti. Ma presto lo farà …” sorrise, guardando la piccola “e siamo abbastanza fortunati perché la sua bambina è anche più grande del normale per la sua età gestazionale, è 2 chili e 100 grammi, una rarità per un neonato di sette mesi. Questo ci fa ben sperare per una sua ripresa precoce”
Mi sentii come svuotata da un macigno e quasi mi sarei stesa per terra se Robert non mi avesse sostenuta da dietro. Non che avessi capito molto dei grandi e troppo tecnici paroloni che il medico aveva usato, ma alcune di quelle cose mi erano rimaste impresse nelle mente e non facevano altro che riecheggiare rimbombanti ed io non potevo che aggrapparmi a quelle a più non posso, sperando con tutta me stessa che non fosse un sogno.
“Ehi, tesoro, stai bene? Vuoi sederti un po’?” si affrettò a chiedermi Robert, concitato, tenendomi stretta a sé più che poteva.
“Sto bene, sto bene. Sono tutte queste emozioni tutte insieme … adesso mi passa”
Mi rimisi in piedi correttamente e da sola, con Robert che mi vegliava e mi stava vicino. Mi avvicinai più che potevo alla culla termica finché il freddo del vetro non mi ricordo che oltre quel limite non potevo andare. Vedere mia figlia così vicina, ma così fragile da non poter nemmeno toccarla, e questo chissà per quanto tempo, mi fece sprofondare di nuovo nella disperazione. Sarebbe andato tutto bene, me l’avevano assicurato, ma io non avrei tollerato quella situazione troppo a lungo. Appoggiai la mia fronte sul vetro dell’incubatrice. L’infermiera, che per tutto quel tempo era rimasta con noi mi si avvicinò discreta. Ho sempre pensato che fossero loro i veri angeli in ospedale: stanno nelle retrovie, non si prendono mai il merito per il loro lavoro, ma ci sono sempre quando hai bisogno di loro. Senza grandi gesti, né parole, aprì due piccoli oblò nella culla e mi invitò ad introdurvi le braccia. Avrei potuto stringere la mia piccola, almeno finché il mondo esterno non fosse stato abbastanza caldo per lei, e mantenere la temperatura del ventre materno non fosse più così importante.
La vedevo con i miei occhi, era piccolissima, al massimo 45 cm, eppure prendendo le sue manine tra le mie mi resi davvero conto di quanto fosse piccina. Con le mie mani, facendo attenzione più che potevo accarezzai la testolina e lei, a quel contatto, chiuse gli occhi, aprendo la boccuccia in uno sbadiglio, troppo grande per il suo visino minuto. Aveva una leggera peluria, che sapevo ben presto sarebbe caduta per far posto ai capelli veri, di certo biondi come quelli del suo papà.
“Ciao amore della mamma!” le sussurrai, cantilenando, come in una ninna-nanna “ma come sei bella amore mio!” nonostante fosse davvero piccola era davvero bella, ed immaginai che appena avesse preso un po’ di peso sarebbe diventata stupenda, la più bella bambina del pianeta.
Al suo della mia voce si ridestò dal sonno che stava per rapirla e sbarrò di nuovo gli occhi, come se volesse prolungare il più possibile il contatto con la mamma, che in quella prima notte della sua vita, le era mancato.
“Guarda che occhioni!!!” esclamò Robert, incantato davanti a sua figlia.
“Che ti avevo detto che sarebbero stati come i tuoi?” incalzai io, in un’atmosfera decisamente più rilassata.
“L’hai corrotta per sette mesi e mezzo, non vale!!!” scherzò lui, divertito “… la mia scimmietta!!!”.
Mi voltai di scatto verso di lui, esterrefatta. Sapevo che ne era capace, ma non potevo tollerare che mia figlia ricevesse quel soprannome, soprattutto da suo padre.
“Come l’hai chiamata scusa?” gli chiesi. “Scimmietta” rispose lui, senza mezzi termini, convinto della sua posizione; certamente non aveva capito con chi aveva a che fare.
“Tu mia figlia non la chiami scimmietta!!!” gli intimai “al posto suo mi sentirei offesa, non è vero piccola?” continuai, stringendole le manine, chiedendole un appoggio che ero certa non mi avrebbe rifiutato, nel nome della complicità femminile. Speravo non avesse avuto già un incontro ben ravvicinato con suo padre, innamorandosene come accade a tutte le donne, perché altrimenti non l’avrei avuta vinta così facilmente. Lei continua a guardarci, sicuramente spaesata, ma felice e serena, così come i macchinari ci dicevano con i loro beep costanti.
“E come vorresti che la chiamassi, sentiamo?” mi sfidò Robert, appoggiato col braccio sul tettuccio dell’incubatrice, in posizione di sfida.
Ci pensai un attimo, guardando attentamente la piccola che sotto le mie carezze andava lentamente addormentandosi. Si era girata su un fianco, leggermente rannicchiata, per quanto gioco le concedessero tutti quei fili.
“Be’” risposi “a me ricorda piuttosto un coniglietto … e poi i conigli sono anche più dolci delle scimmie”
“Sarà …” continuò Rob, scettico, tuttavia arrendendosi alla mia scelta, nascondendo poco velatamente la delusione per la sconfitta “ma a me ricorda più una scimmietta …”
La piccola si era finalmente addormentata, nonostante il battibecco, seppur scherzoso e a bassa voce, che io e Robert avevamo avuto. Era ora di andare, anche se avrei voluto mettere le radici in quella stanza e non andarmene finché non l’avesse lasciata anche lei, ma le regole erano ferree anche per noi genitori e, finché non avessi iniziato ad allattarla e le sue condizioni fossero rimaste tranquille e stazionarie quali, per fortuna, erano.
Prima di andarmene lasciai all’infermiera un cappellino leggero di cotone, che aveva delle orecchie in punta, da farle indossare. Capivo che la tutina potesse essere scomoda per il lavoro degli infermieri intorno a lei ma, almeno un cappellino, un qualcosa che avevo preparato per lei, volevo lo avesse.
Uscendo dalla sala, lanciai un’ultima occhiata verso la vetrata del corridoio, da dove si vedevano tutte le cullette. Nonostante la cameretta fosse leggermente in penombra distinsi immediatamente il nostro scricciolo: dormiva, paffuta, beata, come un piccolo angelo assopito. Il suo braccino era proteso verso il vetro, e immaginai, sperai, che stesse sognando la sua mamma ed il suo papà, ancora lì con lei, dall’altro lato dell’oblò. Ero felice, nonostante tutto, e la sua serenità mi aveva ridato forza.
Sarebbe andato tutto bene.















ANGOLO DELL'AUTRICE


Allora, da dove cominiciare. Be', innanzi tutto scusandomi per il ritardo, ma ho avuto un bel week end impegnato.
Poi ringraziandovi per il seguito sempre numeroso, anche se mi piacerebbe davvero che e recensire foste molti di più. Sono curiosa di leggere pareri, sia negativi che positivi, di coloro che mai hanno recensito. Soprattutto perché questi capitoli, che come vi ho già detto sono i finali di questa storia, per me sono di fondamentale importanza.
Mi dispiace davvero non aver svelato il nome della piccola in questo capitolo, ma sarebbe stato troppo lungo se lo avessi fatto, per cui vi chiedo solo di avere un po' di pazienza,
Non credo ci sia molto da spiegare in questo capitolo, a parte che, per le parti mediche e infermieristiche ho cercato di mantenermi in un linguaggio più facile possibile, per far si che tutti possiate comprendere. Anche il modo di esprimersi di Kristen riguardo ad alcune parole di gergo medico ho voluto lasciarle su vago, come ad esempio per la flebo (che è semplicemente per reintegrare i sali persi) e tutti i "cavi" e i "tubicini" che lei vede attaccati alla bimba; ognuno ha un nome specifico, ma se stessi qui a spiegarvelo avrei scritto un capitolo di 12 pagine di Word. E a me non è questo che interessa. Voglio far passare le emozioni dei protagonisti. In questo momento e Kristen quella che le esprime più prepotentemente, ma ho deciso che nel penultimo capitolo lascerò spazio anche a Robert, eroe silenzioso degli ultimi 2 o 3 capitoli. Per qualsiasi domanda sono qui a vostra disposizione, lo sapete.
Passiamo ora, come sempre, alle risposte alle vostre recensioni:
rmarta: l'avete conosciuta ora la piccola, abbiate un po' di pazienza e avrete anche il nome. alla prossima
marty13__: mi dispiace che abbiate dovuto attendere così tanto, ma non è dipeso da me. Sì, è una bambina, e come vedi già è l'amore della sua mamma, ma soprattutto del suo papà tutto matto. personalmente non vedo l'ora di vedere BD per vedere come si comporteranno Rob e Kristen con una bambina tra le braccia, anche se aspetto con ansia il giorno in cui avranno, si spera un bambino tutto loro.
sidney90: era facile da immaginare il sesso della piccola, un po' di meno il suo nome, ma sapete che io adoro farvi tribolare, anche se forse a volte sbaglio. Robert io lo vedo così, e secondo me un po' ci ho preso. Fa il simpatico, il fifone a volte, ma nasconde una corazza bella forta che tira fuori solo nei momenti più importanti e al di là di ciò che si dice è quello che porta i pantaloni i casa Robsten.
prudence_78: Rob l'ama troppo per prendersela con lei, e ormai non sono più dei bambini, sanno distinguere bene l'entità delle cose, quindi Robert non potrebbe mai prendersela con Kristen per ciò che è successo, sa bene che non è colpa sua. Kristen è arrivata solo ora a maturare definitivamente, ed ha pagato un prezzo bello alto, ma si risolve tutto, stai tranquilla. e nn mi sento affatto di condannarla per le sue scelte, anch'io le avrei fatte. come dici tu fanno casino in due figurarsi in tre: è proprio per questo che per spezzare un ritmo così drammatico ho scelto la scenetta dei soprannomi in questo capitolo, spero non sia troppo breve.
La Francy: non ti perdono...sei stata tra le prima a leggere e quasi l'ultima a recensire...come non ti vergogni??? scherzo!!! sono contenta che ti sia piaciuto, ma a te posso dire poco visto che quasi sempre sai cosa accade, prima che lo pubblico, anche se ora ti lascio anche a te parecchio nascoste le idee... robert parlerà presto, stai tranquilla
Enris: c'ho dovuto pensare parecchio a questo titolo, non volevo niente di scontato, niente di troppo tradizionale ed ecco che spuntano fuori quelle due lettere dell'alfabeto greco...principio e fine, nella spiritualità...be' i dubbi sono legittimi, servono a portarti in questo capitolo. ti ringrazio per la recensione dettagliata e per la tua costanza...meriteresti un premio per questo!!!



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