Squillino
le trombe! Questo è
il primo capitolo della mia seconda fic, e credo che piacerà
a tutti! La trama
è liberamente ispirata a un libro, di cui non
farò il nome, altrimenti rischio
che voi tutti ve lo andiate a comprare e non seguiate più la
mia storia!! Un
ultima cosa: le poche volte che compariranno delle parentesi, saranno
per dei
pensieri o delle pillole di saggezza di un protagonista in particolare
diretti
a voi lettori. E ora senza ulteriore indugio, diamo il via a questa
storia!
KYUBI
–
La
temperatura della stanza crollò vertiginosamente. Una patina
di ghiaccio si
formò sulle tende e incrostò le lampade del
soffitto. I filamenti delle
lampadine si smorzarono e la luce si affievolì, mentre le
candele che
spuntavano su ogni superficie disponibile come una colonia di funghi si
estinsero all’istante. Nella stanza semibuia si
levò una nube sulfurea, gialla
e irrespirabile, dentro la quale si agitavano ombre nere e indistinte.
In
lontananza si udiva un coro di voci urlanti. La porta chiusa che
affacciava sul
pianerottolo fu sottoposta a una pressione improvvisa che la
gonfiò verso
l’interno e ne fece scricchiolare tutte le assi. Il pavimento
fu attraversato
da uno scalpiccio di piedi invisibili e dietro il letto e sotto la
scrivania bocche
incorporee sussurrarono parole sinistre.
Quindi
la nuvola solforosa si compattò fino a formare una spessa
colonna di fumo da
cui proruppero spire sottili, che prima di ritirarsi lambirono
l’aria come
tante lingue. La colonna rimase sospesa sopra il pentacolo, ribollendo
contro
il soffitto come il fumo di un vulcano in eruzione. Per un momento
quasi
impercettibile non accadde nulla. Poi dentro al fumo si
materializzarono due
occhi rossi e penetranti.
Ehi,
era la sua prima volta. Volevo mettergli un pò di strizza.
E
ci riuscii. Il ragazzino dai capelli biondi era in piedi al centro di
un
pentacolo più piccolo, in cui erano scritte rune diverse, a
u metro di distanza
da quello principale. Di un pallore cadaverico, tremava come una foglia
morta
in balia della tramontana. I denti battevano come nacchere nelle
mascelle
tremolanti, perle di sudore gli colavano dalle sopracciglia
trasformandosi in
ghiaccio a contatto con l’aria e rimbalzando al suolo some
chicchi di grandine.
Tutto
bene, ma… e allora? Voglio dire, quello avrà
avuto si e no dodici anni: occhi
fuori dalle orbite, guance scavate dal terrore… che gusto
c’è a far venire un
colpo a un bambinetto pelle e ossa?
(Su questo punto non
tutti concordano con me. Alcuni lo trovano un
passatempo delizioso. Hanno raffinato infiniti metodi per terrorizzare
con
orrende apparizioni chi li convoca. Di solito il meglio che si
può sperare è di
fargli venire qualche incubo. A volte però questi trucchetti
funzionano così
bene che gli apprendisti si fanno prendere dal panico ed escono dal
cerchio
protettivo. In questo caso è una pacchia. Per noi. Ma anche
così la faccenda
non è priva di rischi. Spesso ricevono una buona istruzione,
e da adulti si
prendono le loro rivincite)
Così
restai lì sospeso a mezz’aria, sperando che non ci
mettesse troppo prima di
arrivare alla formula del Congedo. Intanto per tenermi occupato,
sprigionai
qualche lingua di fuoco blu con cui esplorai i contorni interni del
pentacolo,
come se cercassi uno spiraglio attraverso cui scappar fuori per
ghermirlo.
Tutta scena ovviamente. Avevo già controllato: il cerchio
era stato chiuso più
che bene. E purtroppo non c’era neanche uno straccio di
errore ortografico.
Finalmente
il moccioso sembrò aver trovato il coraggio di parlare. O
almeno interpretai
così un fremito delle sue labbra che non sembrava
più indotto soltanto da puro
terrore. Lasciai perdere le fiamme blu e le rimpiazzai con un odore
ripugnante.
Il
ragazzino parlò con un filo di voce.
“Io
ti ordino di… di…” E
sbrigati!
“…d-d-dirmi il t-tuo nome”
Di
solito i più giovani iniziano sempre così.
Inutili manfrine. Sia lui che io
sapevamo che lo conosceva benissimo, il mio nome. Altrimenti come
avrebbe
potuto convocarmi? Bisogna conoscere le formule giuste, i segni giusti
e
soprattutto il nome giusto. Voglio dire, qui non stiamo parlando di un
taxi:
quando chiami non arriva il primo che capita.
Scelsi
un tono di voce profondo, ricco, denso e scuro come la cioccolata, del
tipo che
risuona ovunque eppure in nessun luogo particolare, e fa rizzare i peli
sulle
nuche più inesperte.
“KYUBI!”
Nell’udire
quella parola, il ragazzino ebbe un singulto strozzato. Bene. Allora
non era
del tutto sprovveduto: sapeva con chi ero e di cosa ero capace.
Conosceva la
mia reputazione. Dopo qualche sforzo per deglutire un accumulo di
saliva, parlò
di nuovo.
“T-ti
ordino di rispondermi. Sei tu quel K-Kyubi che fu chiamato dai maghi
per
riparare le mura di Praga?”
Che
razza di perditempo, questo bamboccio. E chi altri dovevo essere? Per
rispondere a questa domanda decisi di alzare un po’ i
decibel. Il ghiaccio
attorno alle lampadine si incrinò come zucchero caramellato.
Dietro le tende
sporche il vetro della finestra fu percosso da un bagliore e
scricchiolò
sommessamente. Il ragazzino si ritrasse sui talloni.
“Sono
Kyubi! Sono Sakhr al-Jinni, N’gorso il Possente, Volpe dalle
nove code! Ho
riedificato le mura di Uruk, di Karnak e di Praga. Ho parlato con
Salomone. Ho corso
nelle praterie
insieme ai padri dei bufali. Ho sorvegliato l’antico Zimbabwe
fino a quando le
pietre caddero e gli sciacalli banchettarono con le sue genti. Sono
Kyubi! Non
riconosco signore alcuno. E per questo ora sono io che ti ordino di
parlare, ragazzo: chi sei tu per
convocarmi?”
Bello
pesante, eh? Ed è tutto vero, il che lo rende ancora
più impressionante. Ma non
era per darmi importanza. Speravo solo che il ragazzetto, intimidito,
mi
avrebbe rivelato il suo nome, il che mi avrebbe concesso un certo
spazio di
manovra alle sue spalle.
(Com’è
ovvio, finché mi trovavo all’interno de cerchio il
suo nome
non mi sarebbe servito a nulle. Ma più tardi avrei potuto
usarlo per
raccogliere informazioni sul suo conto, per scoprire le
fragilità del suo
carattere, cose sul suo passato che avrei potuto sfruttare a mio
vantaggio.
Tutti loro hanno qualche punto debole. Tutti voi
ne avete, farei meglio a dire) Ma lui non ci cascò.
“Per
la morsa del cerchio, i ceppi del pentacolo e il vincolo delle rune,
ora sono
il tuo padrone. Obbedisci al mio volere!”
Sentire
quella vecchia solfa pronunciata con vocina flebile da un simile
pischello era
più stomachevole del solito. Ricacciai giù la
tentazione di dirgli un paio di
cosette che pensavo di lui e intonai la solita formula di risposta.
Prima
finiva quello strazio e meglio era. “Qual è dunque
il tuo volere?”
Però
riconosco che ero un po’ sorpreso. Di solito gli apprendisti
maghi si limitano
a dare un’occhiata senza trovare il coraggio di chiedere
nulla. Mettono alla
prova il loro potenziale giusto per vedere cosa offre il menu, ma poi
non osano
ordinare. E soprattutto non accade tanto spesso che un simile sbarbato
convochi
un entità del mio livello.
Il
ragazzo si schiarì la gola. Ecco il suo grande momento.
Aveva faticato tanto,
per arrivarci. Lo aveva sognato per anni, invece di stare sdraiato sul
letto a
fantasticare su macchine veloci e ragazze, come avrebbe dovuto. Attesi
che
formulasse la sua patetica richiesta. Che cosa poteva mai volere? In
genere
finivano tutti per chiedere la levitazione di un oggetto, oppure di
spostarlo
da una parte all’altra della stanza. Magari desiderava che
evocassi per lui una
visione. Ci sarebbe stato da divertirsi: avrei trovato di sicuro il
modo di
interpretare male la sua richiesta e fargli un scherzetto.
(Una volta un mago mi
ordinò di mostrargli l’immagine
dell’amore
della sua vita. E io gli piazzai davanti uno specchio)
“Ti
ordino di sottrarre l’Amuleto di Samarcanda dalla casa di
Orochimaru e di
riportarmelo domani all’alba, quando ti convocherò
di nuovo”
“Mi
ordini che?”
“Ti
ordino di sottrarre…”
“Si,
ho sentito” Non era mia intuizione essere petulante. Mi era
sfuggito, e per un
attimo era venuto meno anche il tono sepolcrale.
“Allora
vai”
“Un
momento” provai la solita sensazione di nausea che prende
allo stomaco quando
ti congedano, come se ti risucchiassero le budella da dietro la
schiena. Lo
devono dire tre volte per mandarti via, se ci tieni a restare. Di
solito non ci
tieni. Ma questa volta non mi mossi. I due occhi rimasero a dardeggiare
in una
cappa ribollente di fumo.
“Ti
rendi conto di quello che mi stai chiedendo, ragazzo?”
“Non
è mio desiderio conversare, discorrere o parlare; non
è mia intenzione
indulgere in enigmi, scommesse o giochi d’azzardo; non
è mio…”
“L’ultima
cosa che mi interessa è fare conversazione con un
adolescente pelle e ossa,
quindi risparmiami le tue formulette a pappagallo. Qualcuno si sta
approfittando di te. Chi è, il tuo maestro, forse? Un
vecchio codardo che si fa
scudo di un ragazzo!” Frenai un po’ il fumo e per
la prima volta gli mostra i
miei contorni, fiocamente sospesi nell’ombra.
“Mandare me a derubare un vero mago
è come scherzare con il fuoco due volte. Dove ci troviamo, a
Londra?”
Il
ragazzo annuì. Già, era senza dubbio Londra.
L’interno di una casupola di città.
Diedi un’occhiata alla stanza annebbiata dal fumo
artificiale. Soffitti bassi,
carta da parata lacera. Alla parete, la stampa sbiadita di un desolato
paesaggio olandese. Strana scelta, per un ragazzo: mi sarei aspettato
qualche
cantante pop, dei calciatori… I maghi di solito sono
conformisti fin di
piccoli.
“Ahimè!”
assunsi un tono di riflessione malinconica. “Vivi in un mondo
malvagio, e sei
ancora così inesperto…”
“Non
mi fai paura! Ti ho dato un ordine: vai ed esegui !”
Era
il secondo Congedo. Mi sentii come se mi stessero passando con un
compressore a
vapore sulle budella. La mia forma vacillò e si
affievolì. Sarà anche stato
inesperto, ma quel bambino aveva forza.
“Non
è di me che devi aver paura. Almeno per il momento. Ma
quando Orochimaru
scoprirà che gli è stato rubato
l’Amuleto, verrà dritto da te. E non ti
risparmierà in considerazione della tua tenera
età”
“Devi
piegarti al mio volere”
“Lo
so” Bisognava rendergliene atto: era un tipo determinato. E
anche molto
stupido.
Mosse
una mano, e lo sentii pronunciare la prima sillaba della Morsa
Sistematica.
Stava per farmi male. Andai senza perdere tempo con altri effetti
speciali.
Quando
atterrai sulla cima di un palo della luce nel crepuscolo londinese
stava
piovigginando. La mia solita fortuna. Avevo preso le sembianze di un
merlo, un
bell’esemplare con un vivace becco giallo e le piume nere
come l’ebano. Nel
giro di pochi istanti mi ritrovai fradicio come l’ultimo dei
polli di
Hampstead. Adocchiai un grande faggio dall’altra parte della
strada:i venti di
novembre l’avevano spogliato completamente, e un tappeto di
foglie marciva ai
suoi piedi, ma il fitto intrico di rami mi avrebbe offerto un
po’ di riparo. Lo
raggiunsi sorvolando un’auto solitaria che stava percorrendo
la larga strada
residenziale con un cupo brontolio. Dietro le alte mura di cinta e le
fronde
sempreverdi dei giardini, le brutte facciate di alcune grosse ville
bianche
baluginavano nel buio, simili a volti di cadaveri.
Beh,
forse era il mio umore a farmele apparire così.
C’erano cinque pensieri che non
mi davano pace. Tanto per cominciare, incominciava già a
tormentarmi il dolore
sordo che accompagna ogni manifestazione fisica. Me lo sentivo nelle
penne.
Cambiare forma avrebbe tenuto l’indolenzimento alla larga per
un po’, ma poteva
anche attirare l’attenzione su di me in un momento delicato.
Prima di aver
valutato a fondo la situazione, merlo ero e merlo dovevo rimanere.
Il
secondo cruccio era il tempo. E c’è poco da
aggiungere.
Terzo,
avevo scordato le limitazioni dei corpi materiali. C’era un
punto appena sopra
il becco che non la smetteva di prudere, e i miei sforzi di grattarmi
con un’ala
erano del tutto inutili.
Quarto,
il ragazzino. Avevo parecchie domande su di lui: chi era?
Perché desiderava
tanto morire? Sarei riuscito a fargliela pagare per avermi assegnato un
compito
prima che tirasse le cuoia? Le notizie volavano, e avrei avuto i miei
problemi
quando si fosse saputo in giro per che razza di sgorbietto mi ero
dovuto dar da
fare.
Quinto…
l’Amuleto. A quanto si diceva, era un oggetto magico molto
potente. Che cosa
volesse farci il ragazzino, per me era un mistero. Forse
l’avrebbe
semplicemente indossato come accessorio di moda. Forse rubare amuleti
era
l’ultima moda, la versione magica di sgraffignare
copricerchioni. Comunque
fosse, intanto dovevo prenderlo. E non era detto che sarebbe stato
facile,
neanche per uno come me…
Chiusi
gli occhi di merlo e aprii quelli interiori, uno dopo l’altro
uno per ogni
livello.
(Io ho accesso a sette
livelli, tutti coesistenti, sovrapposti come
gli strati di un pezzo di Viennetta. Sette livelli sono più
che sufficienti.
Chi opera su un numero di livelli superiore è solo un
megalomane.)
Mi
guardai attentamente intorno, saltellando avanti e indietro sul ramo
per godere
di una visuale migliore. Nella via c’erano ben tre ville
dotate di protezione
magica, il che dimostrava quanto la zona fosse altolocata. Lasciai
perdere le
due più avanti sulla via, concentrandomi su quella
dall’altra parte della
strada, dietro il lampione. La residenza di Orochimaru, il mago.
Il
primo livello era sgombro, ma sul secondo si vedeva qualche difesa: una
sottilissima ragnatela blu che avvolgeva tutto il muro di cinta. E non
finiva
certo lì, ma proseguiva nell’aria, passava al di
sopra della bassa casa bianca
e scendeva dall’altra parte, formando una grande cupola
scintillante.
Niente
male, ma non mi avrebbe fermato.
Sul
terzo e sul quarto livello non c’era nulla, invece sul quinto
vidi tre
sentinelle che si agitavano sospese a mezz’aria, appena sotto
l’orlo delle mura
del giardino. Erano galline, e ciascuna aveva tre zampe muscolose, che
ruotavano
su un perno di cartilagine. Al di sopra della cartilagine si trovava
una massa
informe dotata di due bocche e di numerosi occhi vigili. Le creature si
muovevano a casaccio avanti e indietro lungo il perimetro del giardino.
D’istinto
mi schiacciai contro il tronco del faggio, anche se sapevo che li non
potevano
individuarmi. A quella distanza sembravo un merlo su tutti e sette i
livelli. Quando
mi sarei avvicinato, però, avrebbero potuto riconoscere il
mio travestimento.
Il
sesto livello era sgombro. Ma sul settimo… c’era
qualcosa di strano. Non riuscivo
a vedere niente di preciso (la casa, la strada, la notte, sembrava
tutto
normale) eppure, se volete chiamatela intuizione, ma ero sicuro che la
fosse
appostato qualcosa.
Strofinai
pensieroso il becco contro un nodo della corteccia. Come mi aspettavo,
erano
all’opera parecchi incantesimi potenti. Avevo sentito parlare
di Orochimaru. Era
considerato un mago formidabile e un padrone esigente. Mi reputavo
fortunato a
non essere mai stato chiamato a servirlo, e non ero ansioso di
inimicarmi lui o
i suoi servi.
Ma
dovevo ubbidire al ragazzino.
Il
merlo, ormai fradicio, si staccò dal ramo e
attraversò in volo la strada,
badando ad evitare il cerchio di luce del lampione più
vicino. Atterrò su una
chiazza d’erba spelacchiata all’angolo del muro di
cinta. Lì accanto erano
stati lasciati quattro sacchi neri d’immondizia, in attesa
del passaggio della
nettezza urbana. Il merlo saltellò dietro ai sacchi. Un
gatto, che aveva osservato
l’uccello (Su due
livelli. I gatti hanno questo potere)
da una certa distanza, attese qualche istante che riemergesse, poi
perse la
pazienza e trotterellò a guardare cosa succedeva dietro i
sacchi. Ma non ci
trovò ne un merlo nero ne altri volatili. C’era
solo un mucchietto di terra
smossa di fresco da una talpa.