Mónika
Szigeti era
arrivata all’Aeroport de Lille, nelle Fiandre francesi, con
quasi un’ora di
anticipo sull’orario previsto di atterraggio del Learjet 45
XR proveniente
dalla base militare di Davis-Monthan, Tucson, Arizona.
Non lasciava mai
nulla
al caso e quando la informarono che il piccolo ma superbo bimotore otto
posti
sarebbe giunto con abbondante anticipo sul piano di volo, non si
meravigliò ma
ordinò allo steward di preparare un caffè
macchiato per lei e uno lungo per il
suo nuovo boss, che stava atterrando.
Dopo aver
osservato rullare
e manovrare sulla pista la sagoma slanciata del Learjet, attese che
entrasse
dentro l’enorme hangar privato, dove un lussuoso e nuovissimo
Bombardier 85 era
già parcheggiato. Esaminandone il profilo alare, si
stupì che ricordasse la guardia
che incrociava una spada tra la lama e l’elsa: le ali
rastremate erano
leggermente ad angolo acuto, con le estremità che
terminavano con due brevi
appendici aerodinamiche rivolte verso l’alto.
Lo steward
dell’aviorimessa la seguì come un’ombra
quando lei si avviò verso l’unico uomo
che scendeva dagli scalini.
Scattò
sull’attenti,
non appena il suo nuovo capo stava per passarle di fianco.
“Benvenuto in
Francia, Signor Generale!”
“Lei
deve essere
Mónika, suppongo.”
“Affermativo,
Signore.”
“Si
metta pure comoda,
Maggiore” le disse cordialmente, porgendole la mano,
“riposo”.
Mónika
gli ricambiò la
stretta con una presa che non fu né troppo timida
né troppo forte.
“Caffè,
Signore?”
“Grazie”,
rispose lui,
raccogliendo dal vassoio la tazza grande che gli porgeva lo steward,
“ne avevo
proprio bisogno dopo tutte queste ore di volo. Non ero più
abituato, per la
miseria!”
“La
condurrò io stessa
al suo hotel, ho prenotato una stanza all’Hermitage Gantois:
è l’hotel più in
vista di Lille ed abbiamo uno dei nostri operativo lì dentro
da quasi dieci
anni. La sua stanza è già stata debitamente
controllata ed è pulita, Signore.”
“Il
Colonnello Appleton
mi aveva riferito che è molto efficiente, Maggiore. Mi
affido completamente a
lei se non le dispiace.”
“E’
mio dovere, Signor
Generale”.
“Il
Colonnello mi ha
raccontato anche che i suoi uomini la chiamano Szigi.
Sono curioso, non conosco il significato di questa parola”.
Mónika
sperò che le
guance non rivelassero troppo il suo imbarazzo mentre rispondeva:
“Sono di
origini ungheresi, Signore. Mio padre è ungherese e mia
madre è di Boston,
anche se sono di stanza in Francia da alcuni anni”
spiegò.
“Szigi
è il diminutivo del mio cognome, nella mia lingua significa isola. E’ il soprannome con cui
mi
chiamano i ragazzi del nucleo operativo”. Fece una pausa e
poi sapendo con
certezza di stare per arrossire, esclamò tutto ad un fiato:
“Gli uomini sono
tutti dei porci, con rispetto parlando, Signore, se non gli dai quello
che vogliono…
bè, poi trovano sempre qualcosa con cui fartela pagare,
Signore.”
John Freeland si
soffermò ad esaminare il Maggiore Mónika Szigeti.
I lineamenti erano regolari
ma non anonimi, come le labbra, né sottili né
carnose. Il viso era contornato
da due frange biondo cenere, lisce e lucenti: su
un lato i capelli erano scalati all’altezza
della bocca, sul lato opposto invece, scendevano più lunghi,
tra il mento e la spalla,
mentre una ciocca le percorreva di traverso la fronte e spariva
appiattita
dietro l’orecchio.
I grandi occhi,
appena
ombreggiati da un leggero trucco antracite, erano di un grigio-verde
limpidissimo
e sconvolgente e lo stavano fissando con intensità
sconcertante.
Szigi era una donna dalla bellezza
non
comune. Il Generale intuì come il suo aspetto fisico,
più che aiutarla, fosse
stato un problema nell’esercito e nei corpi speciali. Come
per altri uomini che
conosceva e che possedevano qualità straordinarie, il
rischio era proprio quello:
diventare un’isola, messi
da parte
dal gruppo a causa del loro stesso dono. Come ripeteva ai suoi soldati
in
questi casi, stava all’intelligenza del singolo venire fuori
da simili
situazioni.
“Mi
creda, non avevo
nessuna intenzione di metterla in imbarazzo, dimentichi la
domanda...” si
scusò, mentre strangolava mentalmente il colonnello Appleton.
“Non
importa, Signore.
Il soprannome ha finito col piacermi e l’ho adottato io
stessa. Ai miei uomini
piace giocare coi nomi, ma le assicuro che in missione non
troverà un reparto
più efficiente in tutto il continente.”
John
comprese dalla sua risposta che aveva avuto
abbastanza buon senso da farsi una ragione di ciò che
pensava la sua squadra di
lei ed era andata avanti per la sua strada.
Non
lasciò tuttavia
trasparire il suo compiacimento quando aggiunse: “Non dubito
dell’efficienza dei
suoi uomini, Maggiore. Ma la nostra è una missione
diplomatica, non lo scordi.”
“Sir, yes Sir!”
scattò lei di nuovo sull’attenti, rivolgendo al
comandante il tipico saluto in uso nel corpo dei marines.
“Noi ex marine siamo
sempre pronti ad ogni evenienza, Signore”.
A John quella
donna non
dispiaceva. E anche lui era un ex marine. Avrebbero tirato fuori dai
guai Jodie
e trovato suo figlio e Ian, ovunque si fossero cacciati. Osservando Szigi si sentiva ora più
sicuro di
farcela.
***
Mónika
prelevò la
Renault alla Hertz dell’Aeroport de Lille e
accompagnò John all’Hermitage
Gantois.
Lui si concesse
appena il
tempo di rinfrescarsi e posare le valige, poi chiamò Szigi
sul cellulare: “Sono
pronto, aspettami giù nella hall, sto arrivando.”
Mónika stava già digitando
sul navigatore le parole: Chemin de la Plaine, 179.
Era
l’indirizzo del
carcere di Lille-Sequedin.
Presero la A25
verso
nord, in direzione Lille Dunkerque, percorrendola in silenzio per
alcuni
chilometri. Solo quando l’auto svoltò sulla destra
per Sequedin, John parlò e si
informò se l’ambasciata avesse fatto storie alla
richiesta inoltrata con
urgenza dal Comando della U.S.I.C.
“As smoothly as honey, Sir. Ho
già collaborato in altre missioni
con Cynthia Doell, della VPP Lille. Ha prodotto tutta la documentazione
necessaria a tempo di record.”
“VPP,
ha detto?”
“A
Lille stiamo
sperimentando un nuovo tipo di ambasciata innovativa. VPP sta per Virtual american Presence Post, abbiamo
un consolato solo virtuale, Signore.”
“Virtuale?
Santo Dio,
di questo passo ci manca solo che recluteremo agenti virtuali,
affronteremo
missioni virtuali e magari scopriremo che il mondo intero è
un dannato gioco
virtuale!”
L’umore
di John non
migliorò quando arrivarono in vista del carcere: la Maison
d'arrêt de Lille-Sequedin non era altro che uno
squallido e immenso
capannone di cemento, circondato da mura anch’esse di cemento
e stonacate.
Il sole stava
già tramontando
dietro le fluorescenze elettroniche dei prominenti lampioni che chiaroscuravano
un’inarginabile fatiscenza architettonica
e sociale.
Fiancheggiarono
l’ampio
parco dove l’erba, a tratti giallognola e avvizzita, era
stata comunque accuratamente
tosata e giunsero infine ad un cancello. Al gabbiotto,
Mónika mostrò un
tesserino e chiese del Direttore.
Passarono alcuni
minuti
prima che le sbarre permisero loro di superare il posto di controllo.
Alla fine
di un lungo vialetto asfaltato, un uomo in uniforme e il direttore
della casa
circondariale erano in attesa della delegazione americana.
I convenevoli
durarono solo
lo stretto necessario: John non aveva intenzione di far trascorrere in
quel
posto un solo minuto in più, alla madre della sua unica
nipotina.
“Mi
rincresce la
spiacevole occasione che l’ha condotta fin qui, Generale. Sua
nuora l’attende
nella stanza riservata agli ospiti
del carcere per le visite. La sua splendida accompagnatrice
è il suo avvocato?”,
volle sapere il direttore rivolgendosi a Mónika con un
sorriso ammiccante.
“No e
noi non stiamo
chiedendo di vedere nessun ospite
di
questo penitenziario” chiarì lei.
“P-Prego?”
Incespicò
sulle parole l’uomo, di fronte al tono impassibile della
donna dallo sguardo conturbante.
“Non
sono l’avvocato
della ragazza e Jodie Carson è una cittadina americana
libera di lasciare
questo edificio a partire da questo istante. Legga questa ingiunzione,
per
favore.”
Il direttore del
carcere, raccolse il primo dei due fogli che gli porgeva il Maggiore e
si accigliò
fin quando lesse sulla carta intestata:
Ambassador
Charles Rivkin
American
Embassy
2,
avenue Gabriel
75008 Paris
Comprese di cosa
si
trattava prima ancora di finire di scorrere la pagina.
“Immunità
diplomatica?” esclamò sorpreso “Non
sapevo che Madame Carson si fosse
appellata all’immunità
diplomatica…”
“Bene.
Lo sa adesso,
signor direttore.”
“Ma
tutto ciò è
ridicolo, andiamo… Sono pronto a respingere qualsiasi
pretesa di immunità!”
“Prima
dovrebbe dirmi
se è ridicola anche l’istanza di scarcerazione
firmata dal juge d’instruction competente.
Tenga, anche questa è sua, direttore”,
lo informò porgendogli il secondo documento.
“Ma io
credo…”
“Lei
crede…” Mónika si
sporse in avanti per leggere il nome del direttore sulla targhetta
fissata alla
giacca “…Monsieur
Renard? Qualsiasi cosa
lei creda in questo preciso
momento, che
non riguardi la scarcerazione della ragazza, è superfluo e
irrilevante” ringhiò
Szigi, scandendo lentamente le
parole.
“Per
cortesia” lo
liquidò il Generale “ordini di preparare il prima
possibile gli effetti
personali della ragazza. Al momento dell’arresto aveva con
sé due Notebook Dell
di cospicuo valore. Entrambi i portatili contenevano informazioni
riservate di
proprietà esclusiva del Governo degli Stati Uniti,
gradiremmo averli indietro
senza indugio.”
“Ma
questo è fuori
discussione, Generale! Si tratta delle evidenze di un reato!”
John stava per
perdere
la pazienza. “Maggiore, per favore, rimanga col direttore e
sbrighi le ultime formalità
burocratiche”, dispose infine irritato, “sono
ansioso di vedere Jodie.” Quando
già si era voltato, aggiunse a beneficio dei due francesi:
“Se sorgono
ulteriori difficoltà non si disturbi a chiamarmi. Telefoni
direttamente al
segretario alla Difesa.” Senza nemmeno aspettare la reazione
del direttore, John
oltrepassò l’atrio e si avviò verso il
corridoio.
“Un
momento, dove crede
di andare?” lo ammonì l’ufficiale
del
penitenziario in uniforme che fino a quel momento non aveva ancora
parlato.
“A far
visita a mia
nuora.”
“Mi
segua per favore,
non può andare in giro da solo.”
Jodie lo
aspettava lì.
Il Generale ebbe un tuffo al cuore quando la vide seduta a ridosso
delle
strette inferriate, con la testa appoggiata sui gomiti e i capelli in
disordine.
Ma quando la ragazza americana si accorse della sua presenza,
l’uomo badò a non
lasciare trasparire alcuna emozione.
“Oh
John. Grazie a
Dio...”
“Buongiorno
Jodie. Non dire nient’altro. Non
qui.”
La ragazza lo
studiò
con apprensione e quando il Generale scandì a bassa voce le
parole “avrai molto
da raccontarmi non appena saremo fuori da questo posto” i
suoi timori trovarono
conferma.
Quando nello
stanzone
fece il suo ingresso Mónika, sventolando alla guardia
carceraria un paio di
fogli che attestavano il diritto formale a prelevare il cosiddetto ospite, John capì che il primo
capitolo
della missione era giunto al termine.