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Autore: dily___    19/10/2010    6 recensioni
Questo racconto tratta il tema, così comune, così doloroso per chi l'ha provato, dell'amore non corrisposto. La protagonista non ha un nome. E' la personificazione del sentimento, dell'emozione, dell'angoscia. Da sempre vive la sua vita nella completa ossessione per un ragazzo che non ha nulla di speciale. Per tutti, tranne che per lei.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allora, eccomi qui con l'ultimo capitolo del racconto.
Mi scuso subito per il ritardo: ho inziato l'università e non riesco mai a scrivere.
Anche questo finale non è riuscito come avrei voluto; tuttavia non ho mai tempo e non ne avrò per molto, così mi scuso per la banalità e il suo apparire frettoloso.
Purtroppo ho diverse cose per la testa.. io ve lo propongo, e anche se non vi piace, spero non intacchi l'idea generale che vi siete fatti durante il corso della lettura.
E' il primo racconto che scrivo, un piccolo esperimento letterario che sarà anche l'ultimo.
Ringrazio voi tutti per i commenti, a cui ho risposto uno per uno, e per aver letto questa mia sciocchezza scritta velocemente la sera. Spero che vi abbia almeno in parte emozionato. Sarebbe il ringraziamento più grande e più bello.




Chissà cosa si prova a morire.
Questo pensiero continuava a sfrecciarmi in testa mentre tornavo a casa, nel freddo vento che mi congelava perfino il respiro.
Passai davanti alla stazione del treno.
Sarebbe bastato un attimo a farla finita, pensai. Un attimo della durata di un infinitesimale secondo.
I miei piedi si fermarono quasi di loro spontanea volontà. Ne avevo perso il controllo.
Come un burattino manovrato dal passato, mi diressi sul bordo di un binario.
Sarebbe bastato un attimo a farla finita. Una voce sconosciuta ma dai tratti inspiegabilmente familiari continuava a ripetermelo, con incessante sadismo;
le sue parole vellutate mi accarezzavano la mente stanca, lambendo dolcemente il mio inconscio, con tenerezza quasi materna.
Bastava sporgere un piede. E di me non sarebbe rimasto più nulla vagamente riconducibile ad una forma umana.
Fallo, continuava a ripetermi.
Il treno passò ad una velocità spaventosa a pochi centimetri da me, scompigliandomi i capelli e facendomi vacillare. Rimasi immobile, aspettando che si allontanasse.
Senza la minima perturbazione emotiva, mi allontanai da lì per dirigermi a casa.
Te ne eri andato qualche settimana prima, una fredda notte di novembre.
Non c’era stato nulla a segnalarmi il passaggio da un mondo all’altro, solo un impersonale e prolungato bip di una macchina. Ero lì con te, ti tenevo la mano.
Lo ricordo come se fosse ieri, nonostante tutto il tempo che è passato, nonostante tutte le vane parole che la gente continua a inculcarmi dentro.
Perché non mi hai avvertito, prima di andartene per sempre? Mi sarebbe bastato un piccolo spasmo, una leggera contrazione muscolare, se proprio non potevo riudire la tua voce.
Invece neanche questo di te mi era restato.
Quando il tuo cuore smise di battere, qualcosa si spense dentro di me allo stesso modo.
Per questo ti baciai. All’improvviso.

Ironico.
Era il nostro primo bacio.
Un bacio che immaginai come la porta tra due mondi agli antipodi, inavvicinabili, in continua guerra tra loro da sempre.
Le tue labbra erano fredde, riarse, immobili nel gelo di un corpo estraneo ad uno spirito ormai lontano. Sentii le infermiere strattonarmi, allontanarmi da quel sigillo che speravo tu potessi usare per trascinarmi via con te, dall’altra parte.
Dall’altra parte dove? Dov’eri adesso, dannazione?
Ebbi avuto un collasso nervoso. Ricordo che piansi, diedi pugni al muro, mentre ti coprivano con un inquietante lenzuolo bianco. Imbrattai quel candore con la violenza delle mie mani sanguinanti, mi appariva meno terribile, meno ipocrita.
Portami via con te, era l’unica cosa che riuscivo irragionevolmente a pensare. Non era giusto che il destino ci avesse separati proprio ora che tu ti eri accorto della mia insulsa – ora più che mai - presenza.
Mentre ti portavano via, non potei fare a meno di pensare alla somiglianza fra me e te.
Due cadaveri. Io potevo camminare. Tu non avresti mai più potuto farlo.

Ma ciò non cambiava la realtà.
Nessuno può capire cosa significhi perdere tutto quello che conta per te al mondo. Mi sono sentita smarrita, confusa, perduta in un universo estraneo, un universo brulicante di qualcosa così lontano da me come la vita.
E’ un dolore che toglie il respiro.
E’ un dolore segnato solo dalla marcia funebre del tuo cuore, ancora pulsante nonostante tutto.
E’ un dolore che prende corpo fino a diventare un’entità a sé stante, una macabra ombra, un fedele compagno di ogni fottuta giornata.
Diverso tempo è passato, da quel giorno.
Sono cresciuta, non solo fisicamente.
E tu sei con me.
E’ quello che continuo a ripetere agli psichiatri che mi seguono nella terapia, anche se loro ovviamente non mi credono.
Io avverto la tua presenza. Continuamente. Nel rumore del mare, nel rombo di una moto lontana, in una canzone che improvvisamente mi invade la mente, nell’illusione di una giornata serena.
Loro non possono capirmi. Sono preoccupati, terribilmente. Mi prescrivono inutili medicinali, parlano con i miei genitori di stupide parole scientifiche che corrispondono ad altrettante sciocchezze.
Non sono pazza. E’ la loro ottusità che non permette loro di comprendere.
Non capiscono che il sentimento che mi legava a te va ben oltre qualcosa di terreno come la morte. Loro la vedono semplicemente come una stupida storia di un amore non corrisposto, banalità per adolescenti.
Per questo sto scrivendo a te. Sebbene tu non possa prendere queste pagine in mano, e bagnarle di lacrime come sto facendo io. Sebbene tu non possa più sorridermi, nè avvertire il contatto delle mie labbra sulle tue.
Eppure anche adesso una leggere brezza primaverile mi scorre tra i capelli, e mi dà la sensazione di sentire la tua mano accarezzarmi dolcemente il viso.
   
 
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