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Autore: nightswimming    20/10/2010    4 recensioni
Lo guardò di nuovo, e si sentì ricambiare con lo stesso, preciso sguardo d’intesa, e capì che quel senso di completezza e di prepotente felicità che lo colmava ogni volta che il destino sembrava volerli ricondurre su quell’infinita scala che non andava né su né giù e che rappresentava un nuovo inizio ed una nuova fine ad ogni loro passo non poteva essere soffocato da nulla.
Nemmeno da Brian stesso.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Brian.M/Matthew.B
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: giuro che d’ora in poi mi preparo una decina di documenti Word con su delle stramaledette note alla storia, perché non è possibile che me le dimentichi sempre. *ruggisce*
Matthew Bellamy e Brian Molko non sono miei, non fanno un tubo di ciò che è scritto sotto e continuano ad odiarsi gioiosamente nel loro gioioso mondo reale. E, andiamo, secondo voi qualcuno sarebbe disposto a pagarmi per questo…? Suvvia.
Ciò non toglie che se un’anima pia conosce un pazzo pronto a retribuirmi, lo mandi dritto dritto da me XD
P.S: ah, e nemmeno la scala di Penrose è mia, ma appartiene *indovina indovina* a un tale Penrose, un matematico coi controcazzi. Cercatela su Google <3, se siete un po’ ingenuotti come me ci rimarrete in fissa per ore XD
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
It’s not treason, it’s no lie
It seemed a place for us to dream.
 
- Narcoleptic -, Placebo
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La scala di Penrose fa parte di quella categoria di oggetti comunemente detti impossibili, perché concepibili sono bidimensionalmente e non tridimensionalmente; in poche parole, questi oggetti – come anche il triangolo di Escher e il tridente biforcato – sono in grado di essere pensati e raffigurati, ma non possono esistere nella realtà. Mantengono un senso e una coerenza solo sotto forma di progetto astratto, grazie a un portentoso fenomeno di illusione ottica.
Cose come queste mi hanno sempre affascinato. Ho sempre pensato, sperato che esistesse un modo per fregare le leggi fisiche e realizzare questi oggetti materialmente, e che dovesse essere solo scoperto. Non riuscivo ad accettare che idee così straordinarie, così semplici, così spiazzanti nella loro perfezione dovessero rimanere relegate per sempre a mera fantasia irrealizzabile.
Da poco mi sono reso conto che la mia storia con Brian è esattamente questo: perfetta, nella mia testa, così perfetta che tutto scorre e si incastra esattamente secondo i miei desideri, e così unica e accattivante da essere capace di impegnare tutta la mia attenzione per anni.
Ma non è vera. Non è reale. Non può esistere, in questo mondo.
Funziona unicamente grazie ad un’illusione – la mia.
E non mi importa.
 
 
 
 
- Brian – chiese Matthew , pigramente reclinato contro la testiera del letto, - tu ci credi in Dio? –
La stanza era appena rischiarata dalle lampade accese sui loro comodini e riusciva a sembrare calda e rassicurante pur essendo in realtà l’impersonale, principesca suite dell’albergo più vicino che avessero trovato. Matt non si stupiva più di questa strana sensazione: era un po’ di tempo che tutti i posti in cui si incontrava con Brian gli sembravano simili a una casa. A un posto protetto, sicuro, rassicurante. A un luogo che lo faceva stare bene.
Un luogo dove gli sarebbe piaciuto poter tornare ogni giorno.
Brian emise un verso a metà fra il sorpreso e il divertito, chinandosi a recuperare il pacchetto di sigarette dai pantaloni abbandonati sul pavimento. Quella sera era di buon umore, allegro, dolce, vitale. Rideva per un niente e Matthew si ritrovava a fissarlo rapito: quando lo faceva sembrava ringiovanire d’un tratto e diventare splendidamente definito, fino all’ultimo dettaglio.
In quel momento era ancora nudo e spettinato e aveva gli occhi un po’ velati, caldi. Matthew avrebbe voluto fermare il tempo ogni volta che lo vedeva felice. Era così bello da non sembrare neanche vero.
- Mh… - mugugnò pensieroso Brian, la sigaretta penzoloni dalle labbra e lo sguardo fisso sul proprio orologio da polso. – Quesito esistenziale della mezzanotte e trentasei. Rispondere sarà impegnativo. –
Matthew si appoggiò su un gomito e gli si fece più vicino, come per incalzarlo anche fisicamente.
- No, sul serio, ci credi? –
Lo osservò accendersi lentamente la sigaretta e sentì l’impulso irresistibile di toccarlo. Il lenzuolo tirato fino sotto l’ombelico sembrava costituire una sorta di sfida.
- Nel Dio padre buono e canuto con il triangolo d’oro in testa? No. – rispose, sorridente, appoggiando la schiena al cuscino con un movimento disinvolto. – La trovo una delle idee più presuntuose che l’uomo abbia mai concepito. -
- Intendevo dire se credi in una trascendenza divina. Non dev’essere necessariamente antropomorfa. – ribatté Matthew, serio. Brian gli lanciò uno sguardo meravigliato e scoppiò a ridere.
- Matt, sei incredibile. Ogni volta che uno si illude che la situazione sia normale e rilassata, ti suona una specie di timer e parte a caso una delle tue assurde domande. Come quando ti ho chiesto un parere su una cravatta e tu mi hai ribattuto dal nulla se credessi davvero alla versione ufficiale dell’11 settembre. –
Matthew sbuffò rumorosamente e si mise a giocherellare con l’orlo delle lenzuola.
- Non ti offendere. – gli sussurrò tenero Brian, abbassandosi per sfiorargli la spalla con la testa. Matt gli venne istintivamente incontro.
- Non mi sono offeso. – borbottò.
- Ah no? –
- No. –
- Mi sembrava. –
- Ti sembrava male. –
- Oh, meglio così allora. – ridacchiò Brian, tornando ad affondare nel suo cuscino. Spense la sigaretta nel posacenere appoggiato sul comodino e incrociò le braccia sul petto.
- Da bambino ci credevo. – disse, pensoso. – Ma non fa testo, credevo anche a Babbo Natale… -
- Tutto questo è vagamente blasfemo. – disse Matthew, sprimacciando il cuscino e appoggiandovisi più comodamente sul fianco. Brian roteò gli occhi.
- No, è solo sincero. Non si educa qualcuno alla fede. E il mio è stato un lavaggio del cervello, né più né meno. –
Il suo sguardo si perse oltre le tende spalancate sul davanzale. Matthew lo vide assumere un’espressione concentrata, come se stesse cercando di mettere insieme con molta difficoltà diversi pezzi di pensieri.
- Sì, una volta ci ho creduto. – sussurrò, le sopracciglia aggrottate, inseguendo il ricordo. – Per dieci minuti, o qualcosa del genere, ho creduto che ci fosse qualcos’altro. –
- Cosa? –
- Ah, non lo so. E’ stata una specie di… di emozione. Una sensazione. Niente rapimenti estatici, apparizioni divine o cose del genere. –
- Sarebbe stato troppo semplice. -  disse Matt, accarezzandogli la pancia con studiata lentezza. Brian si accese un’altra sigaretta e annuì vigorosamente.
- Sì, esatto. – Portò un braccio dietro la testa. – Se un sentimento è vero, non è mai di semplice comprensione. Come con gli essere umani. –
- Raccontami, sono curioso. –
Brian gli rivolse uno sguardo sornione.
- Chiamerai la stampa quando mi sarò addormentato? Venderai tutto questo al miglior offerente…? – gli domandò, sarcastico. Matt assunse un’espressione furba.
- Ah, sì, certo. Farò un sacco di soldi. Vedo già i titoli: “Folgorato sulla via del settimo album, Molko si racconta: Se tornassi indietro nel tempo farei ancora il chierichetto. Prosegue a pagina 7”.
Ridacchiarono sottovoce, stravolti dal sonno. Brian si strofinò gli occhi con un gesto infantile.
- Avevo vent’anni. – cominciò a raccontare, tranquillo. – Abitavo ancora a casa di Stefan. Era un bel periodo, nonostante non avessimo un soldo, e mi ricordo che stavo uscendo di casa per fare la spesa. L’appartamento era minuscolo e stava al sesto piano, in un palazzo senza ascensore. Fu un attimo: salutai Stef, mi chiusi la porta alle spalle, inciampai nello zerbino e caddi con tutto il mio peso sul corrimano. – Si fermò un istante, una smorfia incredula sul viso. – Venni sbalzato oltre e mi aggrappai all’ultimo alla balaustra, ma sentivo, sapevo per certo che non sarebbe bastato, che sarei caduto giù per sei piani di scale e mi sarei schiantato a terra, perché tutto il busto era già sbilanciato in avanti e… E ho creduto che sarei morto, perché era solo questione di gravità. Mi sono sentito morto; ho pensato che Stefan sarebbe uscito di lì a poco e avrebbe visto le scale imbrattate di sangue e il mio cadavere accanto alle pile di giornali non ritirati, e ho pensato che non era giusto, che non poteva finire in un modo così stupido. Ma così non è stato. – Si voltò verso Matthew, un sorriso ironico sulla faccia. – Non sono caduto. Sono tornato indietro, in qualche modo. Mi sono allontanato di scatto e mi sono appoggiato al muro, immobile, per minuti interi, senza respiro, senza avere il coraggio di muovere un muscolo. Probabilmente è stato solo un effetto dello shock, ma… Ho pensato che qualcuno avesse voluto che continuassi a vivere, che qualcuno mi avesse salvato. –
Matthew cercò il suo sguardo, ma Brian era lontano, gli occhi persi in qualche luogo nel quale non poteva raggiungerlo. – Ho pensato che nessuna fine fosse davvero inevitabile, neppure quella fine. Che c’è sempre speranza per tutto, perché quel giorno io secondo le leggi fisiche e forse, chissà, secondo una qualche giustizia sarei dovuto morire e non sono morto. –
E Matt improvvisamente lo vide. In un orrendo flash che non avrebbe mai voluto trovarsi davanti agli occhi vide quelle scale, e la pozza di sangue che macchiava i gradini su cui era precipitato, e poco più in là il suo corpo minuto e immobile, avvolto in qualche indumento sempiternamente nero e, in qualche modo, lugubremente profetico; vide le braccia aperte, innaturali e sinistre, crudelmente fiduciose in una speranza di salvezza che non si era attuata, piegate a circondare il suo viso giovane e bianchissimo, e i capelli scomposti sulle guance, e gli occhi verdi spalancati e increduli, e la linea nera della matita che evidenziava inutilmente uno sguardo che non era più vivo, che non avrebbe mai guardato nient’altro che le squallide piastrelle scheggiate di un condominio di periferia…
Sentì il freddo gelido di quelle piastrelle sulla pelle come se fosse stato lui  - e non Brian, non Brian - a giacervi disteso senza vita e gli afferrò la nuca, attirandolo a sé con una foga che l’altro non comprese e che lo lasciò stupito.
E’ vivo, si disse, baciandolo con un trasporto che scaturiva da una paura incontrollabile, è qui con me e non mi lascerà mai. Nessuna fine è inevitabile.
Nessuna.

*
 
- Dove sei? –
- Sono in strada. –
- Stai arrivando, quindi. –
- No. –
- Come sarebbe a dire “no”? –
- Sarebbe a dire no. –
- Ma avevamo appuntamento per mezz’ora fa, all’albergo dell’altra… -
- Lo so. Scusami, ma non riesco a venire. –
- Perché? E’ successo qualcosa? –
- No, non è successo niente. Non posso e basta, scusami, è che ho calcolato male i tempi. E gli impegni… -
- Con chi sei? –
- Sono da solo. E piantala col tono da interrogatorio, è terribilmente irritante. –
- Continuerai a restare solo, stasera? –
- Matt, ho detto… -
- Me ne frega un cazzo di quello che hai detto. Dovevamo vederci, tu hai deciso all’ultimo che non potevi, e ora probabilmente stai andando da qualche altro povero scemo che come me ti sta aspettando da almeno mezz’ora. Esigo come minimo sapere chi è, così, per togliermi almeno la soddisfazione di avere un altro nome da insultare oltre al tuo. –
- “Esigere” non è un verbo che mi è congeniale, Matt. –
- Dimmi chi è. –
- Nessuno. –
- Dimmi- -
- Ciao, Matt. –
- E’ l’ultima volta che mi senti, Brian. Sappilo. Se metti giù adesso, è finita. –
- Bene. Allora è finita. –
- Non osare… Ah, vaffanculo. –
 
*
 
Brian l’aveva richiamato in continuazione, ma lui, tenendo fede alla sua promessa, non gli aveva mai risposto. Pensava davvero che fosse finita, quella volta; dopo giorni di impegnativi ragionamenti aveva preso la ponderata decisione di vederlo per un ultimo, definitivo incontro al fine di comunicargli la richiesta di non farsi più sentire, e magari anche di andare a farsi fottere – richiesta questa che, sapeva, lui avrebbe puntualmente rispettato entro brevissimo tempo.
Gli aveva dato appuntamento ad un bar, perché contava che il proprio discorso sarebbe durato al massimo il tempo di un caffè – un caffè: non una birra, non una cena, non un drink, cose che sapeva sarebbero sicuramente degenerate nell’estrema unzione di un qualsiasi letto – e forse, nemmeno così tanto. Cosa doveva dirgli, in fondo? Solo la parola fine.
Fine di qualunque assurda, malsana, perversa cosa ci fosse mai stata fra loro.
Era così semplice, in fondo. Nessuna cartaccia da firmare. Nessuna lacrimevole spartizione di oggetti personali stipati in una fantomatica abitazione condivisa. Nemmeno quel leggero rimpianto del sì, in fondo i suoi amici erano simpatici, peccato. No, niente di niente.
Rinunciava solo a lui. Se lo poteva permettere, rifletté, le sopracciglia aggrottate in un’espressione concentrata. Le macchine che sfrecciavano davanti all’incrocio che avrebbe dovuto attraversare per arrivare al luogo dell’appuntamento sembravano non finire mai. Gli davano l’impressione di un enorme serpente metallico multicolore che continuava a mangiarsi la coda, all’infinito. Un lungo viscido rettile che gli bloccava la via che portava al traguardo finale.
E se considero un traguardo riuscire a scaricare uno stronzo, sono proprio disperato.
Ad un tratto sembrò che non solo la strada, ma Londra intera si fosse svuotata di tutto il suo traffico e li avesse lasciati lì, uno da una parte e uno dall’altra, lontani e fuori portata per gli occhi di entrambi, ma ancora una volta sui due lati di una stessa medaglia. Matthew alzò lo sguardo dalle strisce pedonali, e lo vide, e lo stupore lo inchiodò all’asfalto.
Lui e Brian non avevano mai condiviso niente, e questo era un bene, si era ripetuto tante volte, perché in quel momento gli rendeva tutto più facile. Niente.
Tantomeno il vestiario. Non il vestiario, per carità, visto che nessuno dei due aveva voglia di andare in giro vestito rispettivamente come un becchino o come uno che si sia messo abiti talmente poco azzeccati tra loro da sembrare indossati per l’unica ragione di aver perso una scommessa.
Eppure quel giorno, il giorno in cui sarebbe dovuta finire – almeno per uno dei due – erano vestiti uguali. Giacca marrone su maglia nera su pantaloni scuri su stivali. Talmente identici da dare l’impressione di averlo combinato insieme, per una festa in maschera o chissà cos’altro.
Matthew sorrise e vide che dall’altra parte della strada anche Brian sorrideva. Sembrava una presa in giro.
Fece passare un verde e a quello successivo si decise infine ad attraversare la strada e a raggiungerlo. La situazione era grave, Brian si comportava come il gran figlio da puttana che era e nemmeno lui era stato troppo corretto in più di un’occasione. Sarebbe stato meglio per entrambi se si fosse dato un taglio netto alla cosa, magari deciso di comune accordo, come un divorzio sofferto ma giudicato indispensabile.
Perché Matt sapeva che Brian avrebbe continuato a non rispondergli ancora per tante, tante volte, che l’avrebbe deluso e ferito, che l’avrebbe fatto star male da cani, che l’avrebbe lasciato continuamente ad aspettare davanti a ristoranti ed incroci e pub e Dio solo sa cosa per ore e ore, e che non avrebbe mai fatto niente per sforzarsi di cambiare le cose. Sapeva che, obiettivamente parlando, lasciandolo perdeva una relazione serena quanto un campo di concentramento e riguadagnava quella parte di sé che ora gli pareva così lontana – la parte di sé che aveva una dignità.
Ma poi, mentre gli si avvicinava con le mani in tasca, sul viso una smorfia di compassata determinazione e negli occhi una stupida gioia – perché ora che gli era a pochi metri riusciva a vedere che anche lui portava i jeans, solo che probabilmente i suoi erano di una marca più raffinata della sua -, lo guardò di nuovo, e si sentì ricambiare con lo stesso, preciso sguardo d’intesa, e capì che quel senso di completezza e di prepotente felicità che lo colmava ogni volta che il destino sembrava volerli ricondurre su quell’infinita scala che non andava né su né giù e che rappresentava un nuovo inizio ed una nuova fine ad ogni loro passo, non poteva essere soffocato da nulla.
Nemmeno da Brian stesso.
 
*
 
- Dove sei? –
- Sono in strada. –
- Mi auguro per te che sia una strada vicina al punto dove dovevamo incontrarci tre quarti d’ora fa. –
- Mi spiace, ma non è così. –
- Ah ah. Vedo che qualcuno qui vuole rendere la pariglia. –
- Precisamente. –
- Sei da solo? –
- Sì, ma non ho in programma di restarlo per molto. –
- E come si chiama questo povero disgraziato? –
- Non mi ricordo. –
- Vedi di sforzarti di non chiamarlo Brian, quando sarete a letto. –
- Ti prometto che ci starò attento. -
- Che stronzo. –
- Già, vero? E’ divertente essere stronzo, ora capisco perché ti piace così tanto esserlo con me. E’ una bella sensazione. –
- Tornerai strisciando. –
- Ciao, Brian. –
- Tornerai strisciando, ma non servirà a nulla, perché io… Ah, ‘fanculo. –
 
 
 
 
 
 
 
Nessuno di noi due ha mai avuto la certezza che l’altro ci avesse davvero tradito, nemmeno una volta.
A volte non capisco se tutto questo sia un gioco o meno, e se lo è, non riesco a rendermi conto di quanto serie e vincolanti siano le sue regole. So che è impossibile che finisca, però; né io né Matt avremmo  nessun interesse a farlo – perché se è davvero un gioco, non è la realtà, e tutto è meglio della realtà. Nella realtà niente va mai secondo le regole. Nella realtà non c’è giustizia.
Nella realtà, qualsiasi scala ti conduce in qualche posto, e spesso questo posto non vale tutta la fatica spesa.
La scala di Penrose è costruita su quattro angoli retti che rendono impossibile trovarne la fine.
Nessuna destinazione, nessun punto d’arrivo. Solo un paradossale saliscendi che, incredibilmente, rende possibile incontrarsi all’infinito. Non si può sbagliare, non si può  rimanere delusi, non si può  pensare che non ne sia valsa la pena. Semplicemente, non ha senso.
Come la mia storia con Matt.
Che non è vera. Non è reale. Non può esistere, in questo mondo.
Funziona unicamente grazie ad un’illusione – la mia.
E non mi importa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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