Anime & Manga > Soul Eater
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Autore: Mushroom    20/10/2010    8 recensioni
"Poi guardò la figura davanti a sé, rivolgendole un ringhio sommesso << Almeno hai avuto la decenza di fermarti >> sbottò, mettendo il segnalibro. Lo conosceva, a lui, e non voleva averci niente a che fare.
Il ragazzo ghignò, con aria quasi innocente << Mi assicuravo che non fossi morta… se no sai che casini >>
Gli lanciò il libro in testa << Sai che è proibito venire a scuola in moto? >>
<< Sai che non si dovrebbero lanciare dei tomi così grossi in testa alle persone? >> borbottò, massaggiandosi il capo.
<< E sai che non si dovrebbe cercare di investire la gente? >> ribatté saccente.
Si guardarono in cagnesco per pochi secondi.
A volte Soul Eater si chiedeva perché, uno cool come lui, venisse zittito troppo spesso da una secchiona come lei.
"
Maka Albarn, studentessa modello. Capace di dare forma a qualsiasi materia e di stupire sempre ogni docente, viene spesso chiamata "Shokunin" - l'artigiana
Soul Eater Evans, tutto meno uno studente provetto. Affilato come una falce, popolare e dotato di un forte senso cinico, è conosciuto anche come "Buki" - l'arma.
Lui e Lei. Loro.
Cosa accomuna i due?
[ Alternative Universe; A Tratti OOC ][Titolo provvisorio]
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Maka Albarn, Soul Eater Evans
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Know your enemy ~ Green Day

Third Chapter - So rally up the demons of your soul
{ Quindi raduna i demoni della tua anima

Sbadigliò, cercando di rivenire dal momentaneo stato di dormiveglia mentre, automaticamente, preparava la caffettiera e si destreggiava con i fornelli. In quel posto era veramente strano accendere il gas. Ah, giusto, non il gas: l’elettricità. Lì i fornelli erano elettrici. E che non le venissero a dire che la scuola non aveva fondi, perché in quel caso non c’era santo che reggesse.
Anche in quello stato pseudo-catatonico capiva che, per quanto inusuale, quella sottospecie di casa era costata davvero un bel po’.
Poteva partire con quella che era la sua cosiddetta “camera di dormitorio”. All’inizio, non le era parsa così rifinita e funzionale. Il letto era in un posizione quasi strategica, posto lì in quell’angolo. Doveva essere un giaciglio antico, perché presentava una testina rifinita e scolpita in legno. Maka non aveva mai avuto l’occhio troppo lungo per l’arte: al contrario di sua madre, lei non sapeva emozionarsi davanti a una sonata di pianoforte, né aveva la capacità di cogliere messaggi e emozioni nelle linee non sempre precise di un artista; eppure quel mobile l’aveva colpita, probabilmente perché non si aspettava di vedere una cosa simile all’interno del territorio della Shibusen. Era rimasta a fissarlo, quella notte, cogliendone il nome dell’artigiano: c’era una piccola incisione, all’estremità: Eibon.
Forse, si disse, era semplicemente il precedente inquilino e non l’autore.
Alzò le spalle, curandosi della caffettiera.
Anche la finestra risultava pratica: era perfettamente simmetrica, e dava una visuale tale da poter mirare il quartiere, ma anche dal poter proteggere da sguardi indiscreti chi abitava al di là di questa.
Poi c’era quel comodissimo armadio a parete, troppo grande per i suoi pochi indumenti: non aveva mai amato lo shopping, ma vedere quel povero guardaroba così vuoto le faceva venir voglia di chiamare Liz e trascinarla in centro. Con la carta di credito di Spirit in mano, ovviamente.
In qualche modo, si era rincuorata.
Valutare in modo oggettivo e – sì, sapeva benissimo che era un controsenso - un po’ ottimistico, la rallegrava, dandole quelle stesse speranze che nutriva fino a poco tempo prima.
Il caffè iniziò a traboccare, mentre il contenitore di questo emetteva un suono stridulo e terribile. Spense il piano cottura e estrasse la caffettiera con una presina, versandone il contenuto in una tazza lì in dotazione.
E – poco prima di portarsela alle labbra – l’accostò al naso.
Amava l’odore del caffè, le ricordava le mattine della sua infanzia. Quando si alzava tutta pimpante, pronta a quel primo giorno di scuola elementare; quando, assonnata, percorreva i corridoi ancora in pigiama, chiamata a raccolta dalla sinfonia di quell’elemento.
Le ricordava sua madre, indaffarata già di prima mattina. Pronta ad andare in ufficio, con quel tajer spiegazzato, i capelli alla rinfusa e le ciabatte.
Piccoli frammenti di una vita quotidiana andata in pezzi.
Piccoli frammenti di una vita quotidiana mai veramente esistita.
Suo padre lì vicino, felice, che sorrideva a entrambe.
Suo padre lì vicino, felice, che sorrideva a entrambe con quel riso da viscido porco traditore
.
Fece un lieve cenno con la testa, poi sorrise, accingendosi a sorseggiare la bevanda.
<< Per me? Che gentile! >>
Accingendosi a sorseggiare la bevanda prima che l’idiota gliela sottraesse da sotto il naso.
<< TU! >> strillò stizzita. Uno sguardo di fuoco trapassò da parte a parte il ragazzo che – incurante – si limitava a sogghignare e bere il suo caffè. Nella sua mente, ci tenne a sottolineare suo.
Se prima si era ritrovata in un nuovo stato di trepidazione, ora come ora ripiombava a capofitto nella più tetra disperazione. Definirla così, si disse poi, non era esattamente giusto.
Più che disperazione era rabbia.

E più che rabbia, era idrofobia.
Non credeva di poter provare un simile sentimento di rancore, ma in quel momento implodeva – letteralmente – di collera.
Perché Maka conosceva benissimo gli uomini come lui, che pretendevano tutto e subito.
Li conosceva e detestava.
Anche se – l’ammise a se stessa – in quel momento stava forse esagerando.
Era poco sicura di ciò: la mattina carburava male.
Da una parte, c’era una vocina che le diceva di non dargliela vinta, perché – da quel momento in poi – sarebbe stata la fine: avrebbe sempre preteso i suoi comodi, senza mettersi nessun problema al riguardo; la seconda, invece, l’intimava a lasciar perdere, dicendole che lei era troppo matura per cedere a una provocazione di così basso livello.
Infine, decisa a non perdere ulteriore tempo con i suoi personalissimi complessi mentali, scelse un mezzo tra i due.
Un po’ di sana aggressività non proprio docile.
Non facciamone una questione di stato, né?
<< Che c’è? >> disse questo, poggiato sull’isola che chiudeva la cucina nel lato sinistro. Le lanciò un sorrisino apparentemente naturale, che – ovviamente – mascherava una piccola vittoria personale riscontrata dal “tipo cool”.
Uno a zero per lui?
Maka detestava anche quel tipo di sorrisi da perfetto bugiardo. Ma lei aveva imparato la semiotica fin da piccola: il linguaggio del corpo non aveva segreti.
<< Sai, Albarn… >> sorseggiò il caffè, portandosi una mano in tasca << Hai una faccia… >> altro sorso << … davvero buffa >> ridacchiò tra sé e sé.
Voleva la morte ora o subito?
Afferrò il libro di ricette “Di zia Pina” posto lì non si sa bene per quale motivo – che fosse anche quello in dotazione agli studenti? -, e glielo scaraventò in testa. All’impatto, la tazza volò via, sgretolandosi in tanti piccoli pezzettini.
Ah, tanto era pagata dalla scuola.
<< ---Azz… era solo un caffè! >> sbottò, ricevendo per osmosi – o forse solo per colpa del Maka Chop appena pervenuto – la stessa rabbia dell’artigiana. Si portò una mano al capo, testandosi il bernoccolo. Com’era possibile che quella ragazza - sempre che di una ragazza si trattasse – riuscisse a colpire sempre il medesimo punto? Una cosa del genere sputava in faccia alla statistica, e lo faceva anche con un certo ardore.
A furia di continuare così il suo povero cervello si sarebbe spappolato, e allora sì che avrebbe avuto problemi.
Soul sapeva che quella lì era una un po’ strana.
Ma non così strana.
Era solo un fottuto caffè.
<< Certo, un caffè! >> ringhiò la ragazza, congiungendo le braccia << Tu lo chiami “caffè”, io “gesto di poco rispetto” >>
<< Quando sei spocchiosa! >>
<< Quanto sei maleducato! >>
<< Vuoi fare una polemica per il caffè? >>
<< Sì >> al contrario di quel che credesse il ragazzo, la risposta fu pienamente positiva << Non ti preparerò la colazione, non sgobberò per te, non ti farò il bucato. Condividiamo una specie di casa, e ognuno fa il suo >>
Il ragazzo alzò le spalle << Come vuoi, Albarn >> grugnì << Ma la cucina… la cucina non possiamo occuparla in due per poi mangiare separatamente. Facciamo dei turni >>
Il sopracciglio destro di Maka migrò versò nord in un riflesso condizionato.
Cosa stava dicendo, il cerebroleso?
<< Dei turni >> ripeté, aprendo esageratamente la bocca. << Sai che sono quelle cose che si fanno per spartire il lavoro, vero? >> al primo sopracciglio seguì anche il secondo.
Maka Albarn era appena passata dalla rabbia alla stupore, e questo in pochi secondi.
<< No, davvero? >> stizzito, si diede un piccolo scappellotto in testa << Credevo di aver proposto una cosa intelligente, ma pensa >> palesemente ironico, scavalcò i cocci di ceramica e il piccolo laghetto che l’accompagnava, passando avanti alla ragazza.
Quando la sveglia aveva accennato il risveglio – quella mattina – Maka aveva avuto solo un riflesso della realtà. Un’immagine distorta e oblunga, un poco oscurata dalla superficie che la proiettava verso il mondo. Poi questa aveva preso forma, diventando sempre più limpida, definendosi nei tratti e nei contorni, fino ad esprimere una certa ideologia.
La mente, ancora non ridestatasi dalla veglia, la guardava senza osservarla realmente, registrandone i colori per poi schiarirli e ottimizzarli.
L’immagine diventava reale.
Era una scena di una passata routine.
E allora qualcosa si accendeva, e una piccola scarica fracassava lo specchio.
Quello era il passato.
Il futuro era ancora più sconcertante.
Viveva con Evans.
Come se nessun pensiero l’avesse mai turbata prima, quella piccola fibrillazione vibrava sempre più forte, colpendola dritta in faccia. Finché era così, poteva anche andare bene.
Era un dolore sopportabile.
Era – però – un qualcosa di incerto; se avesse potuto, avrebbe fatto volentieri i paragoni con la sua precedente vita, ma non ci riusciva: detestava vivere con suo padre, anche se era assente e perennemente allegro, come un dolce prima di cariare un dente. Il suo orgoglio le impediva di farlo, forse, oppure la sua testardaggine: viveva agiata, ma non felice.

Ora come ora, però, era disagiata e confusa. Arrabbiata contro l’idiota che aveva davanti, contro suo padre, contro la segretaria – era un’adolescente, dopotutto -, un po’ contro se stessa. Ma non poteva giudicare qualcosa prima ancora di averla vissuta o di averla letta.
Beh, non poteva giudicare nessuno, tranne Soul Eater Evans. Lui sì. Con lui si prendeva la licenza poetica.
Il sopracitato strappò un foglietto da una specie di blocco appunti, poi scrisse qualcosa con la matita che si era procurato. Raggirò la cucina, sedendosi dall’altra parte dell’isola in marmo, per poi alzare gli occhi verso la ragazza: << Diamoci una mossa, Albarn >>.
Maka gli riservò un personale sguardo d’ira, studiando nei più infimi dettagli la figura davanti a sé: sapeva di essere quasi monotematica, a ripeterselo ancora, ma il solo concetto di avere Soul Eater Evans in casa, mentre stipulavano i turni per la cucina, era a dir poco disarmante.
L’avrebbe trattata a vita così? Come se si rivolgesse a una poppante?

Sicuramente, lei si sarebbe posta a lui come se stesse parlando a un menomato mentale. Sempre.
L’artigiana grugnì qualcosa e serrò i pugni. La sua logica non faceva una piega, in fondo. E se anche l’avesse fatta, non aveva proprio la voglia di andare a smontarla. Così sedette davanti a lui trapelando disappunto.
Avevano dieci minuti per stipulare un’equa tabella di turni per una settimana di giorni dispari. Tre pasti a giornata moltiplicati per sette facevano ventuno turni da dividere. Dispari.
<< Possiamo fare così… >> Maka si sporse in avanti verso Soul, indicando il foglio. Si portò una ciocca ribelle che ricadeva in avanti dietro all’orecchio, poi usò le stesse dita per sfilare dalla mano del ragazzo la matita << Oltre al cucinare, c’è anche da lavare i piatti. Va bene metterli in lavastoviglie, ma prima vanno sciacquati: è un lavoro molto – passami il termine – palloso, e a nessuno piace farlo, però va fatto. Quando io cucino, tu fai i piatti. I turni sono dispari, quindi significa che uno di noi avrà un turno in più: se la prima settimana lo faccio io, la seconda tocca a te. Per cui direi di lasciare vuota la casella della cena della domenica, e segnare il nostro nome una volta a settimana, in modo da evitare le liti idiote da “ma la settimana scorsa l’ho fatto io!” >>.
Soul inclinò la testa di lato: c’era un motivo se era lei l’artigiana.
Se era lei quella che amavano i professori, la prima della classe.
Era pragmatica come un libro di testo, si esprimeva utilizzando un linguaggio denotativo e – ci avrebbe scommesso – guardava sempre prima il lato razionale delle situazioni, soprattutto quando non si trattava di vita reale. Non poteva dire lo stesso della sua vita privata: gli dava la sensazione che fosse una persona parecchio problematica.
In quel momento – pensò – la vedeva meno irritante e più surreale, come se avesse di fronte una persona diversa, più posata e meno aggressiva. Come se avesse di fronte una ragazza.
Questo cambio repentino l’aveva leggermente lasciato interdetto, paralizzandolo: Maka Albarn soffriva davvero di doppia personalità, ora ne era sicuro.

E sapeva anche un’altra cosa: Maka profumava di vaniglia.
Questa alzò il capo, aggrottando le sopraciglia << Mi stai ascoltando oppure ti limiti ad annuire e sorridere come all’ora di algebra? >> .
Soul la guardò di sbieco, inclinando la testa. La sensazione precedente scomparve, e a quell’essere quasi indifeso che scribacchiava velocemente con un grafia perfettamente ordinata, dalle lettere forse un po’ troppo paffutelle ma piccole, prese il posto la ragazzetta poco coerente e lancia libri.
Sì, proprio quella che gli aveva ammaccato la moto. Quel colpo era stato un trauma infantile: l’avrebbe perseguitato nei suoi incubi, come le lezioni del Professor Stein.
<< Sì, ascoltavo >> rispose, non dando nessun particolare significato alle sue parole. Si sbilanciò leggermente in avanti, verso di lei, e le sorrise quasi caparbio. All’inizio stupì la giovane, che, in un primo momento, pensò seriamente di dover chiamare un qualche psichiatra per il coinquilino. Aveva atteggiamenti davvero strani, alle volte. Okay, non solo alle volte, sempre.
<< Che fai? >> sbottò, con un fil di voce, mentre esso avvicinava la mano al suo volto, facendola scivolare fino ai capelli.
<< Sai… >> sillabò, osservando con estrema minuzia un punto non proprio preciso del suo volto. Non poteva definire quale, perché i suoi occhi sicché essi ruotavano tra tutti i tratti della faccia. << In questo momento, volendo… >> fiatò leggermente, con la stessa voce che aveva usato il pomeriggio precedente. Provocante, bassa, rauca.
Ma cosa… ?
Passò due dita tra un codino, per poi afferrarlo con la mano e – con sommo stupore della giovane – tirarlo.
Qualcosa scoppiò nella testa di Maka.
Infantile!
Infantile!
Infantile!

La sorpresa le impedì di cacciare fuori un urletto isterico, mentre il volto assumeva connotati poco dignitosi.
Tra i denti pronunciava qualcosa di incomprensibile anche per lei, mentre quello rideva a crepapelle, tenendosi il busto con le braccia.
<< Ma quanti anni hai, dieci?! >> esplose, indicandolo ripetutamente << Essere inutile… spregevole… infantile… cerebroleso… idiota…. ! >> urlò. Ma il suo riso non accennava a spegnersi, amplificandosi a ogni parola della ragazza.
Qualunque Dio ci fosse, in quel momento non la stava assistendo.
<< Quei codini sono… ridicoli! >> rise tra sé << Non ho resistito alla tentazione! >> prima ancora che la bionda potesse replicare, la zittì con una mano, scendendo con un balzo dalla sedia.
<< A dopo, secchiona! >> prese la cartella, trascinandola – letteralmente – con sé << Ah, un’ultima cosa: se avessi avuto una scollatura, sporta così com’eri verso di me, avrei visto tutto >> ghignò, per poi scuotere la testa << È vero: in ogni caso, non c’è niente da vedere >>.
Qualcosa tuonò. Quel qualcosa fu l’urlo della Shokunin, mentre il ragazzo si eclissava dall’uscita del suo lato di appartamento.
<< Io? Capelli ridicoli?! >> stizzita, guardo prima l’orologio, poi si diresse verso il bagno, a rimirare il suo riflesso. Le aveva distrutto l’acconciatura << Lui ha i capelli molto più ridicoli dei miei: li ha bianchi, come un vecchio! Un vecchio con la mentalità di un bambino di sei anni! >>.
No, probabilmente non ce l’avrebbe fatta a sistemarsi la capigliatura. Slegò i codini e si diede un colpo di spazzola, per poi correre verso la cucina.
<< E poi io non sono così piatta! >> continuò.
Stava parlando da sola? Sì, stava parlando da sola.
Nonostante tutto, si rendeva conto che quello non era da persona normale.
Al diavolo!
Metà del suo caffè era a terra, non aveva mangiato e stava rischiando di arrivare in ritardo.
Che bell’inizio! La giornata si prospettava rosea!
Appese il foglietto e uscì.
Al diavolo tutto!

***

Soul arrivò quasi in perfetto orario. Fermò la moto dietro la scuola, in quegli inutili parcheggi riservati a delle biciclette che nessuno possedeva. Gli studenti preferivano l’auto, oppure l’autobus, o qualsiasi altro mezzo di trasporto che non richiedesse sforzi fisici. Inoltre – a detta di Kid – le bici erano troppo assimetriche. Quel ragazzo aveva seri problemi, ma nessuno batteva Black*Star in fatto stranezze.
Tolse il casco, sistemandolo nell’apposita zona della sua bellissima moto ammaccata, che in ogni caso rendeva le sue entrate in scena più cool di quanto già non fossero.
Quella era la routine, dopotutto. La quotidianità da un bel po’ di tempo, tant’è che non riusciva a ricordarsi quando avesse mollato il conservatorio per trasferirsi dall’altro lato del paese.
I suoi genitori lo volevano alla Juliard, lui voleva semplicemente vivere la sua vita, come ogni adolescente.
<< Vedere quella tua moto con quel dannato graffio turba la mia psiche >> affermò Kid, raggiungendo l’amico.
Soul ghignò << Anche la mia, ma almeno non mi accascio a terra strillando qualcosa di troppo delirante per essere capito da menti comuni >>.
Ritrovarsi lì prima dell’inizio delle lezioni era un po’ una scongiura, un po’ un’abitudine. Lo facevano e basta, non c’era un motivo ben preciso.
Forse – pensò – quel che rendeva così allettante questo luogo era, di per sé, il fatto che fosse il retro della scuola. Un posto calmo, silenzioso. Inoltre, ideale per avere una certa Privacy: per questo, all’ora di pranzo, molte coppie cercavano rifugio lì per limonare.
Un piccolo spasmo colpì l’occhio del ragazzo scuro, che si voltò di scatto << Oddio! >> esclamò, con voce rotta dalla commozione << Io… non posso guardare! Quell’ammaccatura rende la carrozzeria della tua moto più profonda in un angolo di circa sette millimetri! Oh, disgrazia. Oh, crudeltà! >> Soul scosse la testa, rassegnato, e smise di ascoltare il monologo amletico dell’amico.
No, quel giorno non l’avrebbe sopportato.
E non avrebbe retto neanche il….
<< YAHOOOOO! Il grande ME vi ha dato l’onore della sua ECCELLENTISSIMA presenza! >> qualche giorno prima era regale presenza. Black*Star stava aggiornando il suo vocabolario nello stesso modo in cui poteva farlo un cane. I suoni, alla fine, erano sempre gli stessi, così come il messaggio.
Piombò giù nel solito punto dal solito albero. Sì, faceva sempre così e – sì – credeva facesse ancora effetto. In un certo senso, riusciva a stupire un poco chi non conosceva, ma la maggior parte delle persone lo etichettava come pazzo. Poveretto: lui era solo un po’ sopra le righe.
Gli occhi cremisi dello studente rotearono verso l’alto. Mise le mani in tasca e decise che – forse – era ora di entrare in classe.
<< Andiamo, Kid, o Stein ci ammazza >> disse << Anzi, ci viviseziona >> si corresse, dando uno scappellotto all’amico << E non ti preoccupare, vendicherò la moto >>
Questo alzò lo sguardo << E come, sentiamo >>
<< Conoscendo il nemico si può colpire il punto debole. Rimpiangerà quello che mi ha fatto >> soffiò, con lo sguardo cupo e la voce seria, sfiorata nel profondo da un pizzico di follia.
<< Giusto >> Kid ghignò << Dimenticavo che tu sei la Falce >>
<< HEY! VOI DUE! AL GRANDISSIMO BIG QUI PRESENTE NON PIACE ESSERE IGNORATO! >>
Si guardarono e risero, sotto le urla del ragazzo dietro di loro.

***

Tsubaki sbuffò o, meglio, lanciò un piccolo sospiro, incrociando lo sguardo con Liz che, poveretta, stava raggiungendo il limite della sopportazione. Perché Maka era una grande amica, sì, ma un’amica che sapeva prenderti ai nervi, soprattutto quando ingigantiva le cose e le ributtava sul mondo a una velocità tale che solo lei – forse – sapeva starci a presso.
Le amiche avevano appreso negli anni che, l’artigiana, non aveva esattamente una predilezione per il ragazzo della motocicletta, ma – tempo due giorni – aveva avanzato contro di lui una vera e propria guerra fredda. O a armi aperte? In ogni caso, la bionda non sembrava troppo contenta, quella mattina.
Era arrivata di fretta: il colletto aveva una macchiolina di caffè, la cravatta della camicia annodata alla bene’e meglio e i capelli sciolti sulle spalle, pettinatura che non adottava mai – erano troppo scomodi i capelli lasciati all’aria, senza aver un preciso ordine. Maka li detestava.
Aveva inoltre quell’aria palesemente irritata, come se l’avesse svegliata un lamantino vomitandole in faccia. Borbottava qualcosa tra sé e sé, qualcosa di incomprensibile, come una formula magica, di cui le amiche avevano decifrato solo un “Ma dove siamo?! All’asilo?!” – non avevano osato indagare oltre.
La cosa andava avanti dalle prime ore, e si protraeva fino a quella che doveva essere la terza.
<< Che hai ora, Maka? >> Liz si appoggiò alla fina di armadietti, osservandosi le unghie con fare fin troppo attento pure per i suoi canoni. Doveva davvero ripassare lo smalto: una cosa che odiava era avere il colore delle unghie assimetrico. Non lo sopportava proprio.
L’artigiana sbatté con forza lo sportellino dell’armadietto, tenendo tra le braccia un libro bianco << L’anno scorso avevo fisica quantistica, quest’anno ho letteratura inglese >> pure quel mononeurone cerebroleso di Evans si sarebbe accorto che non sprizzava entusiasmo all’idea di partecipare al corso.
A Maka piaceva leggere, ma indipendentemente. Fare antologia a scuola, con quel metodo rigoroso e schematico era, da un lato, pratico e utile, dall’altro molto noioso e privo di prospettiva. Inoltre, non trovava niente di intellettualmente stimolante nelle opere Shakespeariane, e nemmeno in tutto ciò che si poteva studiare in quel corso. Sperava di rifarsi un poco con poesia, ma aveva già notato – nella lista dei libri – che il docente non dava troppa importanza a quella materia.
Liz ghignò << Ammettilo: o questo o educazione fisica >>
Maka grugnì, mentre la prospettiva dell’ora di lezione di faceva meno cupa. << Esatto >> sillabò, arricciando le labbra.
<< Tu? >> indicò il libro blu che aveva in mano.
<< Biologia >> dichiarò << Con Tsubaki >>
<< Beate >> sospirò, pensando con nostalgia a quelle belle lezioni di scienze naturali che tanto le piacevano; al sorrisino sadico del professore e alle infinite vivisezioni. Altro che letteratura, tzè.
Era una materia che l’artigiana prendeva quasi sottogamba: sarebbe stata noiosa, ma non un problema.
<< Se avessi voluto, ti saresti potuta iscrivere anche tu >> azzardò Tsubaki, accennando un sorriso dolce. Maka non poté che ricambiare, alzando le spalle, senza darle una vera e propria risposta articolata.
<< Sai com’è fatta >> sbottò l’altra << Lei è l’artigiana: non si cimenta in ciò che ha già fatto >>
<< Sì >> sbottò la sopracitata, cercando di non rispondere troppo male << Ah, questa è la settimana peggiore della mia vita >> borbottò, allungando la mano verso l’armadietto, chiudendo meglio il lucchetto << E ora mi tocca anche il corso di lettere. Se facciamo Romeo e Giulietta, giuro che mi suicido >>
<< Mah – non ti hanno mai detto che il suicidio è contro produttivo? >> qualcosa di molto simile a un ronzio colpì l’apparato acustico della ragazza. Perché quella voce le era così famigliare? Perché Liz rideva mentre Tsubaki – trattenendo un sorriso – cercava di zittirla? Perché doveva vedere di nuovo l’idiota davanti a sé?
Il Karma, nel suo giro cosmico, doveva averla colpita per sbaglio, magari credendola una Maka Albarn che in realtà non era: magari il tizio che scrivere i nomi sul quaderno nero aveva sbagliato volto colpendo lei, un’omonima.
<< Che vuoi? >> domandò ostile.
<< Irritarti >> controbatté candido, splendente come un sole acceso da un ghigno al metà tra l’ironico e il divertito.
<< Ci stai riuscendo alla perfezione >> gli lanciò un piccolo fulmine mentalmente, poi girò i tacchi verso le amiche << Ditemi che l’aula di biologia è la stessa dell’anno scorso e che dovete fare la strada per la lezione con me >> il suo tono era quasi supplichevole. Poco ci volle alle due per capire che qualcosa non andava. Era troppo irritabile e troppo suscettibile, quella mattina. Poco razionale.
<< Mi spiace >> borbottò << È proprio dal lato opposto >>

Maka avanzava per dei corridoi quasi irreali: a volte più stretti, altre più larghi; dal soffitto che s’alzava e abbassava quasi a suo piacimento, quasi fossero in un libro della Roling. Eppure poco centrava con la magia o con un romanzo: la Shibusen era semplicemente stata costruita così, con finestre piccole e inesistenti, aule ampie e luminose, laboratori ben strutturati e funzionali. Non metteva in dubbio che poteva anche essere un posto agghiacciante, soprattutto per chi non era abituato all’eccentrica struttura, ma – osservandola più nei dettagli – appariva accogliente e bella.
A Maka piaceva la sua scuola: era un’ancora fissa e stabile, un ambiente accogliente che ospitava tutto ciò che poteva servirle.
L’unico dettaglio che stonava nella perfezione dell’ambiente era un’oscura presenza di origini non umane, incline a essere l’essere più fastidioso che – in quel momento – poteva girarle intorno.
<< Smettila. Di. Seguirmi.. >> onde di fuoco uscirono dalla piccola bocca della ragazza, andando a colpire il malcapitato senza nessuna pietà o possibilità di fuga. << Sei diventato uno stalker, ora? >> lui rise, ignorando il palese sottinteso omicida della compagna.
<< Uno cool come me non ha nessun interesse ad andare in giro con una secchiona come te >> spiegò risoluto << Ma stiamo solo andando nella stessa direzione: sei leggermente paranoica, sai? >>
<< Non lo sono! >> sbottò, alzando il tono di un’ottava. Irritante.
<< Si che lo sei >>
<< No >>
<< Sì >>
<< No >>
<< Si >>
<< N--- >>
<< Volete continuare o entrare in classe? >> i due alzarono il capo, mentre un professore dall’aria né vecchia né giovane li attendeva all’uscio dell’aula. Era mezzo pelato, bassottino, con due piccoli occhi castani e un codino raccolto dietro al capo. I capelli, un tempo di un biondo acceso, figuravano in un color miglio pallido, tendente al bianco. Nessuno dei due l’aveva mai visto, ma ebbero reazioni differenti.
Se da un lato Maka si ricompose, portando rispetto alla figura del docente e pronunciando le sue scuse, dall’altro, la falce, assumeva un ghigno strafottente, degno solo di lui, sorpassando con un grande passo il professore di lettere. Quel ragazzo mancava di qualcosa, ma in primo punto di rispetto.
Maka scosse la testa, rassegnata, mentre trenta occhi curiosi di posavano su di loro. La classe era suddivisa come una qualunque aula universitaria: banchi in alto, posti a circolo, cattedra e lavagna in basso, sotto lo sguardo di tutti.
Una ragazza arrossì, dando una gomitata all’amica, per richiamarla da un’apparente stato comatoso. Un brusio sempre più forte si levò intorno a loro, mentre prendevano posto uno affianco all’altro.
Sarebbe stata un’ora molto lunga.
<< Bene, dopo aver dato il benvenuto alle nostre New entry… >> il docente lanciò un brutto sguardo verso di loro, abbassò la testa e prese in mano un gessetto << … direi che possiamo iniziare. >>
Su una lavagna ci almeno cinquanta centimetri di larghezza, scrisse solo una cosa. Una cosa che la riempì per intero “Poesia”.
Ma nel programma non figurava... ?
Qualcuno tirò fuori il blocco per gli appunti; Maka decise di provare a seguire e basta, tanto per farsi un’idea del corso e di quel docente così strano, mai visto prima. Forse aveva frequentato davvero troppi corsi scientifici. Ma l’umanistica comportava l’analisi degli altri, nonché l’auto analisi di se stessi. No, la cosa non le piaceva proprio.
<< La poesia… >> iniziò << … Beh, la poesia è tremendamente noiosa >> si portò le mani ai fianchi, scuotendo la testa << Soprattutto come è fatta qui a scuola: fare la prosa? È una palla, ragazzi miei >> tutti risero, tranne l’artigiana che – sorpresa – fissava stranita il professore << Insomma: non possiamo dare una valutazione oggettiva a una poesia: è follia. Però va fatta, mi spiace >> in quel momento capì che qualcosa non andava. Che educatore era uno che diceva cose simili ai propri studenti?
Uno che mancava di sale in zucca, a parer suo.
<< Vedete, però, se da una parte la poesia è qualcosa di altamente soggettivo – qualcosa che può trasmettere ad ognuno di voi varie sensazioni, belle o brutte, totalmente diverse – è anche un lavoro pratico e razionale >> si contraddiceva da solo, ora? << Pensateci bene: un poeta deve scegliere le parole. Un poeta è un artigiano, che usa le parole come armi – le rifinisce e le lima, le pulisce e lucida – per comporre versi, scegliendo e selezionando ogni singolo scritto. >>
La mascella della giovane partì dritta verso il pavimento, mentre, ignorata da tutto e tutti, qualcosa – forse nell’aria – iniziava a muoversi. Quel qualcosa, sapeva di follia: un presagio, forse. Ma lei non ci credeva, ai presagi. Nonostante ciò aveva una brutta sensazione: quel corso sarebbe stato tutto, ma non semplice.
La lezione proseguì con la stessa ironia con cui era iniziata: più andava avanti, più si convinceva di essere finita in una gabbia di pazzi.
Gli alunni ridevano alle battute, scherzavano con il prof, e lui ne era felice. Trasmetteva la materia come un gioco. Quelle parole, quelle pagine, quei versi, smettevano di essere cose da imparare a memoria, ma diventavano un mondo da scoprire. Proprio come quando eri bambino, ingenuo, e vivevi in un mondo surreale dove ogni minimo colore o sensazione si amplificavano, rendendo il tuo microcosmo più grande e bello. Era esattamente quello che si provava in quell’aula, al metà tra il serio e il giocoso.
Era qualcosa di… strano. Folle.
<< Come sappiamo – o forse no? – la poesia ha un linguaggio tutto suo >> continuò il docente, sedendosi sopra la cattedra. Le gambe a penzoloni, un sorriso in volto, una luce negli occhi. La sua materia gli piaceva, tanto, forse troppo. E gli piaceva trasmetterla. << Qualcuno di voi sa dirmi quale? >> saettò lo sguardo da una parte all’altra, analizzando gli alunni. Puntò il dito contro quella che stava disturbando ancor prima di entrare in classe: l’aveva riconosciuta a primo acchito. In realtà, aveva riconosciuto entrambi senza neanche conoscerli: erano famosi come la Shokunin e la Buki. Rispettivamente la migliore studentessa dell’istituto e il peggiore individuo della Shibusen; non tanto perché fosse violento, oppure svogliato, tanto per il suo modo di porsi al mondo, a quel che poteva essere la vita. L’affrontava come se non ne fosse davvero partecipe e, se succedeva qualcosa, lui era sempre di mezzo. A volte dietro le quinte, come un burattinaio invisibile, di cui si intravedeva solo una luna nascente sul volto: un ghigno ironico. Perché portare gli altri a fare quello che diceva lo faceva sentire grande. Forse per questo qualcuno lo chiamava falce della morte.
Il docente sapeva che dipingerlo in quel modo era spregevole: inquadrare una persona completa in poche parole equivaleva a mostrare l’arroganza di un Dio. Ma lui di divino aveva poco, e nutriva la ferma convinzione che – anche se adolescenti – provano qualcosa di molto più complesso: non solo rabbia nella sua forma più distruttiva, non solo gioia nella sua arte più ingenua. Arrivavano a un livello superiore rispetto ai bambini, ma non assimilavano le loro sensazioni in modo maturo come poteva fare un adulto, che – invece – sapeva di non potere semplicemente stare in balia di ciò che era.
In quel momento ebbe la certezza che quei due gli avrebbero dato seri problemi.
La bionda trasalì, colpita dall’irruenza dell’omino << Tu, New Entry dai capelli spettinati: che linguaggio usiamo con la poesia? >>
Maka sospirò, ignorando il commento inusuale dell’uomo: troppo semplice.
<< Innanzitutto, occorre precisare i tipi di linguaggio che adottiamo usualmente, per poi arrivare a spiegare quale utilizza la poesia. Grossomodo, abbiamo due tipi di correnti, che si appellano al significato e al significante della parola stessa: Primo, abbiamo il linguaggio denotativo, che definisci precisamente una realtà o un concetto; è lo stesso che utilizziamo nei manuali di scienza, nel ragionamento logico, oppure quello che possiamo trovare in un testo giornalistico che rispecchia la realtà: tale tipo di linguaggio è detto anche “Univolo”; poi abbiamo una seconda opzione, il linguaggio Connotativo, che si esprime attraverso metafore, allusioni, giochi di suoni. È un linguaggio evocativo, di natura ambigua. Per esempio: il leone, nel nostro primo tipo, significa propriamente “animale carnivoro”; nel secondo tipo – in base al contesto – può significare “uomo pieno di coraggio”. Se vogliamo andare più nei--- >>
<< Okay, okay, okay >> la interruppe, scuotendo la testa e sbuffando << Certo che sei noiosa e precisa come un libro di testo >>
Maka si sentì profondamente offesa: quello che le aveva chiesto il docente era proprio quello, lei l’aveva semplicemente spiegato come andava espresso.
<< Quel che hai detto è vero, ma non hai risposto alla mia domanda: che linguaggio usa la poesia? >>
Aggrottò le sopracciglia << Quello connotativo, mi pare ovvio >> sbottò, mandando al diavolo il rispetto: se non era reciproco, non intendeva portarlo a quell’insegnante.
<< Non smentisci la tua fama >> esordì << Eppure, sei veramente piatta >> prima che l’artigiana potesse scattare al suono di quella parola, lui riprese << Piatta, priva di emozione. La poesia è emozione, per cui devi capacitarti di usarla quando sei qui. Dì quel che pensi e quello andrà bene >>
Poi alzò nuovamente gli occhi, questa volta puntando il ragazzo. Soul stava mezzo coricato nel banco, ascoltando con interesse la lezione ma apparentemente in un suo personale mondo, a cui era vietato l’accesso se non alla sua psiche. Un po’ come se si fosse rinchiuso in una personale stanza nera.
<< Tu, tizio Caio di cui non voglio ricordare il nome >>
<< Mah, potrei ritenermi offeso, sa, prof? >> rispose, con un po’ di ironia e un po’ di curiosità. I modi di fare di quel tizio – come aveva deciso di definirlo la buki – gli piacevano: era diretto, irritante, ma sapeva fare il suo lavoro.
<< Sì, ma non mi importa >> disse candidamente << Come risponderesti alla tua compagna? >>
Questo guardò di soffiato il profilo irritato e sconvolto della quasi-più-o-meno-indefinibile-coinquilina: stava per scoppiare, ne era sicuro. << Beh, esattamente come le ha risposto lei: che è piatta >> le scoccò uno sguardo sarcastico che lei recepì alla perfezione: il significato di quel piatta era molto diverso rispetto a quello attribuitole dal prof – questo non era connotativo. << E forse che dovrebbe essere meno rigida >>
<< Senti, tu… >> sbottò la compagna, serrando i denti e congiungendo le braccia. Esprimeva aggressività o difesa quel gesto involontario? << … Io non sono né piatta né rigida – esclamò, con le tasche ormai letteralmente piene della lezione – sono solo una persona che tiene a ciò che fa. Questa lezione, prima di tutto, manca di normalità. Non mi piace la cosa. Secondo, non accetto critiche da un arrogante come Soul Eater Evans >>
<< Io? Arrogante? Vogliamo parlare delle tue manie di controllo? >>
<< Io non ho manie di controllo! >> sbottò.
<< Sì che le hai >>
<< No >>
<< Sì >>
<< No, nemmeno mi conosci >>
<< Sì, perché ci vuole poco a cap--- >>
<< Va bene, abbiamo capito: ora state buoni >> li richiamò il docente. Forse avrebbero causato problemi, forse avrebbero solo fatto divertire la classe.
La lezione proseguì e, quando finì l’ora, fu come incappare in un fuoco nella notte.
Quasi come cambiare realtà.
Gli alunni si sparpagliarono, la classe si riempì di brusii, mentre uno strano eco riempiva la testa dell’artigiana, mentre fissava quel libro di testo non aperto.
Non era abituata a quel genere di cose. Le ricordava… beh, le ricordava quando suo papà le leggeva le fiabe, da piccola, quando le diceva che – un giorno – lei sarebbe stata una principessa e un bel principe sarebbe corso in suo soccorso.
Poi aveva imparato che il principe azzurro non esisteva: né azzurro, né bianco e né tarocco. Se i ragazzi erano belli, per qualche ragione dovevano essere anche stronzi. E se non erano belli… erano comunque dei luridi bastardi.
E cosa rispondevi, al tuo papà? “Ma da grande sposerò te, papi. Non ho bisogno di un principe”. E lui rideva, cristallino, felice, abbracciandoti come se fossi la cosa più preziosa. Una stella in un cielo cupo. Perché lui ti voleva bene. Forse.
<< Ci si vede, secchiona >> Soul fece pressione sulle braccia, alzandosi dal banco e lasciando la compagna alle sue lamentele riguardo all’appellativo con cui si stava abituando a chiamarla.
Scosto delle fotocopie con la mano. Roba che non avrebbe mai studiato. Raccolse la borsa svogliatamente e contò le ore mancanti alla pausa pranzo. Ancora due: poteva sopravvivere.
<< Ti ho detto di non chiamarmi così! >> sbottò Maka, alzandosi di scatto con il libro di antologia in mano, pronta all’attacco.
<< Sì, secchiona >> sbottò col minimo disinteresse.
<< Makaaaa >> per qualche ragione, quando l’artigiana urlò il proprio nome, sentì di dover avere paura << Chop! >> completò, scagliandoli il libro in testa. Com’è che – nonostante fosse più bassa di lui – i suoi colpi centravano sempre l’obbiettivo?
Sentì qualcuno ridacchiare mentre, fiera, girava i tacchi prima ancora che il suo nemico potesse controbattere. Perché ormai – forse solo per puro principio – Soul Eater era diventata la sua nemesi.
Era irritante, presuntuoso e pieno di sé. Nonché stronzo, ovvio.
<< Ti sei fatto male? >> sentì. Con la coda dell’occhio, vide quella ragazza che era arrossita a inizio lezione. Soul la stava ancora guardando, con qualcosa – in quegli occhi – che la intimorì. Se il demonio esisteva, doveva avere gli occhi rossi. Poi si voltò, massaggiandosi il capo << No, tutto bene >> sorrise, gentile, e la ragazza – insieme alla sua amica – diventò un piccolo peperone.
Ah, le donne.

[***]

Soul lanciò uno sguardo a pochi armadietti di distanza, ritornando immediatamente su Black*Star, che operava con il telefono cellulare. Chiuse con un piccolo botto l’armadietto, che protestò con un sonoro “clang”. Prima o poi si sarebbe rotto, poco ma sicuro.
Di negativo, c’era che era nervoso.
Di positivo che la giornata scolastica era appena finita.
Le tre sembravano non arrivare mai, come sempre.
<< Sembri nervoso >> il turchino gesticolò con il cellulare, digitando qualcosa velocemente << È da stamattina che sei sovrappensiero >> Soul fece una smorfia: il fatto che quello svampito narcisista se ne fosse accorto era grave, molto grave. Dopotutto, Black*Star non riusciva mai a vedere più in là del suo naso.
<< Sai com’è: problemi quotidiani >> ghignò, passandosi una mano tra i capelli. Si appoggiò alla fila di armadietti, svogliato, con le mani in tasca.
<< Mah >> Black*Star alzò le spalle << Stai andando in bianco? >>
Soul ridacchiò: come se fosse possibile. Aveva una strano effetto, sulle ragazze, e lo sapeva bene. Uno cool come lui non poteva non avere tante belle donne ai suoi piedi. Se ne compiaceva.
<< Diciamo solo che qualcosa mi irrita, in questo periodo >>
L’amico alzò le spalle << A me irrita il fatto che una ragazza abbia appena disdetto per il Gokon. Kid dice che non possiamo assolutamente essere otto ragazzi e sette ragazze. Sta dando di testa… e lo sai cosa fa, con il numero sette >>.
Soul ghignò, poi scosse la testa, dandosi una piccola pacca sulla fronte << Te la rimedio io, un’ottava ragazza >> disse, avanzando di qualche passo.
Black*Star osservò la scena da lontano, mentre Soul si avvicinava alla Shokunin. Da quando aveva a che fare con quella lì? Non erano buone compagnie, prima di tutto. In secondo luogo, andare in giro con una secchiona simile uccideva – letteralmente – la tua reputazione. E Black*Star non poteva tollerare di non essere al centro dell’attenzione. L’unica cosa buona di Maka Albarn era l’amica, Tsubaki: era carina e riservata e aveva un bel corpo.
Maka strillò qualcosa, gli diede un libro in testa, che lui schivò.
<< Non ci casco due volte! >> sogghignò << Se ti annunci, inoltre, è più facile evitare il colpo >>.
Le guancie dell’artigiana si gonfiarono come due palloncini, come quelli di una bambina, diventando prima rossi, poi viola e infine verdi.
<< Non verrò a uno stupido Gokon! >>
<< Perché?! >>
<< Perché devo studiare, pulire, preparare la cena, iniziare a leggere i libri che ci sono nella lista delle lezioni di letteratura, ripassare biologia, iniziare a… >>
<< Sì >> l’interruppe << Devi fare cose da secchiona senza vita sociale, lo capisco – sbottò, alzando le spalle – e non me ne importa niente. Tu vieni con me >>
<< No >>
<< Sì >>
<< No >>
<< Sì >>
Soul era sul punto di avere un esaurimento nervoso: perché la faceva così difficile? Perché avevano questi dialoghi “” “no” da tutta la mattina.
Infine, si appellò a qualche santo, lasciando perdere il discorso diretto.
La sollevò di peso, tra mille proteste e insulti, caricandola sulle spalle come un sacco di patate.
<< Lasciami, stronzo! >> esclamò, dandogli vari pugni sulla schiena e agitando le braccia << Questo è illegale! Mollami! >>
<< No. Te l’ho già detto: mi serve l’ottavo membro per il Gokon* >>

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Gokon = Uscita di gruppo per incontrare ragazzi o ragazze nuovi e per cercare possibili partner, organizzato spesso in Giappone.

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About the Fanfic

 

Eccomi di nuovo, dopo venti giorni. Sapete, è stato un parto. Ogni giorno scrivevo al massimo 400 parole, per poi rimanere ferma e immobile. Che depressione ò_ò poi però ho scritto dieci pagine, e questo non so esattamente se è un bene o un male.
Questo capitolo è decisamente più OOC dell’altro, mi spiace. Ho scritto di getto, pensando poco a ciò che sono i personaggi. Mi scuso *si inchina*
Notare che – in questo capitolo – sono diventati tutti un po’ più pazzi, e che il caffè è ancora sul pavimento del dormitorio xD
Dopo tre ore di latino, sono spossata =_= ho finito il capitolo ieri notte, ma oggi sono ancora meno lucida.
Mi scuso per la Scadenza del tutto *si inchina* spero che non faccia così vomitare come sembra a me.
RINGRAZIAMENTI!
Prima di tutto, devo ringraziare la Nonnina Marty, perché è in gran parte merito dei suoi consigli se questo capitolo è qui: mi da sempre un grande appoggio, mentre scrivo, e di questo la ringrazio tantissimo; Poi una mia cara amica, di cui non farò il nome, che mi minaccia ogni giorno di morte, costringendomi sì e no a scrivere.
Ora vengo a ringraziare tutti voi lettori: potete anche minacciarmi di morte dopo aver letto l’obbrobrio qua sopra, ma avete tutta la mia gratitudine per gli splendidi commenti che mi lasciate. Per aver seguito non solo questa storia, ma anche tutte quelle Shot che mi ostino a pubblicare e scrivere ò.ò Grazie mille a tutte.
Un grazie a quei prodi coraggiosi che mi hanno inserito tra le autrici preferite, faccendoni cadere la mascella a terra dall’incredulità!
Grazie ai lettori, sia vecchi che nuovi, perché mi date fin troppo coraggio.
Grazie a tutti!

Recensioni:

giovywanda: Grazie mille! XD l'idea di abbandonarla non mi è mai saltata per la mente, ma non ci posso fare niente: l'ispirazione arriva quando vuole arrivare, così come la voglia di fare XD inoltre, un po' mi annoio a scrivere capitoli di transito come quello precedente, e so che - nella maggior parte dei casi - annoia anche il lettore. Per cui grazie della recensione! Spero di risentirti presto.

MartyStyle: Nonnina *_* *stritola* ecco il capitolo che ti ho fatto tanto penare, rompendoti le scatole per ben venti giorni con tutte le mie manie. Ti dovrebbero fare santa, sai? sopportare una come me non è facile >_< lieta che ti sia piaciuto il capitolo precedente: ora ti lascio alla lettura di questo. Okay, ti lascio a finire la lettura di questo, perchè il resto ti ho già obbligata a leggerlo XD

walpurgis: Ciao ^^ è un piacere rivedere il tuo nome nella lista delle recensioni: mi ha fatto davvero piacere il tuo commento, poichè questi capitoli li sto scrivendo tenendo poco conto dell'IC - è una cosa che non si dovrebbe fare, ma la sto facendo. Putroppo non so se riuscirò sempre a rendere le cose come vorrei e neanche se riuscirò a mantenere i personaggi come in originale, però.. però grazie, ecco tutto. Mi hai risollevato il morale.
Prima di pubblicare questa storia ero molto indecisa: non mi andava di buttare all'aria tutto ciò che aveva costruito il sensei Ohkubo scrivendo una AU scolastica. Amo i personaggi e l'ambientazione di Soul Eater, quel che sono le armi e ciò che possono diventare gli artigiani: non mi andava proprio di sconvolgere tutto ciò. Per questo sto cercando di inserire le cose originali nella trama. Mi fa piacere che l'accorgimento ti stia piacendo.
Per quanto riguarda Soul.. beh, ci saranno altre scene del genere, anche perchè -come "autrice" - mi diverto tantissimo a scriverle.
Ancora una volta, grazie del commento e del supporto. A presto ^_^

Dany92: Tu dici sempre di essere ripetiva, io dico invece che, ogni volta che leggo una tua recensione, sento l'irrefrenabile istinto di abbracciarti e stritolarti. Inoltre, non so mai come rispondere alle tue lusighe: faccio schifo a ribattere alle recensioni, ancora di più ai complimenti *va in un angolino*
Questo capitolo è un po' più lungo del precedente: in realtà volevo inserire anche il Gokon, ma poi mi sono fermata: tengo alla sanità mentale di chi è tanto coraggioso da leggere quello che scrivo D:
Putroppo questo pecca MOLTO di più di OOC, soprattutto nell'ultima parte. E il livello di scrittura mi sembra calato .-.
La psicologia dei personaggi, in questo momento, è solo abbozzata: voglio fare uno sviluppo naturale del carattere originale, magari aggiungendoci un po' di mio, ma senza che sembri forzato o irreale. Almeno, questo è l'intento. Farò quello che posso fare nel limite delle mie capacità.
Scusa la poca eloquenza, Dany-chan, ma oggi credo di essere un po' più partita del solito XD
A presto! Bacioni!

Midnight_Rose: Ah, magari aspettassi così tanto per tenervi sulle spine! La verità è che sono una lumaca. Una lumaca più lenta delle altre lumache, che prima gira le antennine da una parte e dall'altra, e dopo un po' inizia a camminare pigramente verso l'obbiettivo. Anche se, quando lo raggiunge, scoppia di felicità, nonostante il traguardo non le piaccia--- ma, hey! perchè sto parlando di me in terza persona? e perchè sto parlando di me rivolgendomi a una lumaca? D:
Ah, Soul lecchino! neanche io c'è lo vedevo troppo, sinceramente *ridacchia* e ancora lo vedo strano, in quella parte.
"Questa convivenza non andrá per le lisce secondo me xD,tutti e due sono determinati a vincere questa sfida che si sono importi,Maka troppo orgogliosa,Soul strafottente.Insomma,non possono perdere!" Io quoto tutto XD non sarà facile, ma sarà pressapoco divertente (per me, almeno XD)
Il ghigno di Soul non promette mai niente di buono XD
Al prossimo capitolo! Baci!
E grazie mille per la recensione e la lettura *_*

Ana_Sama: ANA! *W* okay, questa me la potevo risparmiare XD non ti preoccupare per i giorni di lettura o per quando recensisci o meno: basta che ti sia piaciuto e che l'abbia letto. Tutto qui XD poi io faccio schifo con le recensioni, per cui *angolino*
Spero che anche questo capitolo ti piaccia.
Sei passata dalla parte di Soul, nè? +_+
Alla prossima, baci!

Inuyasha2099: Ciao! *_* che bello vedere un nome nuovo! mah, io sono molto più pigra di te, e il fatto che tu mi abbia lasciato un commento mi fa piacere lo stesso: di recensire tutto non c'è ne tempo ne voglia, per cui non ti preoccupare XD - inoltre sarebbe un suicidio D:
Come Font uso il Georgia, in ogni caso XD
A prossimo capitolo ^_^

   
 
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