"Non ce la facevo più.
Avevo bisogno di respirare, avevo bisogno di andare via da lì, avevo bisogno di scappare da tutta la merda che mi circondava, avevo bisogno di un concerto, cazzo, sì. Avevo bisogno di vivere.
Erano le tre di notte.
E, come al solito, io ero lì, sdraiata sul prato del giardino di casa mia, a pensare.
"Vi chiedete perché di giorno io abbia una faccia da morto vivente, perché sia in uno stato di semi-coma perenne?", sussurrai tra me e me.
"Perché la notte non dormo, ecco perché.
Preferisco farlo di giorno, sinceramente."
Guardai la fitta coltre di nubi che si estendeva sopra di me, nascondendo la luna e le stelle.
Credo che anche loro si sentissero come me, in quel momento.
Intrappolate, soppresse, soffocate.
Senza una via d’uscita.
Mi piaceva sperare che un domani, forse, un vento gelido avrebbe spazzato via le nuvole, permettendo alle stelle di tornare a brillare, libere.
Ma purtroppo mi resi conto che io, invece, sarei stata ancora lì.
Cercando di scrollarmi di dosso quell’orribile senso d’oppressione che mi tormentava da un po’ di tempo.
Non chiedevo molto, infondo.
Ma sapevo che avrei dovuto rassegnarmi.
Ah, ho dimenticato di presentarmi.
Io non ho mai avuto un nome.
Anzi, in realtà, il nome dell’anagrafe ce l’avrei anche.
Ma lo usavano soltanto i professori e gente simile.
Preferirei non essere chiamata.
Se proprio volete attribuirmi una cazzo di etichetta, un nome, allora chiamatemi Whatsername, comesichiama.