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Autore: Sarras    24/10/2010    2 recensioni
Un tiranno muore, il suo impero si sfalda... Ma cosa succede dopo? Questa storia fantasy parte dalla fine di una tipica guerra contro il male e mostra quel che i vittoriosi eroi devono affrontare per mantenere la pace che credevano di aver conquistato. Tra intrighi, politica, delitti efferati e atmosfere talvolta inquietanti, la loro forza sarà messa a dura prova, poiché adesso saranno loro a raccogliere le sorti dell'impero.
Genere: Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO

Il tiranno era morto.
L’oscuro signore, che dominava l’Impero Atro dall’alto di Migdal, era caduto dalla sua torre, giù per metri e metri, fino ad incontrare l’acciottolato polveroso.
Era finita. Il male era stato sconfitto. Niente più guerre, niente più conflitti. Pace infine, e una ritrovata speranza di prosperità.
Per tre giorni Dayan aveva cercato di convincersi di questo fatto, di metabolizzarlo e accettarlo. Appoggiato ad una colonna, sul più alto terrazzo della torre, fissava quella che per cinquant’anni era stata la capitale dell’Impero Atro.
Quello era lo stesso balcone da cui il tiranno aveva osservato il suo regno di terrore. Quella era la balaustra traditrice che non aveva retto il suo peso, lasciandolo precipitare nel vuoto con un’espressione che Dayan non avrebbe mai dimenticato. La furia della battaglia in principio, subito sciolta nella sorpresa, poi l’amarezza e infine il sorriso. Quella sequenza di sentimenti abbozzati sul volto del tiranno perseguitava il condottiero nei suoi incubi, insieme alla risata sguaiata del folle, improvvisamente rotta dal silenzio del suolo.
Ed ora, a distanza di soli tre giorni dalla vittoria, dopo tre giorni di festa continua, gli animi erano di nuovo tesi e frementi. Adesso si discuteva lì, dietro di lui, nella sala del trono. La compatta concordia degli alleati veniva meno come un fiore di tarassaco nella brezza. Gli amici e i camerati di vecchia data battevano i guanti ferrati sul petto, percuotevano gli scudi con le lance, minacciavano e persuadevano, borbottavano e urlavano.
“Perché?”, si chiese allora Dayan, prima in un mormorio. E poi con voce stentorea diresse ai litiganti lo stesso interrogativo.
“Perché vi agitate, compagni? Che cosa vi turba?”.
I suoni cessarono mentre Dayan si voltava e a passo maestoso tornava da loro. Aperte le braccia, egli li invitava alla calma.
“Il nemico è sconfitto. Le truppe degli Atri, legionari crudeli, sono ormai cenere sulle pire della vittoria, in ogni dove. In questo stesso momento, i nostri ultimi cacciatori sono di ritorno. Ci portano i trofei del male che credeva di essere sfuggito alla nostra collera. E così, anche quei guerrieri sopravvissuti si saranno arresi o saranno periti in nome dei loro falsi ideali”.
I suoi pugni si chiusero, e con uno di essi Dayan indicò i presenti, seduti o in piedi nel centro della sala.
“È tempo che la guerra finisca… Voi invece la rinfocolate qui e ora con le vostre parole!”.
Alcuni abbassarono il capo; altri lo fissarono con sfida; altri ancora si rifiutarono di guardarlo, ma risero o bisbigliarono contro di lui.
In nove, compreso il condottiero, erano presenti in quel luogo roccaforte del male. Erano tutti gli eroi della guerra appena conclusa. Ne mancava solo una alla riunione, poiché era ancora in missione, a guidare gli esploratori contro le ultime sacche di resistenza. Ma secondo i dispacci, sarebbe tornata presto.
Erano stati loro, dieci ribelli, i primi a penetrare dentro la città e conquistarla palmo a palmo. In dieci avevano lottato come leoni nella torre, un piano dopo l’altro, sotto l’egida di Dayan, mentre l’esercito fuori abbatteva i difensori della capitale. E in dieci avevano salito le scale sin lassù, dove il tiranno li aspettava, con la spada e la corona.
Dal punto di vista di Dayan pertanto, la loro opinione era l’unica che contava, non quella dei semplici né quella di re e capi che lo avevano seguito vilmente. Solo la loro! E tale raduno manifestava appunto il suo rispetto, nonostante vi fossero alcuni tra i suoi compagni che per un motivo o per l’altro disprezzava altrimenti.
“Abbiamo vinto…”, ripeté dunque, sebbene con minore fermezza.
“È proprio questo il problema, Dayan”, parlò Yamana, con il solito tono deferente con cui a lui si rivolgeva. La sacerdotessa aveva una voce ricca e vibrante, sapeva risvegliare i cuori e caricarli di emozione. Nella sala tutti la ascoltarono volenti o nolenti, affascinati dall’algida figura che pareva donna e guerriera allo stesso tempo.
“Noi abbiamo vinto. Ed eravamo così tanto presi dal riuscire nell’impresa, che nessuno di noi si è chiesto cosa sarebbe accaduto dopo. Neanche i nostri alleati, neanche loro ci hanno pensato, nei loro padiglioni distanti dalla gloria della battaglia. Stimavano impossibile questo risultato, hanno temuto fino all’ultimo che fallissimo ed erano pronti a fuggire, piuttosto che a marciare da conquistatori”.
I sonagli sulla sua lancia tintinnarono producendo una sinistra e nervosa melodia, carica di aspettative.
“Ma ora è diverso. Perché i loro occhi hanno visto ciò che le loro menti non avevano nemmeno immaginato. In questo stesso momento, generali e capi di stato, grandi guerrieri e astuti parassiti, sono riuniti come noi, negli edifici più ricchi della città. Cospirano per avere il potere su Migdal, per essere chiamati ‘Imperatori’”.
Stej rise delle sue parole, ma era solo un rozzo predone pieno di malanimo e nessuno ci fece caso. I pochi che lo degnarono di uno sguardo, mostravano il loro sdegno per quella grossa figura stravaccata di traverso sul trono del tiranno, con un boccale di legno tenuto mollemente in mano.
“Edifici… più ricchi?”, biascicò la sua voce profonda e gorgogliante, e riprese a ridere subito dopo. “Dov’è la ricchezza in questo posto del karg? In tutto il grande Impero non si trova un’oncia d’oro. Nemmeno un pezzetto!”, gridò scagliando il boccale contro una colonna.
Il bandito si mise più composto per meglio intimidire i presenti e disse: “Dov’è il tesoro dell’Imperatore, EH? Dov’è, Dayan? Non ho fatto tutta questa strada per niente. E nemmeno gli uomini lì fuori! Con che cosa pagherete i soldati, se dentro e fuori da Migdal non esiste bottino da spartire!”.
Stej li osservò tutti con uguale disprezzo. Voleva spaventarli, voleva innervosirli. Non aveva fatto mai altro in vita sua.
“Li pagheremo con la libertà. Li abbiamo già retribuiti, invero, con la sconfitta del male e la fine dell’orrore”, rispose Eiko, l’oratore che si era assunto l’arduo compito di comporre la cronaca della caduta dell’Impero Atro e l’avvento di una nuova era.
“La vittoria li ha privati delle catene, li ha resi finalmente padroni della loro vita. Finiti i giorni degli incendi, delle razzie, delle torture. Cos’altro potrebbero desiderare di più, dopo che i loro padri e i loro nonni hanno sopportato la schiavitù del tiranno?”.
Il suo discorso avrebbe convinto i più, se fosse stato rivolto alla debole volontà della massa, ma Stej sputò a terra e lo interruppe bruscamente.
Gli era stata promessa una ricompensa! Gli era stato detto che le sale di Migdal traboccavano di gemme e di preziosi. Quei caproni gli avevano mentito. L’Imperatore aveva governato con la paura. E quel trono su cui il predone ora era seduto lo dimostrava ampiamente.
“Ah, che i sovrani si prendano questo schifo! Che si prendano tutto! Non c’è niente di valore, niente che sia valso lo sforzo”, urlò Stej infine, estendendo gli insulti e gli improperi a tutti coloro che lo ascoltavano.
Ne sarebbe nata una nuova discussione, se Dayan non li avesse fermati sul nascere di polemiche ardenti.
“Il potere sulle masse”, disse Hizon d’un tratto. Il guerriero serico era uomo leale solo al proprio odio verso gli Atri, dotato però di un’abilità fuori dal comune e di una disciplina stupefacente. Mentre parlava al bandito, accarezzava sovrapensiero i manici delle sue fruste.
“Ecco cosa rappresenta Migdal. È il simbolo del controllo sugli inferiori. Gli Atri ad esempio, sono nati per il lavoro duro. Potrebbero essere deportati in ogni nazione e usati come manodopera a basso costo. E c’è di più, molto di più. Per chi sa guardare, questa è una miniera d’oro, poiché tutti infatti guardano a questo regno come il centro del mondo”.
“Stai dicendo che i nostri alleati, i regni che si sono ribellati contro l’Imperatore, insieme a noi, mirano a questo?”, si intromise Dayan, camminando in mezzo ai suoi compagni stretti in un gioco di sguardi ostili o solidali. “Stai pensando che vogliono semplicemente sostituirlo e continuare la sua opera?”.
Hizon chinò il capo. Lo faceva sempre di fronte al condottiero. Si comportava con lui come un servo, ma i servi non erano tanto superbi e non portavano le fruste dei padroni.
“Sì. Sì. Combatteranno per il potere. Fino a che uno di loro non avanzerà sino a qui, un piano dopo l’altro, sul sangue dei suoi avversari”, rispose Orph, il vecchio eremita pazzo, sempre chiuso in se stesso, perso in qualche segreto peccato.
Dayan lo aveva rivalutato in quei giorni, e con fatica era giunto a stimare la sua esperienza.
“Non è… finita. Non finisce mai”, osò rivelare l’uomo anziano, e il condottiero provò una cieca ira al pensiero che fosse stato tutto inutile.
Un’altra guerra, altri morti, in nome di un nuovo tiranno a Migdal. Dayan scosse il capo, con lenti movimenti carichi di violenza repressa, e i denti stretti dietro alle labbra appena appena dischiuse in una smorfia di ribrezzo.
“No… Io non lo permetterò!”.
“E come pensi di impedirlo?”, domandò Gislin, con la voce che era come la sua veste: un velo quasi impalpabile di segreto, atto a tentare l’uomo verso la scoperta piuttosto che a proibire la vista.
Ella era una fattucchiera. In più di un’occasione lo aveva dimostrato con i suoi malefici, i suoi filtri, i sortilegi diabolici. Dayan non gradiva la sua compagnia in verità. La riteneva ingannatrice quanto la notte e negli occhi misteriosi vi si poteva scorgere reciproca ostilità.
“Vorresti parlare ai re, obbligarli a rinunciare all’unica ricchezza? Poiché Hizon ha colto nel segno: il potere dell’Imperatore diventerà sempre più allettante, mano a mano che la paura svanirà, e l’ambizione crescerà. Si forgeranno alleanze, si romperanno amicizie, si verrà a battaglia tra fazioni. È già successo. Sta succedendo in questo stesso momento”.
Sorrise demoniaca alzando la mano scura verso la terrazza.
“Non lo senti, il silenzio? La minacciosa calma prima della tempesta?”.
Dayan tacque come tutti gli altri, in ascolto del vento e del ronzio del nulla. Il condottiero aveva desiderato, immaginato, sognato, che dopo la morte del tiranno vi sarebbero stati solo giorni lieti, benedetti dal sole. Ma era da tre giorni che le nuvole si addensavano. Parevano quasi gravitare intorno alla torre, con moto pigro eppure sospetto.
Non c’era proprio nulla che fosse andato come nei sogni di Dayan.
“Potremmo… Potremmo sempre sfruttare la situazione a nostro vantaggio… Cioè, aiutarli ad ammazzarsi tra di loro”, propose Mia, masticandosi nervosamente una ciocca di capelli, di fronte alle molte occhiate ostili. “Beh, se vengono da noi… E ci pagano per togliere di mezzo gli avversari… Noi…”.
La giovane assassina smise di parlare e assunse un’espressione dura e indifferente per schermarsi dagli sguardi di rimprovero.
Dayan dal canto suo preferì fingere di non avere udito il suo intervento, anche se la fronte corrugata dimostrava il contrario. Ancora l’uomo non capiva, né poteva tollerare, quanto Mia fosse cresciuta male, trasformandosi in tutto ciò che poteva definirsi sbagliato.
“Waldan”, chiamò allora il condottiero. “Tu cosa ne pensi?”, chiese Dayan al suo migliore amico.
Il guerriero era in mezzo agli altri e aveva discusso con fervore all’inizio, ma ora osservava. Da un po’ di tempo non aveva aperto bocca, nemmeno per avversare idee incompatibili con il suo pensiero. Nato servo, era diventato un soldato, un uomo senza lignaggio ma più nobile di ogni cavaliere che il condottiero avesse mai conosciuto.
Waldan rispose al suo sguardo con un cenno. Egli era con lui sin dall’inizio, sempre al suo fianco in ogni conflitto. Se Dayan era il modello, l’esempio di grandezza che gli uomini acclamavano, Waldan era il leale compagno d’armi che tutti rispettavano e di cui ci si poteva sempre fidare. A questo pensava il condottiero nel chiedere il suo parere esplicitamente, laddove tutti gli altri si erano arrogati il diritto di dare il proprio senza invito.
Il guerriero non dovette riflettere a lungo, aveva già in mente la risposta.
“Dividiamo i territori di questo regno Atro. Così tutti avranno qualcosa e nessuno avrà tutto. E distruggiamo questa torre, distruggiamo il simbolo della tirannia. Nessun altro potrà salirvi sopra, nessuno schiaccerà gli alleati di un tempo per avere solo un rudere”.
Fu troppo per i suoi compagni. Prima ancora che avesse finito di parlare, erano già tutti in molti, troppi, a rifiutarsi categoricamente, pronti a litigare.
“Belle parole”, si complimentò Eiko, il poeta, senza però manifestare reale concordia. “Ma come possiamo noi soli fare questo? Se lo dicessimo ad altri, saremmo noi le prime vittime della nuova guerra”.
Si ritornava su quel punto. Una nuova guerra, a pochi giorni dalla fine di un incubo durato troppo a lungo. Come potevano uomini stanchi e provati desiderare altro sangue? Non ne avevano avuto abbastanza?
“Dobbiamo parlare con loro”, si impose Dayan nella discussione. “Dobbiamo costringerli a trovare un accordo”.
“Con quale esercito?”, lo derise Stej. “Loro sono migliaia e noi solo sei uomini”.
“Noi siamo eroi!”, lo zittì duramente il condottiero. “Abbiamo ucciso noi il tiranno. Li abbiamo riuniti noi, affinché fossero qui oggi a banchettare e cospirare! Dovranno ascoltarci…”.
“E cosa vuoi dire loro? Cosa puoi fare?”, si informò Gislin. “Non li convincerai, né con la spada né con la dialettica”.
Karg! Siete tutti ciechi e pazzi! Io dico prendiamo i loro cavalli e tutto quello che riusciamo a trasportare. Una volta lontani, loro non penseranno più a noi e noi a loro!”, gridò Stej battendo un pugno sul trono.
“Sei un codardo e un ladro, come sempre. Vai pure a nasconderti. Ma non meravigliarti se qualcuno ti torcerà il collo prima della fuga. È la fine che spetta ai disertori”.
La sfida di Hizon spinse il brigante ad alzarsi, pronto a dimostrargli quanto si sbagliasse.
“Basta!”, urlo a sua volta Dayan. “Niente più conflitti. Niente più morti”.
“Per mantenere la pace, dovrai muovere battaglia ancora però. Dovrai lottare contro chi si inventerà un nuovo male, e sta sicuro che per primi additeranno noi. Se nessuno dei sovrani ci ha chiamato alle loro riunioni private, è perché ci temono”.
Waldan lo affermava con tanta sicurezza da togliere speranza a Dayan di una risoluzione pacifica, e il condottiero sentì come se qualcosa si spezzasse dentro di lui. Egli d’altronde vide lo stesso negli occhi dell’amico, uno specchio eguale e differente, poiché al contrario di lui Waldan era preparato all’evenienza di un ritorno alla violenza e lo accettava stoicamente. Il condottiero però lo conosceva, sapeva che era afflitto, e quante volte il soldato gli aveva confidato di essere stanco di combattere. Ma perché allora si arrendeva così facilmente a tale opzione?
Dayan si estraniò dal dibattito per alcuni momenti di riflessione. Gli mancava la presenza di Mela. Avrebbe voluto fosse al suo fianco in quell’istante di indecisione. Tuttavia, l’amata avrebbe probabilmente detto le stesse cose di Waldan…
Non c’era via di scampo. Si ricordò della risata del tiranno. Gli sembrava di sentirla anche adesso. Rideva di lui, della sua incapacità di mantenere e salvaguardare la libertà a lungo cercata, difficilmente conquistata.
“Ci sarebbe un sistema pacifico, in verità”, rivelò Yamana, guadagnandosi subito la sua completa attenzione.
“Sono reazioni logiche, quelle dei nostri alleati. Temono di essere ingannati dagli altri e derubati di un’opportunità. Ma se si scegliesse qualcuno in cui non loro, bensì i loro popoli, credono e ammirano… Se si proponesse al trono di Migdal qualcuno che gli stessi eserciti hanno osannato per tre giorni come il liberatore, allora essi sarebbero in difficoltà. Costringerebbe i sovrani a valutare da che parte stare, e forse acconsentirebbero ad una tregua, se non altro per il timore di rimanere soli contro tutti”.
“Stai dicendo che uno di noi dovrebbe sedersi sul trono dell’Imperatore e annunciare ‘Non vi preoccupate, sarò io il vostro nuovo capo’?”, domandò Mia. La piccola assassina era incredula e sprezzante. Evidentemente riteneva tale idea più assurda della propria.
“No”, le sorrise benevolmente la sacerdotessa. “Sto dicendo che Dayan dovrebbe cambiare il suo ruolo. Da condottiero di eserciti, a condottiero di popoli”.
“Questo… Questo è davvero ridicolo”, proruppe Dayan osservato da tutti. “Io non posso fingermi re, nemmeno per un giorno. Con quale diritto potrei prendere il trono, se non possiedo nulla?”.
“In verità, tu avevi un titolo nobiliare. Hai il carisma e il portamento. Ma soprattutto, tu possiedi i cuori degli uomini qui fuori. Non c’è ribelle che non nutra venerazione per te. Sono venuti per te e per te combatteranno. O quantomeno, contro di te si rifiuteranno di lottare, se ti porrai come freno di fronte alle mire espansionistiche dei loro legittimi sovrani”.
Yamana diceva queste cose e Dayan le capiva. Vedeva perfettamente i passi che avrebbe potuto muovere per adunare a sé gli otto popoli dentro e fuori le mura, scongiurando faide sanguinarie tra gli alleati. Eppure tale era il suo timore di agitare le acque e scatenare un nuovo inferno, tanto nobile era il suo cuore, che non si sentiva disposto a rischiare.
Comunque, non bastava così poco per fare di lui un re, nonostante la sacerdotessa fosse già riuscita a coinvolgere Eiko e le sue orazioni esagerate.
Dayan fece per parlare, ma Hizon agì prima e si mise al suo fianco come una guardia, dichiarando: “Gli Atri erano il male e tu li hai sconfitti. Chi altri potrebbe porsi di fronte al tuo cammino se ora ti proclamassi guardiano delle loro inique famiglie?”.
“Molti, Hizon. Sarebbe una ribellione, se mi annunciassi re senza il consenso dei sovrani. Ed essi questo consenso non me lo darebbero mai, temo, neanche se rischiassero di spaccare in due la fedeltà dei loro sudditi”.
No, Dayan non era affatto convinto che fosse la giusta strada da seguire. A meno che non trovasse qualche astuzia per ottenere la fedeltà di almeno quattro dei più potenti alleati.
“Perché lui?”, sbottò Stej, improvvisamente furioso. “Perché lui dovrebbe essere re?”.
“Preferiresti esserlo tu?”, lo apostrofò con un sorriso inquietante Yamana e il bandito negò aspramente.
“Lui o un altro non fa differenza. Questo posto è l’inferno. Tanto vale che i diavoli si scannino fino a trovare il loro principe del karg!”.
“Concordo con Stej”, disse Orph con pacata calma e inaudita lucidità, che contrastavano con la tensione generale. “Non basterà proporre un nostro candidato per risolvere il problema. Non li si fermerà così. Questo luogo… attrae il sangue. Lo ha sempre fatto”.
“Ma li rallenterà. Noi siamo eroi, come ha detto Dayan. Mettersi contro di noi provocherà attriti tra i nostri avversari. Dovranno calcolare nuovamente vantaggi e svantaggi. Non ci potranno essere reazioni rapide, poiché ben sapranno di avere soldati stanchi, bramosi della libertà che Dayan ha promesso e ottenuto per loro”.
Yamana era così certa che il suo piano avrebbe funzionato. Orph invece sbuffò in una amara risata, richiamando su di sé il dubbio di Dayan.
“E così i nostri alleati sono già diventati dei rivali? Senza nemmeno incontrarli, senza nemmeno udire dalle loro voci la dichiarazione di guerra?”.
“Così va il mondo”, gli rispose Gislin, con una dolcezza che fece rabbrividire tanto l’eremita quanto il condottiero. Il fatto che la strega fosse d’accordo con Yamana già di per sé lo turbava.
Ma si manifestò chiaramente il suo intento, quando ella aggiunse: “Purtroppo, anch’io mi chiedo: perché proprio lui? Ha molte qualità il nostro condottiero, eppure non è il solo ad averne”.
Dayan guardò nei suoi occhi e vi lesse solo malizia celata dietro ai modi suadenti e gentili. Sapeva di non avere la fiducia della strega, così come allo stesso modo dubitava di lei. Non credeva però che la sua inimicizia potesse sfociare nell’odio.
La considerò una sfida aperta alla sua integrità e pertanto ribatté: “Non girarci intorno, allora. Sentiamo quale persona migliore hai trovato in così poco tempo”.
Gislin si voltò verso Waldan, lasciando intendere la sua scelta.
“Chi, io? Non io… Io sono un seguace non un leader, più un suddito che un sovrano. E neanche un buon suddito per giunta”, si schermì il guerriero, fissi gli occhi sulla strega.
La sua reticenza tuttavia lo rese solo più giusto per il ruolo. Era valutato da tutti in quel momento, per quanto egli sostenesse a più riprese di non essere adatto. In effetti, Dayan doveva ammettere che il suo amico era molto popolare e stimato, quasi quanto lui. Come Gislin stessa si prodigò di ricordare, durante l’assalto a Migdal, c’era stato un momento in cui le truppe ribelli erano allo sbando, il morale abbattuto sotto i colpi d’ascia del campione degli Atri. Ebbene, Waldan aveva scagliato la sua lancia e spacciato con un singolo colpo il nemico più pericoloso. Anche durante la conquista della torre, in seguito, il guerriero aveva sporto il più possibile la sua voce dalle feritoie, gridando all’esercito per incitarlo costantemente. Generava vigore e forza, poiché il grido potente proveniva da un punto sempre più alto, sempre più vicino alla fine.
“Sì, so combattere bene. Ma non con le parole, e questo non fa di me un politico”, concluse Waldan incrociando le braccia.
“Non sei obbligato ad accettare, se non vuoi. Non siamo qui per costringerti ad essere ciò che evidentemente non sei”, disse Eiko di malanimo.
“Smettetela adesso”, li ammonì Dayan, temendo un altro litigio.
Si erano già affezionati a questa idea balzana. In fondo nemmeno lui poteva dirsene immune. Il condottiero però tornò a guardare fuori dalla finestra, l’Impero Atro che si estendeva da quel punto d’origine.
“Forse ci stiamo allarmando troppo. Forse siamo tutti troppo spaventati che nel vuoto di potere si faccia avanti un nemico peggiore… In quei padiglioni e quegli edifici municipali potrebbero star festeggiando, e noi qui i soli a preoccuparci per il futuro”.
“Lo credi davvero, Dayan?”, si informò Yamana, incuriosita dalla sua improvvisa ritirata.
L’uomo la scrutò con la coda dell’occhio, riflettendo e poi sospirando.
“No. Purtroppo no”.
“Dunque, cosa vuoi fare?”.
Dayan si voltò verso gli altri, indirizzando un cenno alla sacerdotessa. “Nessuno dovrebbe mai scappare dalle proprie responsabilità”, sentenziò. “Ma non avrei mai pensato che la morte di un tiranno recasse simili conseguenze. Io l’ho ucciso… Pertanto io porterò il peso di questa reggenza. Se davvero sarà necessario”.
“Ma tutto questo necessario non lo è …”, esordì Orph, benché tutte le voci soverchiassero la sua.
“Secondo me si dovrebbe votare”, squillò Mia, che troppo a lungo si era sentita ignorata. “Tra Dayan e Waldan… Se proprio dobbiamo scegliere, preferirei avere una alternativa”.
Le sue parole le morirono in gola, poiché il cipiglio di Eiko, Yamana e Hizon la soffocavano con il loro disappunto.
“Non è a te che spetta scegliere, scarafaggio”, la attaccò caustico quest’ultimo.
“Ma a me sì! E lui non mi piace!”, gesticolò furioso Stej, ormai in piedi e pronto a combattere.
“Votiamo, allora”, approvò Gislin.
“Volete decidere il destino di intere nazioni, di un Impero, lasciandolo ad una maggioranza di presuntuosi che scelgono a caso in un momento di estrema importanza?”, li denigrò Yamana.
“No. Dovrebbe essere estesa a tutti la possibilità. Il nuovo re dovrebbe essere acclamato a gran voce dalla folla, per volontà popolare!”, soggiunse Orph a quel punto, urlando per sottolineare la follia di quanto andavano proponendo, e dopo scuotendo la testa incredulo di fronte all’assurdità.
Il vecchio matto trascurava però come gli altri la volontà di Waldan di tenersi in disparte, visto che gli chiedeva di schierarsi, ridicolo ad udirsi dalla sua voce, dalla parte del buonsenso.
Dayan era molto colpito dalla sua presa di posizione. Il bizzarro eremita aveva in mente di ostacolarlo? Di certo stava formando un qualche suo piano, e questo nonostante Hizon si opponesse, reputando inutile il giudizio di uomini inferiori, e nonostante Yamana e Gislin si rifiutassero di perdere l’effetto sorpresa sui molti pretendenti là fuori. A loro dire, se avessero messo all’asta il titolo di re dell’Atria, da tutti per troppo tempo considerato titolo di imperio, ne sarebbe nato uno scontro fratricida. No, tutto doveva risolversi lì a Migdal e la strega proseguiva con la sua diabolica volontà di screditare Dayan, aizzando Mia che finalmente si sentiva importante e Stej che sperava infine di pungolare una volta in più i suoi odiati compagni di avventura. Li muoveva probabilmente l’invidia di non essere stati considerati abbastanza.
Tutto ciò vedeva il condottiero, e non disse nulla quando Hizon argomentò ancora con superbia: “Purtroppo nelle società civili, i desideri di criminali, briganti e fattucchiere non hanno alcun valore”.
“Ma nemmeno il vostro giudizio avrà valore”, perseverò Orph nel suo intento ambiguo e impulsivo. “Poiché io mi astengo da questa vostra follia. E presumo che l’onore dei due favoriti imponga di non votare per se stessi”.
Era sempre più strano per Dayan vedere l’anziano così agguerrito su una questione, anche se certo non si trattava di un problema marginale. Pure lo ringraziò mentalmente, poiché gli aveva implicitamente sottolineato l’importanza di tale decisione.
Quindi il cavaliere dichiarò: “Io mi vergogno di tutti voi. Guardatevi! Avvelenate le vostre menti e i vostri cuori schierandovi gli uni contro gli altri. È questo che mi devo aspettare accada dunque nelle segrete riunioni dei capi di stato? Se questo già accade tra i miei compagni più fedeli…”.
Si erse in tutta la sua statura, e rivelò che se ancora aveva qualche dubbio sul pericolo prima, ora al vederli così schierati e pronti alla lite non ne aveva più.
“… Io allora voterò per me stesso. Ed ora, Gislin ed Orph: che cos’altro vi inventerete per opporvi alla pace per cui avete combattuto al mio fianco?”.
L’eremita chinò il capo e lo scosse sconsolato, senza proferire altra parola, ma non così la strega.
“Rispondo che manca ancora una voce in questa sala. E non vederla come un’aggressione personale, Dayan. È solo una preferenza, visto che sono chiamata ad eleggere un re a tre giorni dalla morte di un tiranno”.
Tutti perciò si volsero nuovamente verso Waldan, che così immerso nei suoi dubbi e timori strinse un po’ di più le braccia al petto. Dayan si passò una mano sulla fronte. Non poteva pretendere nulla dal suo amico. Non era stato lui a volerlo. E in fondo, mettendo da parte l’orgoglio individuale, non sarebbe cambiato nulla, se Waldan avesse deciso di salire alla ribalta. Doveva solo essere una farsa, un finto re per tenere a bada gli otto sovrani reali. Avrebbero lavorato comunque insieme per il bene, contro chi volesse il potere per proprio tornaconto.
Tuttavia, il condottiero qualcosa disse, un’accusa che sentiva crescersi in gola. “Brava, Gislin. Avevo dimenticato quanto sei abile nel generare discordia”.
La strega sorrise come se fosse un complimento.
“Nessuna discordia”, negò invece Waldan, e ciononostante nessuno fu colto di sorpresa dalle sue parole. “Al di là delle mie riserve personali sull’azione che avete scelto, conosco il mio posto e soprattutto i miei limiti. Dayan, io ti ho seguito sino a qui, sono stati i tuoi sogni a guidarmi e ispirarmi. So che la tua visione può guidare tutti gli altri”.
Così parlò ed il condottiero sorrise colmo di gratitudine per la fiducia che l’amico gli manifestava.
“Ma non ti illudere”, proseguì il soldato.”Perché la guerra ci sarà ugualmente. La sento nel silenzio”.
Dayan ignorò tutti gli altri e avanzò fino a Waldan, stringendogli la mano e la spalla con fervore.
“Ora sei come un fratello per me. E giuro che non ti deluderò. Ti dimostrerò che posso fermare una nuova guerra, senza che il sangue scorra a fiumi nella mischia furibonda”.
“Prendi il tuo posto allora”, lo chiamò Yamana, che nel frattempo si era spostata a fianco del trono. “E guidaci di nuovo verso la luce”.
Eppure Stej rimase davanti al suo cammino, quasi un ostacolo, mentre sbuffava come un toro pronto alla carica. Un fulmine illuminò la sala dalla terrazza. Dayan neanche si era accorto che la luce era calata. Il tuono fece tremare Migdal e il bandito di fronte al cavaliere rise sguaiato quanto il tiranno.
“Sei capace anche di fermare la tempesta, aspirante re?”, chiese quasi ringhiando, finché lo sguardo dell’uomo non lo indusse a farsi da parte.
Spianata la strada, Dayan avanzò verso il trono. Un ultimo attimo di esitazione, e vi si sedette sopra.
Un altro fulmine solcò i cieli…


Così cominciò il regno di Dayan…
Così cominciarono
I VENTI GIORNI

  
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