Quando muore il
Bianconiglio
- Nooo!
L’urlo
disperato di Emma non aveva mai raggiunto le orecchie
di Erik, né gli occhi del ragazzo si erano mai posati sulla
sua espressione
terrorizzata, non avevano fatto in tempo. Un millesimo di secondo era
bastato
perché quegli occhi restassero aperti, spalancati, rivolti
per sempre a un
cielo scuro che non potevano più vedere.
Gli
Hell’s Rabbits erano tutti lì in piedi, immobili,
incapaci di reagire. I loro sguardi oscillavano senza sosta dal corpo
di Erik
immobile sull’asfalto a quello di Emma, inginocchiata in una
pozza di sangue
che piangeva a dirotto e gridava senza sosta il nome di quello che fino
a pochi
istanti prima era stato il suo fidanzato. Fu su di lei che infine
scelsero di
soffermare l’attenzione, sulla parte più penosa di
quella già tragica scena.
Anche lui la guardava. Lui, quel tipo che nessuno aveva mai visto, lui,
il
giovane avvolto in una felpa scura che gli nascondeva il viso, lui, con
una
mano tremante che ancora stringeva una pistola, lui,
l’assassino di Erik. In
quel preciso istante capirono di volerlo morto, ognuno di loro
l’avrebbe ucciso
in un modo differente ma per la stessa ragione. Ma non potevano: lui
aveva una
pistola e loro erano paralizzati. Quando videro Fran muovere un passo
incerto
sperarono che avrebbe infranto quel silenzio pesante che aveva avvolto
persino
i singhiozzi di Emma, invece la ragazza si accasciò contro
un muro vomitando
anche l’anima sul pavimento già lurido del vicolo.
Le espressioni di alcuni
degli altri lasciavano intendere che ben presto avrebbero seguito il
suo
esempio.
Trenta
interminabili secondi dopo fu Van a farsi avanti.
- Sai cosa hai
fatto? – chiese, ed era la domanda più inutile
che gli Hell’s Rabbits gli avessero mai sentito fare a
qualcuno.
- Lo sai
cos’hai fatto? – ripeté, più
forte. Gli tremava la
voce, e a Van non tremava mai la
voce.
- Sì.
– rispose dopo un po’ il giovane con la felpa
scura,
con uno strano tono quasi rammaricato – Ho appena distrutto
la crew.
In quel momento
il solo sguardo sarebbe bastato a far capire
che pistola o no, Van stava per saltargli addosso. Aveva già
fatto un passo
avanti con il pugno chiuso a mezz’aria, quando fu bloccato
dal suono di una
sirena in lontananza.
- La polizia!
– sputò Donna, e per una volta nella vita
avrebbe preferito non avere ragione. Quando una decina di agenti
irruppero nel
vicolo ad armi spianate, il ragazzo con la felpa scura si era
già eclissato in
uno degli edifici circostanti.
Gli
Hell’s Rabbits non ebbero il tempo di interpellare la
propria coscienza, poterono solo girarsi e cominciare a correre
più veloce che
potevano, veloci quanto avevano dovuto imparare ad essere. Van, prima
di
afferrare Emma per le spalle e trascinarla via scappando con gli altri,
ebbe
appena il tempo di chinarsi sul cadavere del fratello e chiudergli gli
occhi
negandogli anche quell’ultimo panorama, i cieli plumbei del
Paese delle
Meraviglie.
Sebbene fosse
ancora segnata con un minuscolo puntino nero
sulle cartine geografiche, la città era già morta
da tempo. Morta e sepolta,
stretta nella morsa della povertà, della corruzione, della
droga. I cadaveri nelle
strade non erano più uno spettacolo, la polizia non era
più una protezione, le
lotte tra bande non erano più una novità. Tutto
questo a discapito dello strano
nome che si ritrovava.
La chiamavano
Wonderland da quando un bel giorno la città si
era svegliata e aveva scoperto che sull’insegna di benvenuto
qualche spiritoso
aveva cancellato il suo vero nome e l’aveva sostituito con
una scritta a
pennarello: “Hey, Alice, welcome in Wonderland!”
Qualcuno aveva riso, qualcuno
se n’era fregato, un altro ancora si era arrabbiato e
l’aveva cancellata. Il
giorno dopo la scritta era di nuovo lì, grande e indelebile.
Non si era mai
scoperto chi fosse l’autore né a che Alice si
riferisse, ma con il tempo il
nome era rimasto e la città era diventata per tutti il Paese
delle Meraviglie.
Nella sua
periferia, nascosto dietro lo scheletro di una
fabbrica abbandonata, c’era un parcheggio. Era sempre
deserto, pesino il sabato
sera quando l’edificio cadente si spacciava per discoteca e
si riempiva di
adolescenti urlanti, alcolizzati e tossici: sul lato opposto ce
n’era uno molto
più comodo sia per spacciare sia per consumare, quindi
nessuno andava mai a
infilarsi là dietro.
Nessuno tranne
gli Hell’s Rabbits, una delle tante crew che
bazzicavano in quella zona. Da dove avessero tirato fuori quel nome non
lo
sapeva nessuno, probabilmente neppure loro stessi.
Quell’amicizia era
incominciata nel parcheggio, e lì la portavano avanti da
quasi due anni.
Quel pomeriggio
come in tanti altri, se ne stavano seduti
sull’asfalto a godersi il sole estivo e
l’onnipresente odore di catrame.
- Che ore sono?
– chiese Fran a nessuno in particolare,
interrompendo un silenzio che durava da oltre venti minuti.
- Pomeriggio.
– fu la risposta secca di Zac, mentre con
ultimo sorso vuotava definitivamente la lattina di birra.
- Fino
lì ci arrivo.
- Sono le
quattro.
- Sei sicuro?
- No. E poi,
cosa te ne frega? Hai qualcosa da fare?
- No.
- Appunto.
- Volevo solo
saperlo. – borbottò la ragazzina imbronciata
cominciando a giocherellare con un sassolino solitario trovato accanto
al
ginocchio. – Emma, dov’è Erik?
- Non lo so,
Fran! Quante volte te lo devo dire?
- Si
può sapere perché siete tutti cosi schizzati
oggi? Non
avete aperto bocca tutto il pomeriggio, poi appena vi si rivolge la
parola
scattate come delle belve! Ma cos’è che avete?
Donna
rovistò nel giubbotto alla ricerca di un accendino. Non
trovandolo, passò alle tasche di Van. –
Perché siamo troppo impegnati a
riflettere su tutti i cazzo di problemi che abbiamo, e se per te non
è così
facci il favore di limitarti a chiudere la bocca.
Fran, che con i
suoi tredici anni e mezzo era la più piccola
del gruppo, assumeva a seconda delle situazioni il ruolo di sorellina o
di
valvola di sfogo. E quello per gli Hell’s Rabbits non era il
periodo adatto da
passare a coccolare le sorelline.
- Dai, non
trattarla così. – intervenne Emma. Donna per tutta
risposta si accese la quinta sigaretta dell’ultima
mezz’ora.
- Non lo so
dov’è Erik, tesoro. – Emma
allontanò il fumo dal
volto agitando una mano. – Non lo so davvero.
Arriverà.
-
L’hai detto anche ieri.
Ripiombò
il silenzio. Van era seduto a gambe incrociate con i
gomiti appoggiati alle ginocchia e il suo vecchio cellulare per terra
proprio
di fronte a sé. Fissava lo schermo con aria concentrata,
come se volesse
attirare una chiamata con la forza del pensiero. Naturalmente, come
tutti gli
altri, aspettava notizie del fratello. Erik era stato nominato
all’unanimità
leader della crew fin dai primi incontri del gruppo. Non
perché fosse il più
vecchio, in questo non batteva gli ultraventenni Sid e Donna, ma
perché era
l’unico che sapeva sempre calmare gli animi di tutti. Quando
c’era Erik nei
dintorni, una litigata non andava mai oltre qualche occhiata in
cagnesco.
Recentemente
però il ragazzo si era fatto vedere poco, e
negli ultimi due giorni era sparito del tutto senza dare notizie.
Quando la
sigaretta di Donna fu consumata fino al filtro e lei
fu costretta a spegnerla premendola sull’asfalto, finalmente
il telefono di Van
squillò.
- Che suoneria
idiota. – commentò Donna, ma lui la
zittì con
un cenno e si portò il cellulare all’orecchio.
- Pronto, Erik?
No? Ma chi… Ah, sei tu! Come stai?
Gli altri non
persero tempo ad ascoltare la telefonata, e
solo quando chiuse la comunicazione decisero che forse potevano
prestargli un
po’ di attenzione.
- Notizie di
Erik? – chiese Sid.
- No. Era Shally.
- È
successo qualcosa?
- Ha di nuovo
febbre e conati di vomito, dice che non riesce
neanche ad alzarsi. Mi chiedo se sia il caso di andare da lei.
- Come, Shally
sta male? – Fran si sporse in avanti per
mettersi tra loro. – Cos’ha?
- Cosa vuoi che
abbia? – Sid la spinse di nuovo indietro - È
incinta.
- Che cosa?
– Fran spalancò la bocca, gli altri finsero solo
di essere stupiti.
- Shally
incinta, ma che ti salta in mente?
- Ragazzina, non
fare la finta tonta. Saranno tre settimane
che sta da cani e vomita, che altro vuoi che sia?
Zac scosse la
testa. – Merda.
Emma
allungò la mano verso il cellulare di Van, l’unico
vagamente funzionante tra quelli dei presenti. – Hai soldi?
- Pochi.
- Abbastanza per
una telefonata?
- Credo di
sì.
Lei lo prese e
si alzò, cercando nella rubrica sotto la lettera
S.
- Pronto,
signora, sono Emma. Emma, l’amica di Shally. Può
passarmela per favore? Sì, lo so, signora, mi
dispiace…la prego, devo parlare
con Shally, è urgente… Shally! Tesoro, come stai?
Dai, non piangere… - si
allontanò e cominciò a girare in tondo pochi
metri più in la cercando di
consolare l’amica. Quando la videro tornare, si
accasciò di nuovo accanto agli
altri, sospirando con espressione abbattuta.
- Avevo
azzeccato, eh? – disse Sid. Emma annuì.
- Dice che
è di Greg il bambino.
- E di chi
altro? Comunque, con tutte quelle che si scopa
quel coglione, un figlio è il minimo che le possa capitare.
- Merda.
– ripeté Zac – Quella ragazza
è già abbastanza
stressata così, le manca solo un marmocchio a cui badare.
Donna
recuperò un’altra sigaretta. –
Può sempre abortire.
- Non tutti
hanno il tuo senso pratico, Donna. – ribatté Van
–
Ogni tanto succede che nel mondo a qualcuno capiti di avere una
coscienza.
- Senti,
sapientone, sai meglio di me che non c’è altra
soluzione. Cos’altro dovrebbe fare, tenersi il bambino?
- Sì.
– sussurrò Emma – Ha detto che
è troppo tardi per
l’aborto.
- Stai
scherzando, spero. – Donna fece schioccare la lingua
–
Ma se sgobba dalla mattina alla sera e quei pochi soldi che porta a
casa li usa
la madre per comprarsi superalcolici! Con cosa dovrebbe tirarlo su quel
bambino? O credi che quel figlio di puttana abbia intenzione di
sposarla e
assumersi qualche responsabilità?
Sid si
passò una mano tra i capelli ispidi. – Se vi
consola,
appena lo becco gli spacco il culo, ma questo non risolve il problema.
Donna
sbuffò. – Ci mancava anche questa.
Van
aprì la bocca per ribattere, ma cambiò idea e la
richiuse
senza dire nulla.
-
Sentite… - intervenne Fran a bassa voce – Quando
nascerà il
bambino di Shally, la porterete in ospedale, vero?
I membri adulti
degli Hell’s Rabbits si morsero
contemporaneamente il labbro, senza rispondere.
- Vero, ragazzi?
– insistette Fran.
Come succedeva
piuttosto spesso, fu Donna a fare da interprete
ai pensieri comuni. – E con che soldi? La clinica costa,
carina.
- Ma
Shally…
- Forse mettendo
insieme i soldi… - ipotizzò Emma, ma gli
sguardi degli altri furono una risposta più che sufficiente.
In quel preciso
momento, dei passi li informarono dell’arrivo di qualcun
altro nel parcheggio.
- Di qualunque
cosa stiate parlando, non ci sarà nessun
bisogno di fare una colletta. – disse una voce cordiale alle
loro spalle.
- Erik! -
esclamò Zac scattando in piedi.
- Ciao ragazzi!
– salutò Erik agitando un braccio. Aveva la
barba di due giorni e i vestiti sporchi, ma sorrideva.
Emma gli corse
incontro e lo abbracciò. Lui fece appena in
tempo a darle un bacio che Van l’aveva afferrato per la
collottola e sbattuto
contro il muro più vicino.
- Si
può sapere dov’eri finito?
- È
così che si tratta il proprio fratello maggiore?
- Non fare lo
spiritoso! Eravamo preoccupati da morire, si
può sapere dove cazzo eri?
- Stavo
risolvendo tutti i nostri problemi.
- Cosa?
Erik si
liberò dalla sua presa e fece un passo di lato. Poi
infilò
una mano in tasca e ne tirò fuori una bustina di plastica
trasparente contenente
poco più di un cucchiaio di polvere bianca.
- Cocaina!
– esclamò Sid strappandogliela di mano prima che
lo
facesse Donna. – Grazie del pensiero, amico, ma cosa mi viene
a significare?
- Significa che
d’ora in poi abbiamo finito di fare la fame.
Questa roba ci farà andare avanti alla grande senza
più bisogno di rubare il
pranzo nei supermercati.
-
Cos’è, vuoi risolvere i nostri problemi diventando
un
tossico? – ridacchiò Sid mettendo la punta di un
dito nel sacchetto, poi se lo
passò sotto il naso con espressione radiosa. –
Sarei anche disposto a darti
corda.
Erik rise.
– Certo che no!
- E allora cosa
ci fai con questa roba? – chiese Donna
cercando di rubare il bottino dalle mani di Sid.
- Ve
l’ho detto, risolvo i nostri problemi! Lo conoscete un
uomo che si fa chiamare il Cappellaio Matto?
- No, chi
è? – Fran tentò di vedere il motivo
dell’ilarità
degli amici, ma Sid e Donna la allontanarono.
Erik la
aiutò a rialzarsi e si preparò a rispondere, ma
Van
lo precedette.
- Un signore
della droga, ecco chi è. È da un bel pezzo che
cerca di mettere le mani sul Paese delle Meraviglie, ma non
c’è ancora riuscito
perché pare che le sue partite facciano schifo.
Sid si
fermò con ancora un dito sulla narice. – Ah
sì?
- Sì!
– Van gli strappò il sacchetto di mano e lo
gettò per
terra, pestandolo ripetutamente e con violenza.
- No!
– esclamò Donna cercando di fermarlo –
Cazzo, Van! Per
una volta che ci capita un po’ di quel ben di Dio davanti, tu
lo sprechi così?
- Lo sapete cosa
ci fanno se ci trovano con questa roba? –
urlò Van – L’unico motivo per cui siamo
ancora tutti uniti è che nessuno di noi
si è mai immischiato in faccende sporche. E adesso proprio
tu – puntò il dito
contro il fratello – fai di tutto per peggiorare le cose?
- Ci servono
soldi…
- E pensi di
procurarteli spacciando cocaina?
- Tu negli
ultimi mesi hai forse avuto qualche idea migliore,
fratellino?
- Qualunque idea
è migliore di questa!
Erik lo prese
per un braccio e lo trascinò in disparte.
- Van, stammi a
sentire…
- Tu sei pazzo,
Erik. Tu sei completamente pazzo!
- Van,
ascolta…
- Ascoltare
cosa? Lo sai in che cazzo di città viviamo, lo
sai in che situazione di merda siamo! Ti ricordi che fine hanno fatto
gli
altri? Gli Sharks, e anche quei cretini che si riunivano vicino al
porto, te lo
ricordi che fine hanno fatto? Quelli che non si sono sparati in testa
li hanno
ritrovati in overdose in mezzo ai vicoli, affogati nel loro vomito!
È così che
vuoi far finire anche noi?
- Non
succederà. Non ho nessuna intenzione di coinvolgere gli
altri, ci andrò di mezzo solo io.
Van scosse la
testa. – Non siamo messi così male.
- No, siamo
messi anche peggio. Solo perché non stiamo
morendo per strada, non significa che questa sia vita! Io voglio di
più, Van.
Voglio di più sia per me che per gli altri,
perché non debbano passare la vita
in quel parcheggio! – indicò il gruppo –
Fran a quest’ora sarebbe a scuola.
Shally potrebbe smettere di lavorare dalla mattina alla sera. Sid, e
Donna, e
Zac rischierebbero di avere un futuro. E Emma…io e Emma
stiamo insieme da due
anni ormai. Voglio chiederle di sposarmi, Van, ma non posso farlo in
questo
stato, non sapremmo di che vivere. E se venisse fuori
qualcos’altro allora non
so proprio…
- Shally
è incinta.
- Che cosa?
- Mi hai sentito.
- Di Greg?
- Sì.
Erik
sospirò. – Appunto. Lo vedi, fratellino? Proprio
perché
non voglio vedere gli Hell’s Rabbits fare la fine degli
Sharks e di tutti gli
altri che ho accettato la proposta del Cappellaio Matto. Ti prometto
che farò
tutto da solo, a meno che tu non voglia darmi una mano,
naturalmente…
- No, Erik. Non
voglio.
- Certo.
– il ragazzo sospirò – Lo immaginavo.
– gli diede
una pacca sulla spalla, poi ritornò verso il gruppo.
- Hey, ragazzi!
– urlò tirando fuori dalla tasca un paio di
banconote – Che ne dite di andare a festeggiare?
Gli
Hell’s Rabbit si lanciarono verso di lui, parlando tutti
contemporaneamente. Solo Van rimase dov’era, a fissare quella
macchia bianca
sull’asfalto.
- Che cazzo hai
fatto, Erik? – sospirò guardando il fratello
prendere a spalle Fran e allontanarsi ridendo con il resto del gruppo
– Che
cazzo hai fatto?
Sette mesi
più tardi, in una clinica privata pagata con i
soldi guadagnati con lo spaccio di cocaina, era nato il bambino di
Shally. Gli
Hell’s Rabbits avevano discusso a lungo, e dopo tre giorni le
erano arrivati
davanti con una lista di possibili nomi. Shally aveva scelto il quinto,
Joey.
Il bambino era stato battezzato qualche settimana più tardi
nell’unica vecchia
chiesa del Paese delle Meraviglie. Quand’era tornata a casa,
Shally aveva
trovato sua madre sulla porta. Sobria. Aveva accennato un sorriso e
dato un
bacio sulla fronte del nipote. E Shally aveva pianto, per la prima
volta da
anni, di felicità.
Van aveva
cambiato cellulare, Fran ne aveva avuto uno per la
prima volta.
Sid
trovò lavoro in un’officina, e nel giro di qualche
mese
riuscì a mettere insieme i soldi sufficienti a comprarsi una
chitarra. Quando
gli facevano notare che non sapeva suonarla, si limitava ad alzare le
spalle e
a dire che prima o poi avrebbe imparato.
Padre Michel, il
parroco della chiesa, l’unico rimasto in
città, aveva rimesso in sesto un edificio abbandonato per
usarlo come scuola
per i bambini di strada. Sarebbe stato difficile, e lo sapeva, ma ci
avrebbe
provato. Fran non era mai andata a scuola. Quel che sapeva glielo
avevano
insegnato suo padre e i membri della crew. Quando aveva saputo del
progetto di
Padre Michel, aveva urlato finché tutti gli Hell’s
Rabbits non avevano
acconsentito per sfinimento a dargli una mano, e aveva frequentato
tutte le
lezioni fin dal loro inizio non appena la classe era stata pronta. Da
allora
arrivava spesso nel parcheggio prima degli altri e si sedeva
sull’asfalto con
un quaderno in grembo. Donna prima la prendeva in giro, poi si
accendeva una
sigaretta e la stava a sentire.
Erik si faceva
vedere poco, e per quel poco Van gli proibiva
categoricamente di parlare di qualunque cosa riguardasse il suo nuovo
impiego,
era sufficiente che il fratello fosse abbastanza scaltro da non farsi
arrestare. Il numero dei tossicodipendenti tra i giovani delle crew nei
dintorni della fabbrica abbandonata era aumentato in maniera
preoccupante, ma
gli Hell’s Rabbit si limitarono a fingere di non sapere che
era grazie
all’intervento del loro amico, il Bianconiglio, come lo
chiamavano i fornitori
che sapevano per chi lavorava.
Un giorno di
primavera chiese a tutti i membri della crew di
riunirsi. Vennero Zac con la sua birra, Fran con il suo quaderno
logoro, Donna
con le sue sigarette, Sid con la sua chitarra che ancora non sapeva
suonare,
Van con quell’aria imbronciata che non l’aveva
più abbandonato nell’ultimo
anno. Le ultime furono Emma e Shally con in braccio il figlio. Dalla
nascita di
Joey, Emma si era praticamente trasferita a casa di Shally.
L’aveva consolata,
aveva fatto le pulizie una volta la settimana, aveva lavato i vestiti
sporchi,
aveva messo a dormire il bambino le volte che Shally si rinchiudeva in
camera a
piangere rifiutando persino di guardarlo. La madre di Shally con il
tempo aveva
smesso di metterla alla porta il prima possibile e le si era quasi
affezionata,
al punto da tentare di migliorare i rapporti con la figlia. Un giorno
che Emma non
c’era, quando Shally si era svegliata il mattino aveva
trovato sua madre
intenta a preparare una torta. Aveva sbagliato le dosi al punto da
renderla
immangiabile, ma questo Shally non gliel’aveva mai detto.
Erik
aspettò che ci fossero tutti, poi con testa alta e passo
lento e sicuro li raggiunse. S’inginocchiò davanti
a Emma e lì davanti a tutti
le chiese se voleva sposarlo. C’era una casa, era piccola ma
per loro due sarebbe
bastata. Aveva un po’ di soldi, e non appena avesse trovato
un lavoro avrebbero
potuto trasferirsi. Guardò negli occhi i compagni uno per
uno e giurò che
avrebbe smesso con lo spaccio. Emma gli saltò al collo, lo
abbracciò e lo
baciò. Van, per la prima volta da mesi, si lasciò
sfuggire un sospiro di
sollievo. Gli altri non poterono che sfoggiare un sorriso, rosi dal
dubbio di
non essere felici quanto avrebbero dovuto.
Quel mese,
finite le dosi da distribuire, il Bianconiglio
rifiutò le consegne dai suoi fornitori. L’unica a
sapere quando il Cappellaio
Matto sarebbe tornato nel Paese delle Meraviglie e dove si sarebbe
fermato era
una prostituta di nome Deb, che lo andava a trovare durante ogni sua
visita in
città. Grazie a lei Erik riuscì a mettersi in
contatto con l’uomo e a
comunicargli la sua decisione. Uscì da quel colloquio con i
nervi a fior di
pelle, e quando Van provò ad affrontare
l’argomento ricevette un pugno che gli
spezzò il setto nasale. Dopo, Erik gli chiese scusa per
giorni, ma la risposta
più gentile che ricevette fu un “vai a farti
fottere”.
Un pomeriggio in
cui il cielo prometteva pioggia, lo affrontò
davanti a tutti gli altri. Erik disse che doveva parlargli. Van disse
che
avrebbero parlato in un altro momento. Erik gli chiese di nuovo scusa.
Van disse
che come discorso era ripetitivo. Erik disse che gli dispiaceva. Van
disse che
non gliene importava un accidente. Erik disse che al Cappellaio Matto
non era
andata giù la sua ritirata, che non gli sarebbe stato
così facile uscire dal
giro. Van disse che doveva aspettarselo, e che avrebbe potuto pensarci
prima.
Erik disse che l’aveva fatto per loro. Van urlò
che a loro non era cambiato un
bel niente, erano ancora in mezzo a uno schifo di strada in uno schifo
di
città, con davanti uno squallido futuro fatto di alcol
scadente e mattoni
scoperti. Erik respirava affannosamente e aveva le lacrime agli occhi.
Mentre
stava per rispondergli, era comparso nella strada un ragazzo con una
felpa
scura.
- Sei tu Erik?
– aveva chiesto.
- Sì.
Che cazzo vuoi? – aveva sbottato Erik allontanandosi i
capelli sudati dalla fronte.
Il ragazzo aveva
infilato una mano nella tasca della felpa e
ne aveva tirato fuori una pistola. Gli aveva sparato al petto, senza
avvicinarsi, senza una parola, senza un motivo. Quando era arrivata la
polizia,
era sparito così com’era arrivato, e gli
Hell’s Rabbits erano fuggiti verso il monolocale
dove viveva Sid, il rifugio più vicino. Shally si era seduta
sul letto e aveva
abbracciato Emma. Fran, rannicchiata sopra un mucchio di vecchi
giornali, era
stata l’unica ad avere il coraggio di scoppiare a piangere.
Zac, Donna e Sid se
ne stavano in un angolo a fissare il pavimento con una sigaretta in
bocca senza
neppure la forza di accenderla. Van era entrato nel minuscolo bagno, si
era
chiuso la porta alle spalle e con un urlo disumano aveva incominciato a
prendere
a pugni la parete finché il muro non diventò una
distesa d’intonaco ammaccato e
macchie rosse, e sulle sue nocche non rimase che qualche brandello di
pelle
sanguinante a coprire le ossa. Nessuno cercò di fermarlo.
Sebbene la
polizia non avesse nessuna intenzione di cercare
l’assassino di Erik, finì per trovarlo lo stesso,
pochi giorni dopo, in un
vicolo identico a quello. Indossava ancora quella felpa, ed era morto
per un
colpo alla testa sparato dalla stessa pistola con cui aveva ucciso il
capo
degli Hell’s Rabbits. Quando quelli della crew avevano
scoperto la sua
identità, Fran aveva pianto di nuovo: lo conosceva, era il
cugino di uno dei
bambini che frequentavano con lei la scuola di padre Michel, e non
aveva mai
avuto niente a che fare né con la droga né con le
bande. Il caso era stato
archiviato come suicidio, un marmocchio che uccide un altro marmocchio
e poi si
toglie la vita. Così era stata archiviata anche la morte di
un diciannovenne che
avrebbe dovuto sposarsi il mese successivo.
La prima dopo
quel giorno a passare di nuovo in quel vicolo
fu Shally. Era uscita di casa correndo con il figlio in braccio,
inseguita
dalle urla della madre di nuovo ubriaca che le lanciò dietro
una bottiglia.
Shally la sentì fracassarsi contro un muro, e
continuò a correre. Si rese conto
di dov’era solo quando sentì una stretta allo
stomaco e vide la macchia scura
ancora lì sull’asfalto. Il giorno successivo,
mentre la madre dormiva, tornò
con un secchio d’acqua. Lo gettò sul sangue di
Erik e lo guardò scorrere via
attraverso un tombino, goccia dopo goccia, cancellando per sempre anche
il suo
ultimo ricordo che rimaneva a quella città.