La visita
Prompt: Immagine 2 (al posto di G), PG- 13, Nurmengard, Voldemort, Preso dal
rimorso, Novembre 1981, H/C
Lo aspettava, in realtà. Sapeva che sarebbe arrivato, perché c'era una
promessa tra di loro, messa per iscritto in una delle lettere preziose che
Gellert custodiva come reliquie.
Lo aspettava, quindi, ma non era comunque preparato.
Era il quattro di Novembre dell'anno Millenovecentottantuno; il loro incontro
precedente risaliva al Quarantacinque.
Eppure quando entrò era come se fosse sempre stato lì.
Gellert guardò per prima cosa il suo viso, così cambiato in tanti anni. Albus
aveva una barba ridicolmente lunga e un'infinità di rughe e segni sottili
intorno agli occhi pesti e cerchiati.
Da quanto non dormiva, per avere quell'aspetto? Gellert avrebbe voluto saperlo.
Gli guardò le mani, e le vide così vecchie e contorte da sembrare quelle di sua
zia Bathilda, tanti anni prima. Ma c'erano le dita morbide di Albus sotto
quell'intrico deforme di vene e pelle sottile e secca, le sue unghie squadrate e
i suoi polsi sottili, ancora loro dopo tanti anni. Aspettavano ancora il tocco
leggero della bocca di Gellert?
No, forse questo no; forse questo era cambiato. Ma gli occhi, allora? Perché lo
facevano ritornare indietro con tanta forza? Aveva sempre pensato che
sembrassero così azzurri per l'incontro e il contrasto con il rosso dei capelli.
Ma non era vero. Il rosso era coperto ormai dal bianco, come una rosa su cui
fosse caduta la neve. Ma gli occhi erano rimasti gli stessi dall'estate così
lontana a quell'inverno della sua vita.
E anche in quel momento, no, proprio in quel momento, Gellert comprese
veramente, per la prima volta, che cosa fosse davvero quella bellezza che aveva
cercato senza sosta per tutta la vita.
Albus non diceva nulla. Gellert non sapeva se esserne lieto o triste. Finché
non parlava non si sarebbe mosso, sarebbe rimasto lì fermo a farsi guardare, e
Gellert l'avrebbe avuto per sé, a nascondergli davvero le pareti di Nurmengard.
Ma Albus soffriva, Gellert glielo leggeva negli occhi e nelle spalle e nella
curva della bocca, come l'aveva letto tra le righe della sua ultima lettera; e
se non parlava, come avrebbe potuto consolarlo?
Aveva perso i suoi alleati. No, non era esatto. Aveva lasciato morire i suoi
alleati, ragazzi che aveva cresciuto e anche amato, forse, per una scommessa che
puntava tutto contro Voldemort. Ma anche questo era impreciso.
Avevano perso i loro uomini, li avevano puntati sapendo di perdere quella mano,
per vincere una guerra più grande. Per un bene superiore, uno dei tanti che
potevano esistere, in verità. La questione a cui si tornava era sempre quella.
Avevano perso entrambi, perché Gellert era parte della vita di Albus in una rete
talmente fitta da avere imparato come possono due uomini diventare uno. Avevano
perso entrambi, ma solo Albus soffriva.
Ed era tempo di parlare, anche se Gellert non voleva lasciare il suo sguardo
dietro gli occhiali. Ma ancor meno voleva lasciarlo soffrire da solo il peso di
entrambi.
-Avevi ragione- gli disse, piano, -hai sempre avuto ragione, su tutto-.
Albus gli sorrise. -E' una confessione, amico mio?- gli chiese. La vecchia
ironia. La vecchia coperta che nascondeva il rimorso e l'angoscia.
Non poteva permettere che le cose andassero così.
Erano troppo lontani, troppo nascosti. Troppo vecchi e testardi e orgogliosi per
parlare davvero, faccia a faccia. E non doveva andare così.
-Albus- disse Gellert, -è andata come avevi previsto. Hai vinto. E' questo che
conta-.
Il viso di Albus si contorse un istante. Il sorriso sbiadì di colpo, gli occhi
si oscurarono, la bocca prese una piega dura e le narici si dilatarono, appena
un poco. Rabbia. Molto bene.
-Sicuro- disse, piano, -ho vinto una battaglia. Vogliamo festeggiare, Gellert?
Hai qualcosa da bere, per caso?-
L'ironia era tagliente come il vento del Nord. Ancora lì, ma più fragile e più
vicina alla realtà dei suoi sentimenti.
Non era mai stato facile tirare fuori qualcosa di spontaneo da Albus Dumbledore,
ma Gellert sapeva come fare; c'era sempre stato un modo solo.
-Mi dispiace, no- rispose, sullo stesso tono. -"Per il bene superiore", vero,
Albus? Sono certo che hai notato la scritta, entrando. E dunque, tutto è andato
come previsto. Sarai soddisfatto.-
Dumbledore fece un passo in avanti, un atto nervoso, di cui non era consapevole.
Non controllato, non del tutto, adesso. Sempre meglio.
-Ho fatto quello che volevi, no? Ho seguito i tuoi consigli. Mi inchino al tuo
genio tattico. Sei tu a dover essere soddisfatto. Io mi prendo il merito, ma
questo è il tuo trionfo-.
-Oh, certo, come ho potuto dimenticarlo? Sì, dobbiamo decisamente festeggiare un
momento così lieto. Posso offrirti solo un letto scomodo, ma se ben ricordo, una
volta per te non era un problema. O preferisci contro il muro? Non sono sicuro
che tu abbia ancora la forza che avevi da ragazzo, ma si potrebbe provare-.
Albus avvampò. Per un istante il rosso tornò a circondare in modo perfetto il
blu degli occhi e il bianco livido delle labbra. Ah, che visione.
-Se ti mettessi le mani addosso in questo momento, Gellert, ti torcerei il
collo-.
Gellert sorrise.
-Sei arrabbiato?- chiese, in un tono quasi genuinamente curioso.
-Ti sto odiando, adesso, Gellert. Non capisci cosa ho fatto? Non capisci quanto
rimorso sento?-
Gellert fece un passo verso quell'uomo che fremeva di rabbia contro di lui. Ah,
era perfetto quel momento, l'ira finalmente allo scoperto, il vero Albus come se
fosse nudo, e il bersaglio migliore, lui stesso. E la rabbia che adesso montava
anche in Gellert, perché possibile che dopo tutti quegli anni, tutte quelle
lettere a cuore aperto, lui lo credesse sincero in quell'indifferenza?
-E allora smetti una buona volta di mentire, Albus. Non ti servono le tue bugie.
Non qui. Non con me. Mi odi? Bene, ma non nasconderti da me-.
Albus rimase immobile. La sorpresa lo spogliò della rabbia e del dolore, in un
istante. Gli bastò un battito di ciglia per comprendere, e solo un altro momento
di sconcerto prima che le braccia di Gellert Grindelwald lo trovassero e lo
avvolgessero di nuovo, finalmente.
In un passo, Gellert si trovò a sostenere il suo peso, e non solo quello del
corpo magro; anche tutto il resto, che era quello che voleva.
-Dai la colpa a me, Albus- gli sussurrò tra i capelli, mentre la testa di Albus
si posava sulla sua spalla. -Hai dovuto decidere e portare tu il peso, perché io
non ero lì a dividerlo con te. Non è colpa tua, è colpa mia-.
Era una bugia: la rete era troppo fitta tra loro per non dividere ogni cosa in
parti uguali, di quella guerra. Ma era una bugia che andava bene, perché le
spalle magre di Albus reggevano il mondo esterno da sole; quelle di Gellert
avevano solo la prigione e un rimorso così antico da non fare più male.
L'abbraccio durò pochi secondi, eterni. Poi Albus si liberò dolcemente.
-Avevo dimenticato quanto fossi bravo- disse a Gellert. Tese la mano verso il
suo volto, sfiorò piano un ricciolo canuto e glielo fermò dietro l'orecchio
destro. Quasi un secolo, e ancora quel gesto gli veniva spontaneo. Il cuore di
Gellert non aveva mai battuto così forte come in quell'istante.
-A farti arrabbiare?- scherzò a metà, schivo improvvisamente davanti a tutta
quell'emozione.
-Anche- rispose Albus.
E poi venne il momento di parlare. Per anni il mondo magico non aveva
pronunciato il nome di Voldemort, perso nella paura di evocare su di sé
quell'orrore. Ma in quella cella quel timore non esisteva, non era mai esistito;
c'era troppa distanza, troppo potere, e, nonostante tutto, quel pizzico di
saggezza. E il nome venne detto molte volte, mentre Albus raccontava quello che
non aveva potuto scrivere per lettera, quello che aveva provato, senza nessuna
remora, all'unica persona che capisse davvero.
Gellert non interruppe mai il racconto se non per incoraggiarlo con nuove
domande. Tenne per sé i suoi pensieri, perché quel momento era per Albus, per
guarire l'uomo che amava. Non tenne per sé le sue mani, perse tra le dita di
Albus, in una carezza sulla sua nuca, tese a sfiorare una guancia per
raccogliere una lacrima che non c'era, per imparare di nuovo un contorno che era
stato così lontano. Le mani di Gellert ritrovarono uno scopo.
-Grazie al loro sacrificio e alla mia colpa, Voldemort è caduto- concluse Albus,
ma naturalmente la storia non finiva lì ed entrambi lo sapevano bene. Voldemort
era caduto come può farlo un gatto, sulle zampe, passando senza sforzo da una
vita all'altra.
-Almeno non sono nove- borbottò Gellert fra sé, pentendosene subito dopo: non
voleva che Albus si rendesse conto che a Nurmengard aveva preso l'abitudine di
parlare da solo. Era patetico.
Ma Albus rise, comprendendo la metafora prima che uscisse dalla mente di
Gellert. Sulla stessa linea di pensiero, come sempre, in armonia.
Come avevano fatto a dividersi, tanti anni prima, quando insieme erano così
perfetti?
Gellert aveva solo sbagliato guerra. Sospirò un poco, per non farsi sentire.
Albus sembrava più leggero, sgravato dal peso di dover raccontare quella storia.
-Vedi, Albus,- disse Gellert, riprendendo il discorso, -saresti dovuto restare
con me. Avrei preso io queste decisioni al posto tuo, e ne avrei portato io il
peso. Io ero nato per questo, tu per essere la nostra coscienza-.
Lui si accigliò. -Saremmo altrove, se fossi stato con te-.
Gellert scosse le spalle, con un sorriso molto simile a quello che aveva da
ragazzo, nonostante i due denti che aveva perso l'inverno precedente.
-Cosa ne sai? Magari saremmo esattamente qui- rispose. Albus inclinò la testa un
po' di lato, guardandolo con espressione concentrata. Poi sorrise, e
l'espressione raggiunse anche gli occhi splendenti, togliendogli vent'anni in un
istante. Togliendo il fiato a Gellert.
-Forse. Ma credo che alla fine sarei stato io a cambiare te, Gellert-.
Gellert rise. Forse era vero. Gli sarebbe piaciuto poter tornare indietro e
scoprirlo.
-Ancor meglio. Io avrei ucciso quel Tom Riddle prima che diventasse un problema-
disse, senza pensare, e un attimo dopo si accorse del suo errore.
-Prima che diventasse un problema?- sbottò Albus. -Era solo un ragazzo! Come
potevo sapere per certo cosa sarebbe diventato?-
-Eppure l'avevi intuito-.
-E non ho fatto nulla, è questo che mi stai rinfacciando?-
Gellert alzò le mani in un gesto di resa. Prima l'aveva provocato, ma adesso non
aveva intenzione di litigare.
-Non ti sto rinfacciando niente. Non sono nelle condizioni di potermelo
permettere, hai dimenticato?-
Albus scosse la testa, come per schiarirsela, un gesto antico che non faceva mai
in pubblico. Di nuovo, come quell'estate, Gellert non era il pubblico.
-Allora cosa vuoi dire?-
Gellert sospirò forte. Sarebbe stato bello che quella visita si fosse svolta
senza farlo soffrire, senza costringerlo a denudarsi. Sarebbe stato splendido
godersi solo la presenza di Albus, senza quello che comportava. Ma forse il
privilegio di godere di qualcosa di semplice e bello lui l'aveva perso molto
tempo prima.
-Voglio dire, amore, che saremmo dovuti restare insieme. Che non sarei dovuto
fuggire- sfiorò appena l'argomento Ariana, ma non proseguì perché non era un
tema, tra loro, che si potesse affrontare in quella vita, -e non avrei dovuto
lasciarti. Voglio dire che abbiamo sempre messo noi all'ultimo posto e
abbiamo sbagliato tutta la prospettiva. Voglio dire che abbiamo vissuto due vite
a metà, complete solo quando si sono toccate. E fanno sessantatre giorni con
oggi, Albus-.
Albus rimase in silenzio per un istante, poi gli sorrise. Aveva gli occhi pieni
di lacrime, come erano anche quelli di Gellert, a dire il vero.
-Sei diventato un vecchio romantico?- scherzò.
-Lo sono sempre stato. Ma da giovane non me ne ero accorto-.
Albus annuì e gli prese una mano. La strinse forte, e Gellert ricambiò la
stretta.
Per quasi un'ora rimase solo quello nella stanza, loro due fermi, e tutte le
emozioni della loro vita a danzare attorno a loro, nude e sincere, per la prima
volta.
Gellert era l'unico al mondo ad aver visto davvero Albus Dumbledore, in ogni
dettaglio. Albus era l'unico a conoscere oltre ogni banalità chi era Gellert
Grindelwald.
Erano a poche ore da tornare ciascuno alla propria vita, il Preside e il
Dittatore, l'Eroe e il Carcerato.
Eppure per quella notte rimasero insieme, vicini, con i loro ricordi e i loro
silenzi, che erano gli stessi, per quel che contava. Un punto di incontro, un
punto di arrivo. Un punto per ripartire.
Quando Albus ripartì, il giorno seguente, e Gellert lo lasciò andare con un
bacio sulla porta, il mondo sembrava più leggero. Nurmengard meno incombente, la
guerra finita, gli anni di solitudine che gli restavano sicuramente meno di
quelli già sopportati.
Ma qualcosa era cambiato. Gellert aveva ritrovato cosa significava essere un
uomo intero, completo, aveva visto la risposta a quella domanda che si era posto
per tutta la vita.
Fu in quel momento che Gellert Grindelwald smise di credere alle bugie che aveva
inventato su se stesso, e cominciò a frugare all'indietro e a capire quello che
era stato. Uccise la sua maschera, come aveva abbattuto quella di Albus poche
ore prima, e guardò il passato, senza nascondersi nulla, con la precisione
spietata di un artista all'opera.
E alla fine di quel lavoro, dopo mesi di introspezione e sofferenza, dopo anni
di lettere e notti insonni, Gellert Grindelwald comprese, finalmente, le misure
della sua propria anima.
"-Dicono che nei suoi ultimi anni sia stato preso dal rimorso, nella sua
cella a Nurmengard. Spero che sia vero. Mi piacerebbe pensare che abbia compreso
l'orrore e l'indegnità di ciò che ha fatto. Forse quella bugia detta a Voldemort
è stata il suo tentativo di fare ammenda... di evitare che Voldemort si
impossessasse del Dono...-
-...o forse che violasse la sua tomba?- suggerì Harry, e Silente si asciugò gli
occhi."
J.K.Rowling, Harry Potter e i Doni della Morte, pag. 661
Note noiose:
Quando ho scritto Lettere da Nurmengard, ormai anni fa, ho accennato ad una
visita che Albus fa a Gellert a Nurmengard poco dopo la caduta di Voldemort, nel
1981. Allora avevo una vaga idea di scrivere quella visita, ma poi non mi era
piaciuta e non mi aveva soddisfatto Lettere da Nurmengard, e avevo lasciato
perdere.
Quella continua a non essere la mia fic preferita, ma dopo anni la community
grindeldore_ita
e il
Regenbogen Challenge mi hanno convinta a scrivere questo che tecnicamente è
uno spin-off.
Ho sempre pensato che due persone che si amano (e Albus e Gellert si amano, per
tutta la vita, per come li vedo io) debbano essere sincere tra loro.
Ma c'è quel "segreti e bugie" che si annida nel personaggio di Albus, che è
sempre ironico e molto gentile e non dice mai quello che pensa davvero. Se non
quando è arrabbiato di brutto. Così forse il suo primo istinto anche con
Gellert, che non vede da tantissimi anni, è quello di chiudersi e mentire,
nascondendosi dietro l'ironia e deviando il discorso spiacevole. Gellert non lo
lascia fare; ma questo gli si ritorce contro, perché chiedendo onestà è
costretto a darne in cambio, e così realizza la verità su se stesso che non
aveva mai compreso. Questo lo porta sulla via della redenzione, e Albus aiuterà
lungo la strada, da quel bravo ragazzo che è.
Perché ho sentito il bisogno di raccontare tutto questo? E che ne so. Qua sono
le due di notte e non sono più molto lucida. XD
Ah, sì. Diversamente da quanto accade nella mia fic "Il fuggiasco e il
carcerato" (a proposito, queste due fic non sono legate tra loro), dove
la parte della notte non descritta i nostri amati la passano in silenzio a
fumare, qua nella parte non descritta potete immaginare quello che volete. (Come
sono magnanima XD) Se volete la mia opinione, sì, io penso che ci sia stata
un'espressione fisica del loro amore durante questa notte. Se poi non vi piace
l'idea di due uomini anziani a letto insieme, liberi di pensare che abbiano
parlato o quello che volete. ^^