Era vivo, era
uno scrittore, aveva
una cattedra prestigiosa al King’s College di Londra, il suo
dottorato
conseguito a pieni voti faceva gola anche a Cambridge e Oxford. La
classe si
riempiva tanto da non riuscire a contenere tutti gli studenti, iniziava
i
propri corsi sentendo su di sé gli sguardi ammirati di tanti
giovani che
pendevano dalle sue labbra mentre parlava.
Firmava
autografi seduto ad un
tavolo in fondo alla Waterstone’s Piccadilly, apriva la
copertina rigida del
suo ultimo romanzo e poggiava la penna stilografica sulla prima pagina
bianca.
Gli ammiratori stavano in fila, facevano un chiasso assordante che non
gli
permetteva neppure di sentire con chiarezza i nomi delle persone che
volevano
una dedica e stavano a mezzo metro di distanza da lui. Si bagnava delle
loro
voci, ascoltava il suono melodioso che ”Arthur
Kirkland” produceva sulle labbra
di tutti quegli sconosciuti che lo ammiravano, che leggevano le sue
storie e
celebravano il suo successo ed il suo nome. Un nome che veniva
pronunciato con
rispetto da tutta Londra, e forse anche in tutta
l’Inghilterra, in Scozia, nel
Galles, magari più avanti in Europa.
Aprire gli
occhi, svegliarsi dal
sogno più bello ed appagante della sua vita con
un’emicrania lancinante ed un
mal di schiena insopportabile fu più o meno traumatico
quanto ricordarsi dei
propri progetti letterari mai conclusi, o del servizio da
thè Royal Worcester
che Alfred aveva rotto meno di cinque ore prima.
Sentì vibrare forte la tapparella
contro il vetro della finestra chiusa, sferzata dal vento e scossa da
un tuono
in lontananza. Mentre lui si svegliava sentendosi malconcio e per
niente
riposato, a Londra si era già avviata indisturbata
un’ennesima giornata di
maltempo.
Ci mise almeno dieci minuti a
rendersi conto di dove esattamente si trovasse, ad analizzare le
condizioni
delle sue ossa e dei suoi muscoli indolenziti ( senza riscontrare nulla
di allarmante) e a riordinare le
idee.
Aveva dormito male, aveva un caldo terribile, la camicia del pigiama
aveva
straordinariamente quattro bottoni fuori dalle rispettive asole
– aveva la sensazione
di aver sonnecchiato per due ore scarse in un letto che sembrava
essersi
ristretto di una piazza e mezzo.
E se svegliarsi
con il piede
sbagliato non fosse bastato a rovinare il suo umore mattutino,
rigirarsi tra le
lenzuola e sbattere la fronte contro qualcosa di compatto, diede senza
dubbio
un incentivo notevole. Accorgersi che il qualcosa
emanava un forte odore di cioccolato, sentirlo mugolare e muoversi
appena e
rendersi conto di essere steso con lui su meno di mezza piazza di
letto,
condannò la giornata di Arthur Kirkland a diventare ancora
più nera.
Francis
Bonnefoy non fece caso al
patetico tentativo dell’inglese di voltarsi in tutta fretta
per dargli le
spalle, anzi riuscì a sfruttarlo a proprio vantaggio
– scivolò piano vicino a
lui, aderendo completamente alla sua schiena tesa; Arthur sarebbe
probabilmente
balzato in piedi per dileguarsi se solo la mano dell’altro
non avesse
provveduto con tempestività a trattenerlo, avvolgendolo
piano intorno ai
fianchi.
« Bonjour, mon chere.»
Fortunatamente
Arthur non aveva
mangiato crème caramel o niente di simile, per cui
riuscì in qualche modo a
trattenersi dal rabbrividire – avrebbe voluto gridare e
dimenarsi e lanciarsi
in una vasca gelida per dare una lezione a quel suo corpo debole che si
stava
surriscaldando là dove era a contatto con la mano e con il
petto duro del
francese.
«
Diventerà una buona giornata dopo
che te ne sarai andato da casa mia.»
« Mh,
oui, ti amo anche io, petit.»
Francis strofinò la punta del suo naso francese contro la
nuca di Arthur,
vicino all’attaccatura dell’orecchio. « A
proposito, quando hai intenzione di
lasciare quel ragazzino con gli occhiali e iniziare a pensare solo a
me?»
Arthur
corrugò la fronte.
Ci volle
più o meno un minuto intero
per realizzare a cosa si riferisse, una manciata di secondi per
arrabbiarsi ed
un istante per avvampare di vergogna e sentirsi rincuorato del fatto
che nessuno
potesse vederlo. Perché l’unico ragazzo con gli
occhiali di cui Francis potesse
parlare faceva Jones di cognome.
« Non
stiamo insieme.» Avrebbe
voluto pugnalarsi per via del tremore ridicolo che si
impadronì
inaspettatamente della sua voce.
«
Mmh, capisco.» Francis fece un respiro
profondo soffiando aria calda contro l’orecchio di Arthur;
l’inglese avrebbe
volentieri preso una spranga per ovviare al dramma della loro eccessiva
vicinanza.
Al desiderio
pressante di un oggetto
contundente si aggiunse anche la necessità insopportabile di
scavare una fossa
e di infilarvisi quando la mano libera del francese
abbandonò il suo fianco e
lo raggiunse nuovamente dopo qualche istante, piazzandogli davanti alla
faccia
una cornice rettangolare con i bordi color rame. « Allora
immagino che dirai
anche che questa foto si è incorniciata da sola ed
è volata magicamente sul tuo
comodino senza dirti nulla, non?»
Era una foto
talmente insulsa che in
qualsiasi altra situazione probabilmente Arthur le avrebbe dato
semplicemente
uno sguardo distratto, sorridendo appena FORSE,
ripensando all’istante in cui era stata scattata.
La carta lucida custodita
dal vetro conservava un istante stupido e inutile, sullo sfondo di un
BigBen
fiero in mezzo al cielo grigio di nuvole. E non era assolutamente
niente di
che: Alfred aveva il braccio teso davanti a sé ed
immortalava un bacio a stampo
sulla tempia di Arthur Kirkland che non solo era rosso e avvolto in
sciarpa ed
impermeabile, ma a dirla tutta sembrava quasi sul punto di sorridere.
In quel momento
gli parve il
ritratto più agghiacciante che avesse mai visto,
odiò il colore della cornice
ed il riflesso del vetro, odiò il fotografo impedito che
l’aveva scattata, la
macchina fotografica, il centro commerciale che aveva venduto quella
macchina a
quello stupido del fotografo. Odiò più di tutti
sé stesso perché la sera prima
non aveva avuto la brillante e quasi ovvia idea di togliere di mezzo
qualsiasi
cosa potesse metterlo in imbarazzo.
Nel giro di
mezzo secondo strappò
quell’oggetto terribile dalla mano di Francis, lo
affondò nel materasso e lo
fece sparire sotto il cuscino.
«
…In realtà non lo hai visto.»
Francis
mugugnò qualcosa e si mosse
sul materasso e sotto le lenzuola, gli afferrò una spalla e
senza fare troppe
cerimonie lo ribaltò sul letto, costringendolo a guardarlo
in faccia. Arthur si
ritrovò supino, e un francese incombeva minacciosamente su
di lui, un francese
che aveva ancora odore di dolci, dannazione
– un maledetto francese che trovò nuovamente il
maledetto modo di mettere le
sue maledette mani sul maledettamente sincero corpo di Arthur Kirkland.
« Oui, non ho visto nulla.» Lo
sguardo assassino di Arthur non bastò
ad impedirgli di chinarsi su di lui per regalargli un bacio sulla base
della
mandibola. E il cervello di Arthur gemeva e chiedeva a Dio quale strano
e
crudele disegno divino avesse fatto in modo che si ritrovasse
invischiato in un
imprevisto di tali dimensioni. Perché, accidenti,
il fatto di avergli tolto di mano quella foto non gli dava il permesso
di
iniziare un preliminare in piena regola, SANTO
DIO.
«
Quando pensi che potrai andartene?»
Arthur lo soffiò disperatamente, dopo che il terzo bacio di
Francis iniziò a
farlo rabbrividire sul serio – aveva la brutta e terribile
sensazione che lungo
quel tragitto che percorreva la linea della mandibola il francese
avrebbe fatto
in modo di raggiungergli la bocca. Inoltre non gli piaceva affatto la
direzione
che aveva imboccato la sua mano sotto le lenzuola, e l’ultima
cosa di cui aveva
bisogno in quel momento era che un idiota con la faccia da schiaffi
mettesse i
puntini sulle i al suo imminente attacco isterico. Francis gli sorrise,
sollevandosi appena:
« Non
prima di averti preparato la
colazione, tresor.»
«
Allora corri in cucina. Ora.»
« Hai
le uova?»
Arthur
cercò di fare mente locale,
ci provò disperatamente, avrebbe risposto senza battere
ciglio a qualsiasi sua
domanda pur di toglierselo di dosso:
« No,
non ho le maledette uova.»
« Il
burro, mon amour?»
Arthur si
sentì sul punto di
vomitare quando pensò distrattamente a quanto quella
conversazione fosse
disgustosa e rischiò di accartocciarsi su sé
stesso per il ribrezzo quando gli
tornarono in mente le discussioni del tutto analoghe che aveva visto
impegnati
suo padre e sua madre; ovvero, fino a prova contraria, una coppia di
sposi
novelli.
« Non
ho neppure quello.» Farfugliò,
scalpitando e cercando di mandare via il peso del corpo di Francis.
«–cazzo,
sparisci da questo letto subito e
vai a preparare la colazione.»
Il francese
sospirò con aria
rassegnata, obbedendo controvoglia. Arthur si rigirò sul
letto e si nascose
sotto le lenzuola, allontanandosi il più possibile dalla
sponda su cui aveva
dormito Francis – era bastata una sola notte
perché il tessuto si impregnasse
del suo odore ipnotico. Arthur si ripromise di impregnare quelle
lenzuola di
candeggina quella sera stessa.
«
Quanta impazienza per delle crepes….»
Arthur lo sentì mormorare dal
fondo della stanza e la sua voce era disgustosamente satura di
soddisfazione. «
Vado a comprare gli ingredienti, tresor.
Vado e torno.» E la risposta che Arthur gli
propinò per salutarlo mentre lo
sentiva scendere le scale ed aprire il portone di casa fu un secco e
stridulo:
«
Puoi anche non tornare!»
Ci fu un
momento di silenzio subito
dopo che Francis si chiuse l’ingresso alle spalle: Arthur
riuscì per un istante
a sentirsi più leggero nella consapevolezza che il francese
aveva abbandonato
l’ambiente ristretto di casa sua. Riuscì a godersi
quella sensazione di libertà
per giusto due secondi, affondando la testa nel cuscino. Il secondo
dopo fu
travolto da un ammasso di lenzuola e da un fortissimo odore di patatine
fritte
– e a dire il vero fu ricoperto e quasi schiacciato dalla
sagoma prepotente di
un ragazzone che sbadigliava, batteva le palpebre ed apriva i suoi
luminosi ed
un po’ assonnati occhi azzurri.
« Mornin’, man!»
Per almeno due
secondi, Arthur
Kirkland aveva davvero provato ad illudersi che senza Francis in giro
avrebbe
potuto finalmente iniziare la sua normale giornata. Ma c’era
un americano
appena sveglio che gli sorrideva con la guancia schiacciata sul
cuscino,
occupando il centro e la sponda sinistra del suo letto.
Com’era ingombrante.
«
Ciao, Alfred. Una volta tanto, prova
a parlare inglese.»
Come previsto,
le sue parole vennero
ignorate – Alfred gli andò addosso stringendolo
con forza, le braccia che gli
cingevano entrambi i fianchi e se ne infischiavano di essere premute o
meno dal
peso insignificante di un inglese magrolino.
«
Oggi mi dai ripetizioni, vero?»
Arthur storse
il naso guardando
Alfred che avvicinava il volto al suo con la solita scusa della propria
miopia.
Avrebbe voluto alzarsi e cercare gli occhiali per sistemarglieli sul
naso, in
modo da frapporre una barriera di vetro tra di loro.
« Non
era in programma.»
Alfred fece una
smorfia, arricciando
appena le labbra in un muso bambinesco:
« Si,
invece. Mi avevi promesso che
avremmo parlato di…» Fece una pausa significativa,
alzando gli occhi verso il
soffitto e mordicchiandosi un labbro; sembrava nel bel mezzo di un
enorme
sforzo mnemonico, e probabilmente però lo più inventivo. « Plutone e Karl
Llewellyn.» Forse la salma polverizzata
di Platone aveva appena iniziato a rimescolarsi e dibattersi sottoterra.
«
Alfred, Llewellyn era un avvocato.»
Arthur non seppe se commuoversi per la sua inaspettata conoscenza in
campo
legale o se atterrire per l’oscenità che aveva
appena sentito. Alfred, dal
canto suo, si limito a stringersi appena nelle spalle:
«
Vale lo stesso.» Si avvicinò
maggiormente, strusciando sulle lenzuola. « Allora oggi
stiamo assieme?» Lo
disse rivolgendogli uno di quei sorrisi pieni di aspettativa che
facevano in
modo che Arthur Kirkland divorziasse dal proprio buon senso ed
autocontrollo
per almeno una buona mezz’ora.
Ci fu un
istante di serio
tentennamento prima che dalle labbra dell’inglese riuscisse a
scaturire un poco
convinto:
« Ho
detto di no.»
Alfred aveva
due tattiche per
ottenere da Arthur ciò che voleva, in un modo o
nell’altro: la prima, usata
molto più frequentemente, prevedeva un
completo disinteresse per qualsiasi protesta o obiezione
l’inglese potesse
sollevare. La seconda era la più pericolosa,
perché prevedeva abbracci e baci e
in genere faceva sciogliere Arthur molto più in fretta. Per
il bene di Arthur
Kirkland, Alfred era perlopiù un ragazzone ottuso che non
capiva il significato
della parola romanticismo, e di
conseguenza gli risultava difficile raggiungere un pensiero tanto fine
come “quando bacio Arthur
è molto più facile
fargli fare ciò che voglio”.
Quella mattina
il suo cervello però
si dimostrò all’altezza, e Arthur vide tutta la
propria determinazione
dissolversi come ghiaccio al sole; Alfred approfondì
l’abbraccio fino a che il
suo naso non arrivò a toccare la fronte dell’altro
– gli poggiò le labbra sulla
guancia e gli diede un bacio umido e rumoroso. Un bacio che non aveva
assolutamente niente di sexy, ma sembrava piuttosto la lappata di un
cane
festante.
« Sai
che ti sono grato per quello
che fai, vero?» Un altro bacio ancora più bagnato,
sullo zigomo. « Lo sai che
tengo a te, vero, Art?»
Arthur avrebbe
voluto evitare che lo
baciasse ancora ma non riuscì a muoversi – anzi,
la cosa più drammatica fu
accorgersi che non voleva sottrarsi
al suo abbraccio nonostante questa scelta comportasse una guancia
bagnata di
saliva da far schifo.
«
…Si, lo so.»
«
Bene, ora preparami la colazione!*»
Era difficile
trovare la connessione
logica tra la confessione adorabile che gli era appena stata fatta e la
richiesta assolutamente improvvisa e fuori luogo (e che a dirla tutta
sembra
anche abbastanza opportunista), ma il cervello di Arthur subiva ancora
profondamente i postumi di quei baci e della voce di Alfred,
così non riuscì ad
elaborare un commento abbastanza acido:
«
Francis ha detto che avrebbe
preparato le crepes.» Non
c’era
niente di strano nel pensare che per una volta Arthur potesse evitare
di
mettere a friggere delle uova. Ovviamente la promessa di Francis non
assicurava
che Arthur gli avrebbe riaperto l’ingresso per permettergli
di mettersi ai
fornelli.
« Ah,
fantastico! Almeno non
rischierò di rimettere la colazione.»
La cosa
terribile fu che dopo aver
pronunciato candidamente quell’insulto velato, Alfred ebbe
addirittura il
coraggio di baciarlo sulla bocca a tradimento, soffocando le sue
proteste. E
riuscendo quasi ad infilargli la lingua in bocca, con tutta la sua
falsa
innocenza da ragazzino di appena vent’anni.
Arthur si
chiese disperatamente e
con le lacrime agli occhi, mentre farfugliava contro la bocca di
Alfred, cosa
avesse fatto di male per meritarsi quella tortura impossibile.
Si era davvero
dato da fare per
evitare che quei due si avvicinassero alla sua camera da letto. Davvero, ci aveva messo tutto il proprio
impegno. Sin da quando era diventato chiaro che non si sarebbero fatti
facilmente buttare fuori di casa, la notte prima, il suo cervello era
entrato
nell’ordine di idee che la zona della sua casa che si trovava
oltre le scale (
il bagno, la soffitta e soprattutto la
sua stanza) dovesse diventare in qualsiasi modo
off limits.
Aveva
assecondato Alfred quando si
era spostato in salotto senza chiedere il permesso, lamentandosi del
suo ultimo
panino finito troppo in fretta e dell’assenza di un
cheeseburger di riserva. Quel
ragazzo aveva preso la cattiva abitudine di comportarsi in casa di
Arthur come
a casa propria, ma l’inglese di rado riusciva a fare
qualsiasi cosa per
impedirglielo, e quella sera aveva mangiato troppe schifezze mescolate
perché i
lamenti proveniente dal suo stomaco gli permettessero di contrastare
qualsiasi
prepotenza americana. Inoltre percepiva con insistenza la presenza
asfissiante
di Francis, sempre più consapevole della distanza limite
minima necessaria che
si rimpiccioliva per qualsiasi stupidaggine. A volte “stammi
lontano” non otteneva
il risultato sperato.
Dopo aver
scongiurato (con la
necessaria acidezza) un eccesso di inutile cavalleria da parte del
francese ed
aver ricevuto una forte e rumorosa pacca sul sedere in protesta, si
erano
ritrovati tutti e tre seduti sul divano del salotto.
Erano rimasti
svegli fino alle tre
di notte o giù di lì e tutto
l’intrattenimento era spaventosamente uscito dalla
grande e inutile borsa di Alfred. Arthur l’aveva vista
svuotarsi a poco a poco,
svelando misteri e sorprese inquietanti – una delle quali
(forse la più
shockante) fu constatare come Alfred avesse riempito una tasca di
preservativi
senza neanche premurarsi di chiuderla per nasconderla a chiunque (e in
particolare a lui.)
Avevano giocato
in tre ad un
diabolico videogioco di corse – Alfred aveva collegato quella
diavoleria ludica
al televisore nuovo di zecca di Arthur con una disinvoltura ed una
velocità
strabilianti. Aveva quasi fatto morire l’inglese per un
infarto fulminante
quando aveva piegato di novanta gradi lo schermo piatto per posizionare
qualche
cavo, ma poi la tv si era accesa senza alcun danno.
« Chi
è l’idiota che continua a
sbattere contro il muro?»
E Arthur aveva
fatto finta di non
essere l’unico deficiente a non capire come accidenti
funzionasse quello
schermo fastidiosamente suddiviso in tre rettangoli, o in quale di quei
kart
minuscoli ed assurdi dovesse identificarsi – ma la sua mente
era per una buona
parte occupata a macchinare come imporre a quei due babbei di rimanere
a
dormire sul divano.
Dopo la
disastrosa partita con quelle
diavolerie incomprensibili, Alfred e Francis avevano iniziato a
discutere di
cinema come due vecchi amici di infanzia; e sarebbe stato tutto normale
e molto
bello se solo non lo avessero fatto mentre Arthur Kirkland tentava di
respingere da una parte un braccio dalle spalle, e dall’altra
una guancia che
continuava con insistenza a poggiarsi sulla sua testa. Probabilmente
Arthur
avrebbe partecipato con piacere alla conversazione se solo non si fosse
trattato di quei due, e la sua testa non fosse stata impegnata ad
arrovellarsi
su come impedire loro di avvicinarsi al suo maledetto letto che era
grande due
piazze e stava al piano di sopra.
Avevano visto
un film horror,
un’americanata splatter di bassa categoria che Arthur
trovò noiosa e
decisamente poco interessante (e che ovviamente era spuntata
magicamente dalla
borsa Alfred). Forse sarebbe stato più semplice seguire
quella trama debole se
solo Francis ed Alfred non fossero esistiti. Perché se a
destra il francese
continuava a far finta che sfiorargli l’interno del polso con
la punta delle
dita fosse la cosa più naturale del mondo, a sinistra Alfred
gemeva e urlava
per qualsiasi cosa, aggrappandosi a lui fino ad abbracciarlo e quasi
soffocarlo. E ancora la testa di Arthur Kirkland era stata notevolmente
confusa
riguardo al problema di tenere lontane quelle due piaghe dal piano di
sopra.
Perché accidenti, aveva paura –
quei
due sembravano andare così schifosamente d’accordo
che forse non avrebbero
disdegnato l’idea di trascinare Arthur in camera da letto per
divertirsi in
comitiva.
Ma nonostante
avesse tirato fuori le
coperte dalla soffitta, nonostante avesse specificato espressamente che
avrebbe
preparato loro il letto nel soggiorno ed
aver chiarito che no, non aveva
voglia di bere del rum prima di coricarsi e che no!,
non avrebbe ceduto ai piagnistei di Alfred che lo imploravano
di dormire abbracciati – alla fine si era ritrovato
schiacciato in un lembo di
materasso, pressato da due rumorosi ed ingestibili rompiscatole.
Da una parte
Francis sembrava divertirsi
a sfiorargli la nuca con la punta del naso, dall’altra Alfred
gli si era
aggrappato ad una spalla gemendo assurdità su zombie e
creature mostruose che
lo avrebbero perseguitato durante la notte. Alla fine si erano entrambi
addormentati prima di lui, lasciandolo in mezzo a guardare il soffitto
buio e a
contrastare le loro manacce che a quanto pare anche nel sonno tendevano
ad
allungarsi nella sua direzione. Il risultato di quella disavventura era
stata
una notte perlopiù insonne, ed un crampo al braccio
– perché dopo essersi
addormentato Alfred aveva inoltre iniziato pian piano ad occupare
più della
metà dello spazio.
Ma dopo essersi
svegliato di
malumore (e rincuorato almeno dal fatto di essere solo seccato ma
almeno ancora
integro), Arthur Kirkland
iniziò ad
illudersi che quella giornata potesse in qualche modo risollevarsi.
Quando scesero
al piano di sotto
(una buona mezz’ora dopo), sui vetri delle finestre
picchiettava con forza una
pioggia insistente e piuttosto fitta. Mentre Alfred si arenava in
cucina come
una balena alla deriva, Arthur sbirciò l’ingresso
lasciandosi andare in un
sorriso di pura soddisfazione quando vide tutta la sua collezione di
ombrelli
al proprio posto. L’idea che Francis fosse lì
fuori e che probabilmente si
stesse inzuppando disastrosamente gli apriva il cuore e lo riempiva di
una
strana e maligna soddisfazione.
Non fece caso
ad Alfred che frugava
una biscottiera alla ricerca di qualcosa con cui riempire lo stomaco,
mugolando
spensieratamente una storpiatura ridicola e stonata di una versione
personale
dell’inno americano. Mise a bollire l’acqua per il
thè, strusciando le
pantofole sul pavimento – non fece
caso
ad Alfred che issava i piedi nudi sul tavolo ed ignorò la
sua richiesta di una
tazza di caffè. Imperterrito nella sua ricerca di
normalità, Arthur Kirkland si
limitò a sfilare una bustina di thè Twinings
dalla scatola e ad inzupparla
sistematicamente nell’acqua bollente. Osservò le
curve ipnotiche di aroma color
miele che lentamente iniziarono a colorare il liquido incolore e
fumante,
sentendosi per un attimo solo, inglese e perfetto.
Il motivetto
canticchiato da Alfred
a bocca piena si interruppe bruscamente:
«Art?»
«Cosa
c’è?»
«Lo
sai che questi biscotti fanno
schifo, vero?»
Un fitta di
dolore acuto raggiunse
il petto di Arthur insieme ad una consapevolezza insopportabile ed
umiliante.
Perché quegli scones non era riuscito a mangiarli neppure il
cuoco che con
tanto impegno aveva mescolato gli ingredienti confondendo il sale con
lo
zucchero e sbagliato ancora una volta i tempi di cottura. Non a caso
stava
silenziosamente tagliando una fetta della torta francese avanzata nella
speranza di passare inosservato, e di riuscire a mangiarla tutta prima
che
Francis tornasse in cucina (ah, già, Francis
non sarebbe tornato).
« Non
ti ho chiesto di mangiarli.» Concluse,
lapidario, affondando con rabbia e crudeltà il coltello nel
cioccolato morbido.
E fece finta di
non vedere quando
Alfred aprì la bocca ed ingoiò tre dolcetti
l’uno dopo l’altro, facendo facce
terribili solo per ricordargli che quella premura non solo gli costava
una
grande fatica eroica, ma che lo faceva per semplice e puro altruismo.
Arthur
sbuffò, cercando una tazza in
cui versare il thè bollente – gli vennero quasi le
lacrime agli occhi quando le
sue dita afferrarono il vuoto, nel tastare la porzione di mensola che
aveva
ospitato le bellissime tazzine di ceramica che Alfred aveva rotto. Ne
trovò una
di plastica con disegnati sopra dei Teletubbies scrostati dal tempo, un
omaggio
che aveva ricevuto per l’acquisto di tre scatole di cereali.
Fece finta di non
accorgersi dello sguardo fisso ed allibito che Alfred
riservò alle quattro
creature sulla tazza.
«
Art?»
«
Cosa vuoi ancora?»
« Hai
un succhiotto sul collo.»
Il
thè appena messo in bocca esplose
dalle labbra di Arthur in modo a dir poco disdicevole e poco britannico.
Alfred lo
seguì con lo sguardo
mentre rischiava di affogare e si aggrappava al tavolo rischiando quasi
di
rovesciare il resto del thè sul pavimento – quando
l’inglese trovò il coraggio
di guardalo nuovamente, nonostante il thè gli gocciolasse
ancora dal mento,
l’espressione afflitta dell’americano era lo
spettacolo più avvilente a cui
avesse mai assistito. Anche se in quel momento dubitava potesse
esistere qualcosa
di più avvilente di essere Arthur Kirkland.
« Chi
è stato? » il tono di voce di
Alfred avrebbe probabilmente convinto un assassino seriale a pentirsi
dei
propri peccati e costituirsi in centrale.
Ma mentre con
le mani tentava in un
modo o nell’altro di occultare la pelle della gola, Arthur
Kirkland lo guardò
con la faccia sporca di thè e gli occhi che fiammeggiavano,
perché ormai una
funzionalità extra per analizzare le facce di Alfred si era
impiantata nel suo
cervello e in quel momento gli gridava non
fidarti di quella faccia! Non fidarti, imbecille!
Ma per prima
cosa, tentò di negare –
certo, sarebbe stato più minaccioso se solo non fosse stato
in pigiama, non
avesse avuto la faccia in ebollizione e le sopracciglia spettinate:
« Se
mi stai facendo uno scherzo,
non mi sto divertendo.»
Alfred scosse
il capo, mettendo in
bocca un altro biscotto disgustoso – parlò a bocca
piena, con le guance gonfie
e gli occhi socchiusi e sofferenti per sottolineare la propria azione
caritatevole:
« In
realtà non diverthe nepphure me
vedherti addossho una cosha del genere e shapere di non esshere shtato
io a
fharla.»
Arthur,
comprendendo con una
lentezza inaudita il significato nascosto da quelle parole,
letteralmente,
inorridì.
Proprio in quel
maledetto istante,
dall’ingresso provenne il solito motivetto stonato che
scomodava l’elegante ed
inglese campanello di casa Kirkland per annunciare
l’imminente intrusione di
Francis Bonnefoy.
Arthur Kirkland
maledisse il mondo.
Si impose di
ignorare il campanello
mentre faceva un ripasso mentale dello stato dei suoi cassetti e del
suo
armadio, chiedendosi disperatamente dove avesse buttato la sciarpa
l’ultima
volta che se l’era tolta di dosso. Abbandonò la
tazza dei Teletubbies sul
tavolo insieme al suo thè ed alla fetta di torta,
fiondandosi sulle scale ed in
bagno. Il campanello si dimenava e gemeva e chiedeva pietà,
ma al momento la
cosa lo tangeva quanto la persona che aspettava una benedizione dal
cielo
aldilà dell’ingresso. Perché accidenti,
forse fuori stava diluviando e il francese si sarebbe sciolto in una
pozzanghera – ma il giorno dopo Arthur doveva presentarsi
davanti ad una classe
di cinquanta studenti, e non poteva farlo con un livido sul collo che
la diceva
lunga sulle sue abitudini sessuali.
« Non
apri a Francis?» la voce
squillante di Alfred lo raggiunse dal piano di sotto, rimbombando
attraverso le
pareti. Rischiando di scivolare sul tappetino, cadere
all’indietro e rompersi
l’osso del collo sbattendo la nuca sul water, Arthur si
piazzò davanti allo
specchio rettangolare:
« No!
E se osi farlo entrare ti
ammazzo!» e la sua voce era più alta di almeno
un’ottava mentre piegava la
testa, scopriva il collo spostando il colletto del pigiama ed esaminava
con le
dita la pelle chiara della gola.
Continuare a
scrutare disperatamente
ogni centimetro del proprio riflesso (per un
buon quarto d’ora) ed infine accorgersi che in
fin dei conti sulla sua
accidenti di gola pallida non si stagliava ALCUNA macchia scura da
pervertiti,
lo fece sentire stupido. Ma non semplicemente stupido;
si sentì un idiota di proporzioni esorbitanti.
Perché
d’altronde il suo cervello lo aveva avvertito, o no? Non gli
aveva gridato
nell’orecchio di non fidarsi della faccia di Alfred F.Jones?
Quando
tornò in cucina, battendo
forte i piedi sugli scalini, trovò due maledetti scocciatori
seduti al tavolo –
Alfred aveva ovviamente aperto la
porta e stava giocherellando con il dito lungo il bordo
dell’orribile tazza dei
Teletubbies. Francis si era trascinato in casa lasciando una scia
bagnata e
leggermente fangosa sul parquet lucidato e – bloody
hell, cosa diavolo era quella macchia sul tappeto indiano?
Ora aveva poggiato le sue compere sul tavolo, se ne stava comodo sulla
sedia,
la camicia oscenamente appiccicata al petto e le ciocche fradice che
gli
aderivano alla fronte e alle guance. E se entrambi non avessero avuto
sulle
labbra il sorriso sardonico di chi sta per scoppiare a ridere,
probabilmente
l’incazzatura di Arthur Kirkland sarebbe rimasta costante.
« Mi
dispiace, petit.»
biascicò Francis Bonnefoy mentre una sorta di strana
compassione gli attraversava gli occhi « So che in fondo ti
sarebbe piaciuto.» Forse
si riferiva al succhiotto inesistente, ma Arthur stava letteralmente
per
detonare sul posto, quindi non fu tanto facile interpretarlo.
L’ultima
cosa che sentì prima di
afferrare la prima cosa avesse a portata di mano e scagliarla verso di
loro, fu
la risata spaccatimpani di un americano senza cervello:
«
Art, avresti dovuto vedere la tua
faccia!*»
Alfred
scansò una statuetta di
ceramica, sentendola sibilare in volo ad un soffio dal suo ridicolo
ciuffo
antigravità. Arthur Kirkland la vide fracassarsi contro la
credenza e cadere in
terra tintinnando: il pezzo più prezioso e raro della sua
collezione di fatine
in scala, dipinte a mano.
..Voleva
morire.
« Oh,
com’on, Art! Stai ancora
piangendo per quello sgorbietto di
ceramica?»
«
No.» Arthur tirò su con il naso
cercando di farlo nel modo meno rumoroso possibile, battendo le
palpebre per
camuffare le lacrime tra le ciglia. D’altronde aveva
ufficialmente smesso di
lamentarsi almeno un’ora prima, dopo aver fissato immobile
per lunghi minuti i
resti di porcellana ammucchiati nella spazzatura.
Alfred ebbe la
brillante idea di
consolarlo con una pacca sulla schiena – quel genere di gesto
affettuoso che
avrebbe anche potuto tranquillamente ucciderlo:
«
Rotta una fatina se ne fa
un’altra!*»
Arthur
rischiò di affogare con la
propria saliva, ma alla fine tossicchiò e riuscì
a risollevarsi, riempiendo i
polmoni d’aria:
«
Alfred, chiudi quella boccaccia.»
Sentì
la bassa risatina di Francis
alla propria sinistra, decisamente troppo vicino all’orecchio:
« Se
sei triste per il succhiotto,
si può rimediare subito, mon petit
chere.»
«
Stammi lontano!»
Francis
obbedì, senza tuttavia
rinunciare a stampargli un bacio sulla tempia prima di allontanarsi;
Arthur
storse la bocca, rivolgendogli uno sguardo bieco e quasi disgustato
– certo
vedergli indossare uno dei propri soprabiti di riserva non era il
massimo per
tenere a bada l’isteria. Francis sembrò quasi
lusingato da quelle occhiate
piene di odio e in tutta risposta sollevò il colletto fin
sopra il mento:
« Se
solo volessi, potrei farti
cambiare umore in un attimo.»
Arthur lo
guardò, la bocca dischiusa
deformata appena da una smorfia:
« Ma
quanto fai schifo?»
Che facesse
schifo o meno, stava
comunque andando con lui ed Alfred a spasso per le strade di Londra,
senza una meta
e senza un motivo. Giusto per farsi vedere dal mondo insieme a due
deficienti.
Arthur Kirkland metteva semplicemente un piede davanti
all’altro, troppo
shockato dalla nottata terribile, dalla cena che l’aveva
preceduta e dal
ricordo avvilente della statuetta distrutta. Inoltre orribili parole
francesi
come “chere”,
“petit” e
“tresor” stavano
cozzando rumorosamente contro le pareti del suo cervello, impedendogli
di
pensare in maniera sana e costruttiva.
« E
fammi il favore di piantarla con
quei nomignoli disgustosi, perché al prossimo ti giuro che
vomito!»
Francis gli
sorrise, caricando il
proprio sguardo di una dose aberrante d’affetto:
«
Come vuoi tu, Arrtiùr.»
E fece attenzione ad imprimervi l’accento francese in
maniera evidente e dura, accentuando le erre
ovunque gli fosse possibile. L’inglesissimo Arthur Kirkland
avrebbe volentieri
sollevato un ginocchio per piantarglielo in mezzo alle gambe.
Ma
dall’altra parte c’era ancora
Alfred F. Jones che ridacchiava e gli dava del noioso vecchio,
perciò fu costretto
a riorganizzare le proprie priorità – punire quel
ragazzo sfacciato sfrecciò di
colpo al primo posto:
« E
tu non solo sei un americano
dislessico, ma anche una specie di disastro ambulante! Non credere che
mi sia
dimenticato delle tazze che hai rotto cercando le tue maledette
coppette di
gelato!» Sentì la mano di Alfred aggrapparsi alla
sua spalla e spingerlo contro
il suo petto, facendolo incespicare. « Come se del gelato
potesse nascondersi
nella credenza! Sono ancora mortalmente arrabbiato! E non dovevamo
parlare di filosofia,
oggi, eh?» Sentì la presa di Alfred farsi
più salda sul proprio corpo e si
accorse che il suo sorriso da ebete diventava più ampio.
« Ti giuro che questa
volta non la passi liscia, non osare mai più chiedermi
mpfgh-!» Alfred aveva
appena messo in atto la sua tattica infallibile per zittirlo senza
sforzo: e
come previsto bastò infilargli la lingua in bocca per
placare qualsiasi
fastidiosa rimostranza.
« Ah,
l’amour.» fu il
commento sospirato di Francis, mentre regalava una
palpata divertita al fondoschiena di Arthur.
Doveva esserci
qualcosa di
decisamente sbagliato in quegli individui.
Doveva esserci.
«
Bene!*»
Esclamò Alfred F.Jones dopo
essersi allontano dal volto dell’inglese ed aver lasciato
Arthur a barcollare
per il marciapiede. « Non accetto obiezioni! Tutti i prossimi
week-end li
passeremo a casa di Art!»
« No!» E Arthur avrebbe voluto
dirglielo in tutte lingue, ma al
momento la confusione e la disperazione gli permettevano di usufruire
solo
della sua madrelingua inglese.
Forse un giorno
lo avrebbero fatto
impazzire e lo avrebbero ritrovato mezzo nudo in mezzo alla strada
mentre
beveva whisky e biascicava maledizioni che li dannava per
l’eternità.
Ma per ora li
avrebbe sopportati.
Ancora per un
poco.
Nota
dell’autrice:
Si, ribadisco
che mi piace tanto
il triangolo dei biondi. Che mi piace tanto
l’accostamento Blu/Bianco/Rosso
in tutte le sue varianti. Che probabilmente scriverò FrUKUS
finché scriverò di
Hetalia. Che probabilmente continuerò a tormentare Arthur
Kirkland ogni volta
che ne avrò l’occasione C:
Regalo anche la seconda parte alle
ispiratrici di questa cosa assurda e fondamentalmente priva di senso
logico, Juju e Angi:
mi avete sfidato/chiesto di scrivere roba che non fosse angst
o deprimente, e spero di esserci riuscita xD
Diecimila
grazie e ai recensori che
mi hanno resa felice! Alicyana (perché
è bello leggere una recensione formato fanfiction xD
<3!), ballerinaclassica (grazie
per la tua
approvazione, per la segnalazione e per avermi spinta a riaprire questo
file
xD), Aerith1992 – leggere
recensioni
fa sempre crescere un po’ la mia (scarsa) autostima e la mia
voglia di scrivere
<3
Per ora non ho
in programma di
scrivere altre scempiaggini simili, ma se mi accorgo che la cosa
potrebbe fare
piacere a qualcuno, credo che riorganizzerò volentieri le
mie priorità in
favore di questi tre dementi xD
Alla
prossima! Cough.
Alfred,
Francis,
lasciate perdere quell’inglese isterico e amatevi tra di voi!
Viva il FrUSA