Capitolo 22: Un tuffo nel passato
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erence
Granchester gettò annoiato il numero di Time
che stava provando a leggere per ammazzare quell’attesa tormentosa. Niente da
fare, non c’era verso di concentrarsi. Sarebbe stato meglio se avesse dato
retta a Candy, che dopo avergli somministrato due compresse di ferro per compensare
il prelievo della trasfusione, gli aveva calorosamente
consigliato di prendersi qualche ora di sonno. Già, come se il bell’attore
avesse potuto tranquillamente appisolarsi in una circostanza di quel genere,
tale da ricordargli il terribile incidente occorso in passato alla collega ed amica Susanna Marlowe. Era davvero
angosciante pensare che potesse finire in modo analogo!
Finalmente
le porte della corsia si spalancarono, rivelando un gruppo di sanitari che
accompagnava un letto a rotelle dove stava disteso un paziente ancora sotto
anestesia. L’aspetto del pilota contrastava fortemente con la foto che Terence
aveva visto prima sul periodico, sopra il titolo L’Aquila Americana conquista la sua centesima vittoria… nondimeno il
talentuoso interprete shakespeariano si sentì molto più leggero quando la sagoma
del lenzuolo che lo ricopriva rivelò che le sue gambe erano entrambe ancora al
loro posto!
L’infermiera bruna dalla coda di cavallo presente
nell’equipe s’affrettò a infilare l’ago di una flebo nel braccio destro
dell’aviatore e subito dopo si voltò verso il chirurgo.
“Adesso lasciamolo riposare” disse questi, dopo
avere annotato qualcosa sulla cartella clinica “e lei, signora Greason, cerchi
di fare altrettanto.”
“Ma, dottore” cominciò la donna, con voce tremula “lei
ritiene che…”
“Abbia fiducia” rispose il dottor Waxman posandole
la mano sulla spalla “abbiamo fatto tutto il possibile. Suo marito è un individuo
robusto e vi sono ottime probabilità che le facoltà motorie si ripristino integralmente.
Fra qualche giorno ne sapremo di più.”
“Grazie…!”
Mentre il medico si ritirava, l’infermiera tornò ad
accostarsi al letto. Dolcemente accarezzò i capelli del paziente, quindi gli
prese con delicatezza il braccio libero dalla flebo, ne appoggiò la mano al
proprio grembo e disse: “Dai, piccolino: fa’ il tifo a papà…!” poi,
all’improvviso, la povera donna non ce la fece più: riportò la mano al volto e scoppiò
in un pianto dirotto.
Alla fine era successo davvero: aveva avuto il proprio uomo sotto i ferri!
Un’esperienza che aveva da sempre temuto come la peggiore della sua vita, pur
augurandosi di poterla affrontare nella malaugurata ipotesi che un giorno fosse
stato necessario.[1]
Nessuno aveva cercato di dissuadere la signora
Greason dal partecipare all’operazione. E quando il dottor Waxman aveva detto:
“Ora diamoci da fare, se vogliamo salvargli le gambe!” le colleghe di Flanny,
al tempo sue ex condiscepole, l’avevano fissata con ansia. Per fortuna l’abitudine
della loro mentrice ad assistere qualunque chirurgo come se questi operasse il proprio
uomo era stato un egregio allenamento, fin dai tempi di Pearl Harbor:[2]
non un tremito, non un sussulto, né la minima esitazione avevano pregiudicato l’efficienza
della migliore allieva della Mary Jane
Nursery Training School e le sue quattro compagne si erano dimostrate pienamente
alla sua altezza.
Alla fine il bisogno di scaricare la tensione si era
però fatto insopprimibile e le spalle di Flanny continuavano ad essere scosse
da singhiozzi disperati.
Una sua collega dalla chioma bionda, acconciata con
due codini vistosi, l’abbracciò subito da dietro: “Su, Flanny…” sussurrò “…non
fare così: hai sentito cos’ha detto il dottor Waxman? Andy è forte… se la caverà,
vedrai!”
La moglie dell’interessato strinse convulsamente una
delle mani dell’amica che la cingevano alla cintura: “Sì, ma…” balbettò “…se lui
non potrà… più volare… che cosa farà?!”
La deliziosa boccuccia di Candy rimase semiaperta.
Avrebbe voluto rispondere senza mezzi termini che una simile eventualità
l’avrebbe riempita di gioia, specialmente se si fosse trovata al suo posto! Ma
la sua bontà proverbiale sopravvenne, ricordando soprattutto una conversazione
che aveva avuto tempo prima con Terence…
“Sai, Candy… seguire la propria vocazione nella vita
è certamente meraviglioso. Ma comporta un prezzo molto alto!”
“Quale prezzo, Terence?” gli aveva chiesto lei.
“Quello di morire due volte, mia cara. La prima
quando si lascia la propria attività e la seconda quando si smette di vivere. Purtroppo,
quando fai ciò che senti veramente,
finisci per averne bisogno più dell’aria che respiri, anche negli aspetti
negativi: il biasimo dei critici nel caso mio, il pericolo dell’azione nel caso
di Andy!”
Nondimeno la coscienza professionale di Candy non
poteva consentirle di trasmettere false speranze alla collega: “Non temere, cara:
io sono sicura che Andy troverà sempre il suo scopo nella vita, specialmente
con una compagna come te. Anche se dovesse smettere di…”
“No!” disse una voce, in tono secco.
Le due donne si voltarono. Terence Granchester era
di fronte a loro, il viso altero ma con le labbra sorridenti. E prima che la
fidanzata gli potesse dire il fatto suo, si rivolse direttamente alla sua amica:
“Andy volerà di nuovo, Flanny. Te lo assicuro io!”
“Ma Terry…!” protestò la bionda.
“Come ha detto il dottore, il nostro amico è robusto”
continuò l’attore “ma, soprattutto, ha una volontà d’acciaio. Non sarà questo
contrattempo a compromettergli la carriera.”
“La fai sempre molto semplice, tu!” commentò Candy,
rimproverandolo cogli occhi.
“Senti, tesoro: Andy potrebbe pilotare anche con due
protesi, come quel suo collega, mio connazionale.[3]
Anche Susanna è tornata sul palcoscenico, con la sua gamba artificiale. E tu
credi che l’aquila americana si
faccia fermare da qualche scheggietta?”
*Qualche decina
di scheggette, per essere esatti!*
replicò amaramente la bionda, fra sé e sé. Ma disse poi a Flanny: “Beh, lo hai
sentito? Anch’io sono convinta che ce la farà… vedrai, il tuo aquilotto tornerà
a volare!”
“Che Iddio vi ascolti, amici” rispose Flanny,
asciugandosi le lacrime, per tendere poi la mano al compagno di Candy “e grazie
di tutto, Terry…!!”
“Oh, è stato un piacere” rispose lui, stringendogliela
con noncuranza “speriamo solo, prima o poi, di rivederci in circostanze più
tranquille!”
Alla signora Greason s’imporporarono le guance: “Mi
dispiace… per quella volta…”[4]
“Acqua passata” rispose lui, strizzando l’occhio per
poi volgersi verso l’asso addormentato “alla prossima, cuginetto… e stammi
bene!”
Poco dopo, mentre lo accompagnava fuori, Candy volle
togliersi un sassolino dalla scarpa…
“Me la spieghi una cosa, Terry?”
“Parla, tesoro.”
“Perché chiami Andy sempre cugino? Va bene che, da quando siamo in guerra, noi anglo-americani
ci diciamo sempre così, ma tu non sei esattamente il tipo da seguire certe
consuetudini!”
“E infatti non lo sono” alzò le spalle Terence “ma
si da il caso che - almeno alla lontana - Andrew Steve Greason sia davvero mio
cugino!”
“Cosa…?!” la giovane si arrestò di colpo “Ma parli
sul serio?”
“T’ho mai preso in giro?” domandò lui, in tono
semiserio.
“Questo non lo so” rispose Candy mettendo le mani
sui fianchi “ma so per certo che spesso mi nascondi qualcosa!”
“Nulla che tu mi abbia mai chiesto.” obiettò
l’amico, ostentando la flemma più britannica.
“Bene, stavolta te lo chiederò”[5]
ribatté con veemenza la sua ragazza “spiegami se è proprio un caso che tu e il marito di Flanny avete
nelle vene lo stesso tipo di sangue rarissimo!”
“Ok” sospirò rassegnato l’attore “che ne dici però
di parlarne con le gambe sotto un tavolo? Mi reggo appena in piedi!”
“E non te l’avevo detto di metterti a dormire?”
“Ora lo sai perché non l’ho fatto. Quando smonti?”
“Alle quattro.”
“Allora ci vediamo più tardi. Buon lavoro!”
Ciò detto e salutata l’amica con uno dei suoi
sorrisi “tira-schiaffi”, il bello di Broadway si diresse verso l’uscita del St.Mary, mentre la sua prima ragione di
vita (la seconda era il teatro) lo seguiva scuotendo lentamente i suoi codini
biondi…
***
Scozia, Contea di Perthshire, Settembre 1840…
Nella
cupa atmosfera nordica di un nebbioso mattino autunnale, un’esile figura varcò
furtiva la postierla di un massiccio maniero che si ergeva fieramente nella
brughiera. Coperta nel suo pesante mantello di lana, si avviò quindi a passi veloci
lungo il sentiero che conduceva alla vicina borgata di Pitcairngreen.
Giunta
a destinazione bussò risoluta alla porta di una taverna situata nella piazza
centrale del paese, dove le venne aperto dopo pochi istanti.
“Che
volete, a quest’ora?!” le chiese il padrone con voce burbera, dal momento che
si era appena alzato.
La
persona misteriosa abbassò il cappuccio del mantello rivelando i graziosi
lineamenti d’una giovanetta appena sedicenne. Le gote erano rosse per il freddo
mattutino e i suoi riccioli biondi apparivano spruzzati di rugiada.
“Milady…”
sobbalzò il taverniere, che ben la conosceva, dovendo recarsi periodicamente al
castello per la consegna delle provviste
“…che ci fate, voi, qui?!”
“Dovete
aiutarmi, mio buon Angus!”
“Che
posso fare, per voi?” domandò l’altro, timoroso, come colto da un vago presentimento.
“Mi
occorrono un carro e un cavallo” rispose la bella fanciulla “subito!”
“Ma…”
balbettò il poveretto “…così, su due piedi…”
“Vi
prego, Angus” insistette la giovane, afferrandogli la mano libera dalla
lanterna “devo recarmi urgentemente a Glasgow: è questione di vita o di morte!”
“Ma
cosa è successo, milady?” s’informò premurosamente il taverniere.
“Devo
svolgere una faccenda per mio padre. Ha mandato me per non dare nell’occhio: mio
fratello in città lo conoscono in troppi…”
L’oste
la scrutò bene in viso. Quegli occhi azzurri, che parevano aver pianto a lungo,
tendevano a smentire quelle semplici parole.
“Capisco”
sospirò il brav’uomo, rassegnandosi alla vista di futuri guai “va bene, vedrò di
accontentarvi. Voi, nel frattempo, scaldatevi vicino al fuoco.”
“Grazie,
mio buon amico. Sapevo di poter contare su di voi!”
“Servo
vostro, milady. Vi faccio portare qualcosa di caldo?”
“Un
punch sarebbe il benvenuto…”
“Arriva
subito.”
La
taverna di Pitcairngreen era rinomata per i suoi punch, ma la giovane Giuditta,
secondogenita del Duca di Granchester, non poté gustarselo molto, in quella
circostanza. Fra una sorso e l’altro continuava a interrogare il suo orologio,
sempre più inquieta e seccata che l’oste ci mettesse tutto quel tempo. Anche la
luce del giorno, che cresceva sempre più, non era fatta per rilassarla.
Finalmente
il padrone ricomparve: “Il carro è pronto… è nel cortile.” le annunciò, quasi
esitando. Come punta da una vespa, la ragazza si rialzò, andò verso l’uomo e
gli porse un sacchetto di monete: “Grazie, Angus: questi sono per voi.”
“No,
io… non posso accettare!” protestò l’altro, con forte imbarazzo.
“Non
fatevi pregare: vi sarò per sempre grata del vostro concorso. Addio e buona
fortuna!”
“Altrettanto
a voi, milady!” replicò il taverniere, nella cui voce si notava però come un
senso di colpa.
La
giovanetta uscì dal retro del locale per raggiungere il cortile, dove faceva bella
mostra di sé un carro trainato da un cavallo. Quest’ultimo soffiava impaziente,
strisciando uno dei due zoccoli anteriori. Giuditta gli carezzò la criniera, montò
a cassetta e afferrò le redini. Stava per spronare il destriero, quando una
voce proveniente da un recesso del cortile le procurò un tuffo al cuore: “Dove
vuoi andare, sorella?”
La
ragazza si girò per fissare sgomenta la figura comparsa dal nulla: “Arthur…!!”
Il
nominato si avvicinò al carro. La giovanetta era così terrorizzata da non
pensare nemmeno a scuotere le briglie per lanciare il cavallo al galoppo.
“Come
hai fatto a scoprirmi?” domandò, con un filo di voce.
“Angus
è corso al castello per avvertirci.”
Giuditta
annuì amaramente: “Ecco perché ci ha messo tanto, quel disgraziato... miserabile
vigliacco!!”
“Non
essere così severa con lui” obiettò Arthur Granchester, il primogenito del Duca
“ti conosce fin da bambina e voleva solo impedirti di commettere una sciocchezza!”
“O
piuttosto non voleva incorrere nelle ire di nostro padre…!” rettificò Giuditta,
con marcato scetticismo.
“Anche,
forse” specificò il giovane “comunque rassicurati: nostro padre non sa ancora
nulla. Angus ha avvertito solo me.”
“Perciò
provvederai tu a tradirmi, non è vero?” gli chiese la sorella, lanciandogli uno
sguardo di fuoco.
“No…
a patto che tu sia ragionevole.”
La
fanciulla chiuse gli occhi, stringendo la mascella minuta: “Arthur, io non ti
seguirò spontaneamente: dovrai usare la forza per costringermi a rientrare!”
Lui
sospirò: “Se ti comporterai così, Giuditta, non riuscirò a coprirti con nostro
padre!”
“Non
me ne importa niente!!” gridò lei, spaventando il cavallo, che per poco non
s’imbizzarrì. Dopo averne afferrato le redini e carezzatogli la testa per
calmarlo, il giovane Granchester continuò: “Rifletti, sorella: vuoi davvero
ripudiare la tua famiglia per correre dietro a quell’uomo?”
“Non
sarei io a ripudiarvi” precisò Giuditta “sarebbe il Duca a ripudiare me!”
“E
cos’altro potrebbe fare? Il casato dei Granchester ha ricevuto il titolo
nobiliare dalla Corona Britannica: come potrebbe il capo del Clan consentire a
imparentarsi con dei separatisti?”
“Taci”
ribatté la fanciulla, con veemenza “non è forse per questo che i McGreason se
ne vanno? Per non spaccare di più la Contea, dopo che quel maledetto gli ha
messo contro la metà del popolo?!”
“Giuditta”
la richiamò il fratello “stai parlando di nostro
padre!!”
“Io
non ho più un padre…!” dichiarò lei amaramente, abbassando il capo.
“Non
parlare in questo modo: lo sai che ti ha sempre voluto bene.”
“È
inutile che lo difendi, Arthur: non chiamerò più padre un uomo che antepone la politica alla propria figlia,
impedendole di unirsi con l’uomo che ha scelto… costringendo anche una famiglia
per bene ad emigrare in terra straniera!”
“È
stata una loro scelta, Giuditta. Potevano limitarsi a cambiare Contea…”
“Il
Duca non li avrebbe mai lasciati in
pace, se rimanevano in Scozia. E adesso lasciami andare!”
“Non
posso…!” rispose mestamente il giovane, scuotendo la testa.
Giuditta
Grenchester comprese in quel momento che suo fratello non avrebbe mai ceduto.
Era troppo legato a suo padre per consentirle di fargli perdere la faccia: se si
fosse saputo che il Duca di Granchester si era fatto soffiare la figlia dal
primogenito dei McGreason, non soltanto la Contea, ma la Scozia intera avrebbe
riso di lui per decenni, trascinando nel fango il suo blasone. Ma ritornare al
suo castello sarebbe stato per la giovane una vera e propria condanna
all’infelicità perpetua.
Cosicché,
l’ex pupilla del Duca decise di giocare la sua ultima carta: “Ti scongiuro,
fratello mio” lo implorò, con voce piangente “lasciamelo almeno salutare per
l’ultima volta...!”
Arthur
Granchester guardò la sorella minore, il cui dolce visino si stava riempiendo
di lacrime. Contemplò quelle piccole gote, che da bambino aveva tante volte baciato
dopo le loro felici corse per la brughiera e non resistette più…
“E
sia” sentenziò traendo di tasca il suo orologio “affrettiamoci, allora: se non
ricordo male, la nave salpa alle undici!”
***
Ormeggiata
lungo la banchina principale del porto di Glasgow, la Queen of Caledonia si lasciava cullare pigramente dalle onde in
attesa di prendere il largo, mentre l’equipaggio si affrettava a ultimare il
carico. Presso la murata di dritta, un giovane di circa diciott’anni se ne
stava appoggiato al parapetto osservando malinconico gli edifici scuri della
grande città, che già contendeva alla meridionale Liverpool il ruolo di primo
scalo britannico per i traffici con le Americhe. Ciò che però il ragazzo sembrava
osservare più attentamente erano le strade che convergevano sulla gittata, come
se aspettasse qualcuno che doveva anche lui imbarcarsi su quella stessa nave.
All’improvviso
trasalì, sentendo una mano appoggiarsi sulla spalla: “Tutto bene, figliolo…?”
Il
giovane si girò per guardare il volto dell’uomo più anziano: “Certo, padre. E
voi come vi sentite?”
Robert
McGreason sospirò pesantemente: “Come può sentirsi un uomo costretto a lasciare
per sempre la terra natia. Ma le avversità rendono i giusti più forti, Daniel.”
“Già,
quando non li annientano!” replicò il figlio, tornando a voltarsi verso la
banchina.
Suo
padre gli strinse la spalla con più energia: “Nessuno ci annienterà, ragazzo
mio. Tu, tua madre e io stesso, siamo persone forti e risolute. Ricominceremo
da capo e nel Nuovo Mondo troveremo quello che la Scozia non ha voluto concederci:
la pace e la libertà!”
“Speriamolo”
commentò il giovane Daniel “ma trovo ingiusto che siano i miti a doversene
andare, anziché i prepotenti!”
“La
giustizia è merce rara su questa terra, figliolo” ribatté il genitore “a volte
bisogna sacrificarsi per evitare un danno peggiore, di cui la coscienza ci
chiederebbe eternamente conto.”
“Questo
è vero” ammise il ragazzo “non potevamo permettere che l’intera regione
continuasse a vivere nel disordine per i contrasti fra i nostri fiancheggiatori
e quelli del Duca… ma non sopporto il pensiero di avergli dato partita vinta!”
“Col
tempo le cose si aggiusteranno. Un giorno il giovane Arthur prenderà il posto
del padre e saprà governare quella terra con lungimiranza ed onestà.”
“Vorrei
crederlo…!” rispose Daniel, con una smorfia diffidente.
“Tuttavia”
aggiunse il padre, riposandogli la mano sulla spalla “non è solo questo che ti
tormenta, nevvero?”
Il
ragazzo lo guardò bene in viso: “Ti sbagli, padre” ripose, con voce quasi atona
“è soltanto questo…!”
“D’accordo”
sospirò l’altro “io torno da tua madre. L’aria del mattino non fa bene ai miei
reumatismi.”
“A
più tardi, allora…”
Dando
un’ultima pacca alla schiena del figlio, Robert McGreason rientrò sottocoperta.
Naturalmente non aveva creduto affatto alle parole del suo unico erede e non
certo perché lui difettasse in sincerità. In effetti conosceva bene i
sentimenti che albergavano nel cuore del figlio, ma non voleva spargere ulteriore
sale sulle ferite del suo cuore tormentato.
***
“Più
presto, Arthur… più presto!!”
“Stai
calma, Giuditta” rispose il giovane Granchester, incitando il cavallo “fra poco
ci siamo.”
“Se
l’alta marea è in anticipo, anche la nave salperà prima… e non potrò più
rivederlo!!”
“Fidati
di me… stiamo già raggiungendo i sobborghi.”
Il
carro che l’oste di Pitcairngreen aveva procurato loro filava a rotta di collo
lungo la strada maestra, con grande spavento dei rari viandanti e la meraviglia
dei contadini. La secondogenita del Duca si straziava nello sforzo di non mostrarsi
troppo spasmodica, ma le lancette del suo orologio, che ruotavano implacabili
sul quadrante, la pungolavano senza pietà. Finalmente il veicolo fece il suo
ingresso in città e, dopo avere attraversato i quartieri principali, raggiunse
la calata del porto. Purtroppo, mentre si avvicinavano alla banchina, poterono
vedere la Queen of Caledonia che già
stava mollando gli ormeggi, mentre la passerella veniva ritirata.
“Oh,
Signore… è troppo tardi!!” gridò con angoscia la povera Giuditta.
“Mi
dispiace veramente, sorella…!” si rammaricò il giovane Arthur.
Ma
la ragazza non se ne dette per intesa e, dopo essere saltata giù dal carro,
corse velocemente verso il molo, gridando a squarciagola il nome del suo amato:
“Daniel…!!! Daniel…!!!”
Il
fratello maggiore, affrettatosi a raggiungerla, poté scorgere anche lui la
figura d’un uomo che, richiamato dalle grida assieme ad altri passeggeri, era
rimasto pietrificato dalla sorpresa… o forse dalla gioia per l’avverarsi d’una segreta
speranza.
“Giuditta…!”
mormorò il giovane McGreason, con un filo di voce.
Ma
se non furono le orecchie, fu il cuore della fanciulla a percepire chiaramente
quel nome e le braccia della figlia dei Grenchester si tesero verso quel crudele
veliero che le stava rubando il suo promesso: “Ti amo, Daniel… ti amo!!!”
gridò, con tutte le sue forze.
“Anch’io,
Giuditta…” gridò lui, di rimando, a pieni polmoni “…non lasciarmi… non
lasciarmi, ti scongiuro…!!”
Il
giovane McGreason sapeva bene quanto fosse irrazionale quella supplica, ma forse
un inconscio presentimento l’aveva spinto a precedere l’identica implorazione che
gli avrebbe rivolto la sua Giuditta e che lui non avrebbe potuto
pragmaticamente soddisfare.[6]
“Daniel…”
gridò ancora la ragazza, scossa dai singhiozzi “…Daniel…!!”
Arthur
Granchester abbassò il capo, incapace di reggere la scena. Poche volte, nella
sua vita, si era sentito combattuto in quel modo, ma la propria responsabilità
di erede del Casato gli pesava maggiormente della paura di suo padre…
Un
improvviso sciacquio lo riscosse dai suoi cupi pensieri e subito dopo si
ritrovò stupito a fissare la sorella che, dopo essersi tuffata, stava nuotando
a vigorose bracciate verso la nave, dalla cui tolda un intenso vociare s’era
subito levato a commentare quell’evento inaspettato.
“Giuditta…!!!”
gridarono all’unisono il figlio dei Grenchester e quello dei McGreason.
Per
fortuna la brezza non era molto forte e così la velocità con la quale la Queen of Caledonia si stava allontanando
dal porto. Quell’intrepida figlia delle Highlands poté quindi raggiungere e
afferrare la scaletta di corda che i marinai si erano affrettati a rilasciare.
Non
appena la bella Giuditta arrivò sul ponte coi biondi capelli grondanti e le
piccole gote più rubiconde che mai, Daniel McGreason se l’afferrò stretta al
petto, per poi baciarla sulla bocca con passione irrefrenabile, incurante (o forse
stimolato) da tutti quei fischi, le grida e gli applausi della piccola folla
che li circondava.
I
due giovani sarebbero rimasti per ore a guardarsi negli occhi senza fare
null’altro, se una voce autorevole e falsamente severa, non li avesse
richiamati all’ordine: “Mi perdoni, milady…”
Accortisi
di avere di fronte il capitano della nave, i due ragazzi cercarono di ridarsi
un contegno, sconvolti dall’imbarazzo. L’uomo continuò però a parlare come se
nulla fosse: “…ritengo doveroso da parte mia farvi presente che il nostro primo
scalo è Boston!”
“Che
coincidenza: è proprio là che dovevo andare!” ribatté la giovane candidamente e
Daniel le sorrise di rimando.
“Capisco”
proseguì il comandante “e naturalmente garantite voi per la signora. Dico bene,
sir?” chiese poi direttamente al giovane.
“Naturalmente,
capitano. Potete stare tranquillo.”
“Molto
bene” questi borbottò con dignità “in tal caso, vi auguro buon viaggio!”
“Un
momento, comandante” lo fermò McGreason “avrei da chiedervi una cortesia…”
“Dite
pure, giovanotto.”
“Avreste
tempo per un matrimonio…?”
Il
fiero lupo di mare, che già si aspettava una tale domanda, rispose con pacatezza:
“Beh, penso proprio di sì… datemi solo una mezz’oretta, quindi trovatevi nel
quadrato.”
“Ci
saremo, comandante!” rispose la bella Giuditta.
I
due fidanzati tornarono a fissarsi e Daniel fu il primo a parlare: “Mi dispiace,
tesoro: non ho un anello, qui con me…”
“Oh,
Daniel… cosa vuoi mai che me ne importi?”
“Ma
importa a me. Prendi questo, figlio mio” disse una donna dalle fattezze ancor
piacenti, porgendo al ragazzo la sua vera nuziale “era di mia madre. Sarei
felice se anche mia nuora lo portasse!”
“Grazie,
madre!”
“Anche
da parte mia, lady McGreason!” aggiunse Giuditta, con un inchino.
“Signora
Greason, prego” la corresse il marito “il Mac
lo lasceremo in mezzo all’oceano. Da oggi comincia una nuova vita: avremo un
nuovo nome e una nuova Patria!”
“Hai
ragione, marito mio” rispose la consorte “se la Scozia ci ha voltato le spalle,
di certo l’America ci sorriderà. Dio vi benedica, ragazzi!”
E
così, mentre la Queen of Caledonia veleggiava
verso la terra promessa, sul molo della vecchia Glasgow il futuro Duca di
Granchester pronunciò il suo triste addio, certo anche lui che il cuore della
cara sorella lo avrebbe potuto sentire: “Sii felice, mia piccola Giuditta… forse,
un giorno, le nostre famiglie potranno incontrarsi di nuovo.”
***
Inghilterra, Contea dell’East Sussex, Aprile 1944…
“Certo
che il mondo è veramente piccolo…!” commentò sbalordita una giovane bionda,
assai simile alla fiera Giuditta dei bei tempi andati, seduta al tavolo di un
pub nel centro di Newhaven.
“Già…!”
ribatté l’uomo di fronte a lei, con un sorriso leggermente beffardo sulle
labbra.
“Adesso
capisco perché, nel vedervi insieme, avvertivo sempre una certa rassomiglianza
fra di voi… almeno in alcuni atteggiamenti!”
“Parli
forse dell’approccio con l’altro sesso?” domandò Terence, marcando sull’accento
ironico.
“Per
l’appunto…!” confermò Candy, socchiudendo gli occhi.
L’attuale
erede dei Granchester ridacchiò: “Beh, come si suol dire… buon sangue non mente!”
“Sbruffone!
Tu e lui” sentenziò la bella infermiera “però la storia di quei giovani è davvero
romantica: non ricorda quella di Romeo e Giulietta?”
“Direi
di sì… con la variante, però, del lieto fine.”
“Hai
ragione… e questo mi fa capire quanto tu
sentissi quella storia!”
“È
probabile” ammise l’attore “però, se devo essere sincero, non erano Giuditta e
Daniel il mio preciso punto di riferimento…”
“E
allora chi?” s’incuriosì la giovane.
“Noi due, mia bella zuccona!”
“Zuccona?! Ma come ti perm….” ma la
bionda non riuscì a terminare, perché, alla vista di quella faccia serafica,
scoppiò a ridere anche lei.
Dopodiché,
per concludere degnamente quella conversazione rivelatrice, i due si avvicinarono,
abbracciandosi e si scambiarono un dolcissimo bacio d’amore…
[1] “Sarebbe terribile se mio marito finisse in sala operatoria. Ma sarebbe ancora peggio se io non potessi essergli accanto!” aveva detto Flanny, più volte.
[2] Vedi capitolo 7.
[3] Douglas Bader (1910-1982), asso della RAF che, pur avendo perduto entrambi gli arti inferiori in un incidente, riuscì a riabilitarsi come pilota da caccia grazie all’impiego di due gambe artificiali.
[4] Allude a quando l’aveva “scacciato” dall’ospedale Santa Johanna di Chicago impedendogli così d’incontrarsi con Candy.
[5] Purtroppo per Terry, la famosa flemma britannica non funziona con le americane (come sa bene anche Andy)!
[6] Se anche Daniel McGreason fosse rimasto in Scozia, ben difficilmente i due giovani avrebbero potuto coronare il loro sogno, a causa dell’incombente presenza dal Duca.