Allora.
Questa
è una storia un po' particolare, non perché sia
speciale o troppo bbbella né
niente del genere, ma perché quando ho iniziato a scriverla
non doveva essere
un'originale, ma doveva vedere come protagonisti due personaggi di cui
scrivo
spesso. Poi il racconto ha preso vita propria e la caratterizzazione si
è resa
autonoma.
Sostanzialmente
I protagonisti somigliano a personaggi di Naruto, ma non sono loro.
Per
il resto, segnalo una leggera coloritura di linguaggio e tematicha, ma
nulla di
trascendentale, dunque non mi è sembrato affatto necessario
inserirlo tra gli
avvertimenti.
Ed
è quanto.
Buona
lettura
______________________________
Faceva
freddo.
Il
marciapiedi era spruzzato di neve e su, sopra i lampioni, si
riconosceva il
grigio plumbeo del cielo colmo di nubi, ma da un paio d’ore
aveva smesso di
nevicare e una brezza gelida spazzava le strade. L’aria
sembrava formata
dall’incontro tra miriadi di spilli ghiacciati che si
conficcavano nella pelle
del viso, nelle gambe e le braccia sotto i vestiti.
Il
ragazzo aveva una vecchia giacca frusta, troppo leggera, e guanti
slargati a
cui mancavano le punte di quasi tutte le dita. Camminava un
po’ di sbieco,
barcollando leggermente, ma tutto il rhum schifoso che aveva bevuto non
bastava
a mandar via quel freddo, e si sfregava le mani tra loro e intorno al
corpo per
cercare di scaldarsi. Costeggiando un cesto della spazzatura gli
tirò un
calcio, per la rabbia. Le sue chiavi della casa erano andate al diavolo
chissà
dove e non sapeva di nuovo dove dormire. Aveva provato a bussare, aveva
anche
preso a spallate la porta e urlato – non sapeva cosa
– ma nessuno gli aveva
aperto.
Poteva
provare a chiedere ospitalità a qualche stronzo dei soliti,
ma la storia
rischiava di girar male: come quando il vecchio Oliver aveva cercato di
mettergli le mani addosso, ed era finita a bottigliate. Per le stazioni
della
metropolitana era troppo tardi, erano già tutte chiuse. E in
quella ferroviaria
rischiava troppe rogne per il poco calore che vi si poteva trovare.
Quel
che restava da fare era trovarsi un portone aperto in cui infilarsi per
ripararsi un po’ dall’aria fredda, o un portico,
una tettoia. C’era da
congelare e la temperatura continuava a scendere; erano quasi le
quattro del
mattino.
“Schifo
di vita schifa!” masticò il ragazzo tra i denti,
tirando un pugno al vuoto.
Aveva
sonno, e tremava di freddo. I suoi piedi, nelle scarpe da ginnastica,
sembravano pezzi di ghiaccio e bruciavano ad ogni passo, e il suo
stomaco
cominciava ad accusare il massiccio quantitativo di alcool ingurgitato
durante
tutta la giornata: con un altro bicchiere sarebbe andata meglio, ma non
aveva
più il becco d’un centesimo.
I
portoni nella via sembravano tutti ben chiusi: per scrupolo ne spinse
qualcuno,
passando, ma nemmeno uno si mosse d’un millimetro. Non
c’era l’ombra di
un’anima nei paraggi, ma comunque era troppo malmesso per
sperare nella
compassione di qualche povero idiota generoso. Le ultime persone che
aveva
incontrato, un ragazzo e un ragazza che dovevano essere
all’incirca suoi
coetanei, avevano attraversato la strada e cambiato marciapiede alla
sua vista.
Girò
l’angolo cominciando a battere i denti, e gettò
l’occhio alle vetrine spente
dei negozi e alle finestre con le inferriate. Non c’era nulla
che potesse
servire da rifugio, e rallentò un po’ il passo per
lo sconforto.
Accanto
alla porta sbarrata di una lavanderia ce n’era una a vetri da
cui proveniva una
fioca luce. Il ragazzo gettò l’occhio tra le
griglie della finestra adiacente,
parzialmente oscurata da una tenda colorata: all’interno,
incongruo, c’era quel
che, più che una sala di bar, sembrava un salotto
scalcagnato, pieno di roba.
Sul tavolino di fronte al divano era accesa una piccola abat-jour, ma
non si
muoveva niente e non si udiva nessun rumore.
Il
ragazzo restò lì per qualche minuto, tremando
dalla testa ai piedi e
respirandosi nei palmi delle mani intirizzite. Poi, con lo sguardo
ancora fisso
e senza nemmeno saper bene perché, né nutrendo la
minima speranza, allungò il
braccio e spinse leggermente la porta.
Ed
era aperta.
Rimase
fermo, interdetto, osservando quello spazio di pochi centimetri appena
liberato. Poi la sua mente intorpidita si rimise in moto: poteva
entrare, e se
fosse comparso qualcuno avrebbe raccontato una balla, ad esempio che
pensava si
trattasse di un locale associativo, uno squatt o qualche stronzata di
quel
genere. Altrimenti avrebbe arraffato quel che trovava e si sarebbe
fatto
qualche soldo.
Spinse
ulteriormente la porta senza fare rumore e scivolò
all’interno, cauto.
L’impressione che non ci fosse nessuno fu confermata
dall’evidenza, così come
quella che si trattasse d’una casa privata: c’era
uno stereo – troppo scassato
per guadagnarci davvero, ma comunque – una brocca
dell’acqua, qualche libro
sparso qua e là e tutto quel genere di oggetti tipici della
vita quotidiana. I
muri erano tappezzati di locandine cinematografiche, fotografie e
ritagli di
giornale. Da una porta socchiusa s’intravedeva il bagno, sul
fondo della stanza
si apriva la zona cucina e sulla destra s’inerpicava una
scala a pioli verso il
piano superiore.
I
termosifoni erano accesi.
Il
ragazzo fece qualche passo all’interno e si guardò
attorno alla ricerca del
miglior bottino, assaporando il calore. Esausto e annebbiato, si mosse
attentamente e si sedette sull’estremità del
divano, riposando per un secondo
le gambe stanche.
Poteva
prendere lo stereo, e probabilmente frugando in giro avrebbe trovato un
po’ di
soldi o qualche oggetto di valore: c’era una cassettiera che
prometteva buone
sorprese.
Si
stava bene, lì dentro.
PORTA
APERTA
Lo
infastidì uno sciabordio di acqua corrente. Subito dopo,
suoni secchi di
oggetti spostati e uno scalpiccio di passi.
Scattò
a sedere con un tuffo al cuore e spalancò gli occhi,
improvvisamente sveglio e
reso lucido dall’ansia. Si era addormentato sul divano e la
luce del giorno
filtrava ora dalla finestra, illuminando il vano spazioso e la figura
umana che
trafficava intorno al tavolo: un ragazzo giovane, biondastro e in
pigiama, che
si voltò verso di lui con un sorriso sonnolento.
“Scusa,
speravo di non svegliarti facendo colazione ma sono un po’
rumoroso,” ridacchiò
l’estraneo amichevole, mentre lui correva con lo sguardo alla
porta meditando
una ragionevole fuga precipitosa. A quelle parole inaspettate
tornò ad
osservarlo, sorpreso.
“Potevi
prendere una coperta, comunque. Gli altri non te ne hanno
date?” continuò il
tizio, pacifico.
Lui
aggrottò la fronte, cercando di incamerare le informazioni.
Decise che evidentemente
c’era un equivoco e che forse quell’individuo
pensava che lui fosse ospite di
qualcun altro che viveva nell’appartamento, sempre che di
appartamento si
trattasse e la sua impressione non fosse stata erronea.
“No,”
bofonchiò, cauto. “Ma fa niente, ora
vado,” aggiunse, tirandosi in piedi
bruscamente. La testa gli girò lievemente ma si
avvicinò alla porta, deciso a
svignarsela prima che la realtà venisse alla luce.
“Ehi,
non c’è fretta. Vuoi un
caffè?” lo riprese l’altro, sedendosi a
tavola e
indicando la caffettiera. “Comunque quella è
chiusa, devi passare dalla porta
interna,” precisò, prima di scrollare la testa con
un sorriso. “Ieri l’avete
dimenticata aperta, sempre che non sia stato io.” Quanto
parlava, quel ragazzo,
e con una voce sonora e squillante. Lui se ne sentì
intontito, ancora avvolto
dai postumi del giorno precedente. “A proposito, io mi chiamo
Noel,” concluse
il biondo.
Lui
sbatté gli occhi, incerto. Con uno sguardo alla porta
blindata, che dava
sicuramente sulla hall del palazzo, si strinse nelle spalle.
“Simon,”
ribatté, troppo stralunato per inventarsi un finto nome.
L’altro
annuì, per chissà quale ragione.
“Di
chi sei amico?” aggiunse, ciarliero.
Era
esattamente la domanda che lui non voleva sentire ed esitò,
lo sguardo di nuovo
alla porta. Era troppo sperare di azzeccare un nome a caso e socchiuse
le
labbra per sparare fuori qualcosa sul fatto di essere di fretta, ma
quel Noel
aveva già posato la tazza da cui stava sorseggiando il
caffè e lo osservava ora
con la fronte lievemente corrugata e una sfumatura di sospetto negli
occhi.
Sembrava aver registrato solo in quel momento le pietose condizioni dei
suoi
vestiti e della sua persona.
“Aspetta
un momento… Tu sei amico di qualcuno, qui?”
La
mano di Simon si posò sulla maniglia mentre
l’altro già si alzava in piedi.
Sbuffò stizzito, storcendo il naso.
“E’
come hai detto tu, la porta era aperta,” affermò
quasi con sfida. Fanculo a
tutto, alla fine. Che chiamasse pure la polizia, non gliene poteva
importare di
meno. Ne aveva già passate, di notti in guardiola.
“Pensavo che fosse un posto
pubblico e che sarebbe arrivato qualcuno.”
Noel
era fermo, adesso, sembrava indeciso se saltargli addosso per stenderlo
o
optare per una prudente distanza.
“Hai
rubato qualcosa?” chiese freddo.
“Se
anche fosse?” ribatté lui d’impulso. Poi
raddrizzò la testa. “Mi sono solo
addormentato. Fuori faceva un fottuto freddo, se non l’hai
notato,” aggiunse
brusco. La testa gli faceva male da scoppiare.
Noel
lo osservò assottigliando appena le palpebre, forse
meditando sul credergli o
meno e sicuramente infastidito dal suo tono. Poi decise forse di
lasciar
correre e scrollò la testa.
“In
fondo non è colpa tua se siamo tanto stupidi da lasciare
aperto. Sei un po’
stronzo, comunque,” borbottò indispettito, prima
di tirare un sospiro. “Beh, lo
vuoi o no questo caffè? Hai l’aria di averne
bisogno. E anche di una doccia, se
è per questo,” aggiunse.
E
si rimise a sedere.
Aveva
un perfetto estraneo dall’aspetto più che losco
che si era introdotto in casa
sua, e si rimise a sedere per fare colazione. Simon lo
squadrò allibito, diviso
tra la pena per la stupidità e
l’ingenuità di quel tipo e il desiderio di
buttare qualcosa di caldo nello stomaco. Quel secondo impulso umano
ebbe la
meglio, sicché dopo una lieve esitazione si sedette,
annuendo, all’altro capo
della tavola. Noel allungò un braccio per aprire
l’armadio a muro accanto al
proprio posto, ne estrasse una tazza che riempì facendola
poi scorrere verso di
lui e infine lo osservò penetrante. Aveva gli occhi azzurri.
“Potrei
avere armi,” osservò Simon con sprezzo.
“Le
avresti già usate, e per il resto ti avverto che sono un boxeur,”
ribatté l’altro, sornione.
“Zucchero?” aggiunse, con un cenno verso il
pacchetto.
Simon
scosse il capo con una smorfia di ribrezzo.
“Lo
bevo amaro,” bofonchiò, prima
d’immergersi nel silenzio. “Magari
corretto…”
Noel
sgranò gli occhi azzurri con una smorfia sconcertata.
“Alle
dieci del mattino?” chiese perplesso.
Simon
si limitò a stringersi nelle spalle, contegnoso, e
l’altro scrollò la testa e
bofonchiò qualcosa di incomprensibile con tono seccato,
chinandosi ad aprire
l’anta inferiore dell’armadio.
“Sei
fortunato, abbiamo un fondo di whisky,” affermò,
poggiando sul tavolo una
bottiglia quasi vuota.
“Perfetto,”
commentò Simon asciutto, allungandosi ad afferrarla. Si
versò un dito di
liquore nella tazza e poi la portò alle labbra, appagato.
Per una domenica
mattina non era male: whisky e caffè, senza contare che quel
Noel sembrava
proprio un buon pollo da spennare e magari ci avrebbe cavato qualche
soldo.
In
quel momento, però, si udì una porta che si
apriva al piano di sopra e poi dei
passi giù per le scale. Simon osservò rigido un
altro ragazzo, castano e
decisamente scombussolato dal sonno, fare la sua comparsa nel salotto
registrando distrattamente la sua presenza.
“Ah,
si è svegliato,” strascicò roco.
Noel
si voltò con un sorriso.
“Ciao,
Sean, dormito bene?” salutò gioviale.
“Lui è Simon, un…mio amico,”
aggiunse,
indicandolo. L’altro, quello Sean, annuì vago con
uno sbadiglio.
“L’avevo
immaginato, quando sono arrivato a casa e l’ho trovato steso.
Dovevi aver
sonno,” commentò, tendendogli distrattamente la
mano.
Simon
la scrutò senza entusiasmo prima di allungare brevemente la
propria, ancora
avvolta in quello schifo di guanto.
“Abbastanza,”
commentò sostenuto.
“Che
hai fatto ieri sera?” chiese Noel, mentre anche Sean si
sedeva e si versava un
caffè.
“Birre
e via dicendo, giù al pub, poi siamo andati a finire la
serata da Shannon,”
rispose l’altro, e sbadigliò di nuovo.
“E voi?”
“Più
o meno uguale,” fece Noel, vago. “Sim, se vuoi
farti una doccia lì c’è un
bagno,” continuò con fare naturale, indicandogli
la porta già notata la sera
prima.
Di
fatto, Simon aspettava solo l’occasione per alzarsi e
svignarsela, magari
portandosi via la bottiglia e accessoriamente qualche altra cosa.
Scosse
automaticamente la testa, oltremodo infastidito da quel nomignolo.
“Non
ne ho bisogno,” rispose.
Ma
in effetti continuava a non sapere come entrare nella casa e poteva
anche essere
che sarebbe rimasto chiuso fuori per giorni. A meno di spaccare la
finestra per
poi farsi stressare da qualche coglione di ritorno, non sapeva quando
sarebbe
riuscito a riavere un tetto. E poi nella casa l’acqua calda
c’era di rado.
Tanto valeva approfittarne.
“Anzi,
sì,” si corresse, posando la tazza vuota.
Si
chiuse la porta del bagno alle spalle mentre i due coinquilini
continuavano le
chiacchiere mattutine e rimase sotto il getto dell’acqua
calda per più di dieci
minuti, sciogliendo i muscoli stanchi e levandosi di dosso la sporcizia
e il
freddo di giorni. Quando ebbe chiuso il getto, uscendo dal box e
posando i
piedi sul tappetino, individuò un accappatoio giallo e
arancione e se lo infilò
senza porsi il problema che non fosse suo.
Non
si sentivano più voci, ma una lontana musica rock. Simon
infilò la testa fuori
dal bagno e non trovò più nessuno,
c’era solo la canzone che proveniva dal
piano di sopra. Però, appoggiati sulla sedia che qualcuno
aveva messo proprio
lì davanti, c’erano dei vestiti puliti. Li
osservò come se fossero stati una
truppa di piccoli alieni.
Quel
Noel era così cretino da risultare sconcertante, decise.
Allungò
la mano per afferrarli e si richiuse dentro, cominciando a vestirsi.
Gli abiti
erano appena un filo larghi per lui, ma complessivamente andavano
più che bene
e non erano strappati né consunti.
Quando
uscì finalmente dal bagno, meditando di sparire con lo
stereo, trovò invece
Noel stravaccato sul divano, intento a leggere il giornale
sbocconcellando una
brioche.
“Hei,
ma allora sei un umano!” commentò il suo ospite,
squadrandolo soddisfatto.
Simon storse il naso, superiore, ma Noel non vi fece caso.
“Vuoi?” proseguì,
indicando un sacchetto di carta dalla cui apertura
s’intravedevano altri
croissant. Simon realizzò in quel momento di avere una fame
fottuta e si
avventò sulle cibarie.
“Si
direbbe di sì…” brontolò
Noel sarcastico. Lui fece ancora spallucce, masticando
voracemente: non gli piacevano i dolci, ma in quel momento avrebbe
mangiato
qualunque cosa, anche una gamba del tavolo.
“Beh,
io vado,” annunciò dopo aver ingoiato la brioche.
Infilò la sua giacca logora e
si passò una mano tra i capelli. “Prendo la
bottiglia, magari,” aggiunse, con
sfacciata arroganza.
“Ehi!
Comodo, eh!” protestò Noel, esasperato.
“Certo che sei proprio un bel tipo,
tu!”
Simon
soffiò il fiato tra le labbra con fare indifferente, e tese
la mano per
afferrare il whisky. Fece per dirigersi alla porta, ma
all’ultimo cambiò idea e
si voltò di nuovo indietro.
“Senti,
hai qualche sacco da prestarmi?” chiese, senza nemmeno
fingersi imbarazzato.
Noel
spalancò occhi e bocca a dismisura, raddrizzandosi sul
divano di soprassalto.
“Eeeh?
Ma dico per chi ti sei preso?” sbraitò irato.
“Sei davvero uno stronzo! Non hai
un minimo di decenza, razza di sbruffone e arraffone e…
Teh!” concluse,
cavandosi fuori dalla tasca un portafogli un po’ logoro, da
cui estrasse una
banconota. “Fatti esplodere il fegato e sparisci,
sanguisuga!” aggiunse
bizzoso, mentre lui incamerava il malloppo. Venti sacchi, mica male.
“Ehi,
almeno non ho rubato niente,” osservò lui, secco.
“Potevo svuotarti la casa
mentre dormivi,” precisò, altero.
Noel
sogghignò, poco convinto.
“Come
no… E pensavi di farlo russando?”
ridacchiò, ironico. “Tu non sei un
ladro,”
aggiunse, con fare paziente.
Le
labbra di Simon si schiusero nel primo sorriso della sua giornata, e
probabilmente l’unico.
“Ah,
no?” replicò, caustico.
Poi
gli voltò le spalle ed imboccò la porta.
Noel
sbadigliò rumorosamente, insonnolito, e gettò lo
sguardo fuori dalla finestra contro
cui rimbalzavano fitte le gocce di pioggia.
Era
solo mercoledì sera e ne aveva già le tasche
piene della sua settimana
universitaria. Ma l’esame della settimana successiva andava
assolutamente
passato, se voleva conservare intatta l’esosa borsa di studio
che gli passava
la Comunità Europea.
Sean,
Norman e Irene erano usciti a far cena con gli altri amici, e lui se ne
stava
da solo a studiare all’una meno un quarto. Era assolutamente
ingiusto che una
laurea costringesse un povero ragazzo ventiquattrenne a rinunciare al
meritato
divertimento.
Le
sue tetre elucubrazioni furono interrotte da una serie di colpi
provenienti dal
piano inferiore. Drizzò le orecchie, attento, e
sentì i colpi ripetersi:
sembrava che qualcuno stesse bussando ai vetri. Speranzoso, Noel
sorrise: forse
Shannon o qualunque altro amico era venuto a strapparlo alla monotonia
del suo
tomo di quattrocento e sessanta pagine.
Impugnò
le chiavi poggiate sullo scaffale dei libri e caracollò al
piano di sotto con
entusiasmo. Sorrise di getto alla porta a vetri, prima di bloccarsi
interdetto:
la persona che stava lì fuori, fradicia dalla testa ai
piedi, era il ragazzo
bruno e pallido che aveva scroccato il suo divano qualche sera prima e
che
aveva detto di chiamarsi Simon.
Aggrottò
la fronte e si avvicinò più lentamente, prima di
infilare la chiave nella porta
e socchiuderla.
“Che
ci fai tu qui?” chiese perplesso, scorgendo immediatamente i
segni di una
solenne sbronza sul viso dell’altro e nella sua postura un
po’ traballante.
“Fammi
entrare, invece di fare domande idiote,” biascicò
Simon prima di starnutirgli
praticamente in faccia. Aveva i capelli neri appiccicati alla fronte e
una
fiatata alcolica da stendere Gesù bambino nel presepe.
Noel
s’irrigidì, infastidito. Decisamente, quel tizio
non aveva senso della misura.
“Ma
vai a cagare!” commentò aggressivo.
“Trovati un hotel, amico.”
Fece
per richiudere la porta, ma Simon la spinse di scatto.
“Ho
chiesto…” iniziò in un ringhio, e Noel
si limitò a spingerlo automaticamente
indietro. In equilibrio già precario sulle gambe, senza
troppa lucidità, il
ragazzo si limitò ad ondeggiare e finire chiappe a terra sul
marciapiede, gli
occhi scuri accesi di uno stupore quasi infantile.
“No,
tu non hai chiesto!” sbottò
Noel rabbioso, prima d’interrompersi ad
osservarlo. Era lì per terra, completamente marcio, smunto e
magro. Non
sembrava in grado di fare nemmeno altri dieci metri e faceva di nuovo
un freddo
orrendo. Sospirò. “Va bene. Va bene,
entra,” sbuffò, scuotendo la testa in un
rimprovero a se stesso. Gli tese una mano che Simon spinse via
oltraggiato,
cercando di alzarsi da solo. Dopo qualche secondo di inutili tentativo
Noel si
limitò ad afferrare il suo avambraccio e tirarlo su di peso,
strattonandolo dentro.
“Tu
hai bisogno di bicarbonato e di un bagno caldo,”
sentenziò spazientito. Simon,
barcollando, si diresse automaticamente verso il bagno ma lui lo
trattenne.
“C’è un falso contatto, è
saltata la luce. Abbiamo la vasca, al piano di
sopra,” illustrò stoico.
Cinque
minuti dopo, Simon sedeva sul bordo della vasca in mutande, lo sguardo
vacuo,
un asciugamano sulle spalle, e parlottava tra sé tirando su
di naso, tremando
ancora di freddo. Noel controllò la temperatura
dell’acqua un’ultima volta
prima di chiudere il getto, poi si raddrizzò e
guadagnò la porta.
“Ti
lascio fare, cerca di non annegarti,” si congedò.
Simon annuì meccanicamente
liberandosi dell’asciugamano, e lui poté vedere il
segno delle sue costole
troppo marcato e la vita esageratamente sottile, prima di chiudere la
porta.
Denutrizione, poco ma sicuro.
Rientrò
in camera e riprese il libro, scorrendolo senza prestarvi la minima
attenzione.
Per la verità, non smetteva di chiedersi da dove fosse
saltato fuori quel
ragazzo assurdo.
Sembrava
avere seri problemi di dipendenza dall’alcol e, dalla stato
dei suoi vestiti,
si sarebbe potuto supporre che non ne possedesse altri. Probabilmente
non aveva
una casa, né soldi per mantenersi. Qualunque persona sana di
mente non
l’avrebbe mai e poi mai fatto entrare in casa propria
spontaneamente, aveva
tutta l’aria di uno sbandato di prima categoria. Forse era
anche pericoloso.
Aspettò
in quel modo più di un quarto d’ora, prima di
avvicinarsi e poggiare l’orecchio
contro la porta del bagno: non si udiva il minimo suono.
“Simon?”
azzardò incerto.
Un
improvviso sciabordio risuonò all’interno.
“Sì,
un attimo.”
Noel
ritornò in camera con uno sbuffo, ma dovette attendere
appena due minuti prima
che l’altro comparisse, infagottato in diversi asciugamani:
come suo solito,
s’era servito senza farsi problemi. Sembrava un po’
più presente.
“Va
meglio?” chiese Noel accennando un sorriso.
“Meglio
di che?” ribatté Simon, sulla difensiva.
Lui
scrollò le spalle senza rispondere, storcendo le labbra.
“Vado
a pisciare,” annunciò ignorandolo.
Fece
ritorno nel bagno: come previsto Simon non si era disturbato a svuotare
la
vasca e per giunta aveva allagato tutto. I vestiti che lui gli aveva
prestato
la domenica, ormai lerci, erano ancora appallottolati a terra. Noel li
imbracciò e li ficcò nel cesto della biancheria
sporca, prima di dare
un’asciugata in terra.
Quando
tornò in camera Simon gli dava le spalle, in piedi davanti
alla sua scrivania.
“Adesso
ho capito,” annunciò, con un freddo tono
sprezzante, indicando il suo libro
ancora aperto. “Sei un assistente fottuto sociale o qualcosa
del genere.”
Noel
scrollò la testa.
“Non
ancora,” rispose semplicemente. “E, prima che lo
dica, il fatto che tu apprezzi
o meno il mio futuro lavoro mi è totalmente
indifferente,” aggiunse baldanzoso.
Decise di abbandonare immediatamente l’argomento.
“Hai fame?”
Simon
non rispose, e lui lo prese come un sì.
Voltò
i tacchi e scese giù in cucina, spalancò il frigo
e cercò di che preparare un
panino. Trovò formaggio e prosciutto e si
affrettò a farcire il pane. Quando
però tornò in camera di nuovo, col piatto in
mano, trovò Simon accartocciato
sul suo letto, con tutti i suoi asciugamani drappeggiati addosso e
appallottolati, che dormiva il sonno dei giusti.
Sbuffò tra sé e
trattenne un sorriso.
“Sei
un po’ narcolettico, tu,” mormorò ilare,
posando il panino sul comodino. Poi
issò le sue gambe sul materasso, cercando di sistemarlo in
una posizione
umanamente naturale, e gli srotolò il piumone addosso.
Quindi prese il libro,
la coperta di lana in cima all’armadio e il suo pacchetto di
sigarette,
rassegnandosi a trascorrere la notte sul divano a piano terra.
Lo
svegliò, un indefinibile lasso di tempo dopo, la voce
perplessa di Sean.
“Noel?
Che ci fai qui?”
Sussultò,
aprendo gli occhi di scatto. Si era addormentato con la faccia sul
libro, mezzo
seduto.
“Ah…ciao.
Simon si è addormentato in camera mia,”
spiegò con un fare innocente.
Sean
lo squadrò di sottecchi senza fare commenti, ma Noel lo
sapeva troppo
intelligente per non nutrire sospetti.
“Si
può sapere da dov’è sbucato, questo amico?”
chiese infatti, con tono
dimesso. “Sembra un bel po’ strano.”
“Oh,
beh,” ciarlò Noel, “l’ho
conosciuto qualche tempo fa in birreria. È un
po’…incasinato,” buttò
lì, vago. Non gli piaceva mentire e da un certo punto di
vista sapeva di commettere un errore a non dire la verità
– dopotutto Simon poteva
essere pericoloso, e loro vivevano insieme – ma non era
sicuro di come avrebbe
reagito Sean, né tantomeno Norman.
Il
suo coinquilino ed amico comunque non sembrò troppo
convinto, ma annuì
brevemente.
“Così
fai pratica per il futuro,” commentò, vagamente
scherzoso. “Io vado a dormire,”
concluse, prima di imboccare le scale.
“A
domani!” salutò Noel, mettendosi sdraiato. Si
rannicchiò sotto la coperta e
aspettò il sonno per qualche minuto.
La
prima cosa che vide aprendo gli occhi fu un biglietto in bella mostra
sul
tavolino davanti a lui. Presi guanti arancioni, jeans scuri e
felpa blu, e
dieci sacchi nel cassetto della scrivania. Mettici più
formaggio in quel
panino, la prossima volta. S.
“Razza
di figlio di…!” sbraitò Noel scattando
a sedere, infuriato.