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Autore: clop clop    02/11/2010    5 recensioni
Anche se lei ancora non ne era al corrente, la vita di Jude e di tutta la famiglia stava per essere cambiata, quasi sconvolta, da una serie di avvenimenti, che si sarebbero succeduti, non senza colpi di scena, nell’anno 1968. L’anno della rivoluzione culturale, in cui i ragazzi sempre più spesso scappavano di casa con le loro chitarre e i loro sogni, sperando nell’indulgenza di qualche anima buona che avrebbe concesso loro un passaggio, vedendoli fare l’autostop sulle strade nere come l’inchiostro. L’anno in cui una ragazza con una passione così sfrenata per la musica, come Jude, non poteva essere risparmiata alle mille possibilità, che si aprivano come porte sul lungo corridoio della vita.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1. The beginning
 
 I Madison abitavano in una villetta vicina al centro di Londra. Era una casa a due piani, spaziosa e accogliente, circondata da un giardinetto all’inglese. I due coniugi, Dave ed Emily, vivevano lì da quando si erano sposati ed erano sempre stati dei vicini gradevoli e disponibili. Quelle stesse mura avevano assistito alla comparsa in casa di una nuova arrivata, Ellen, detta anche Ellie, la primogenita della coppia. Una bellissima bambina, come la definivano tutti coloro che la vedevano, i quali non potevano fare a meno di accarezzarle le guance rosee. In effetti Ellie era da sempre stata molto bella: gli occhi celesti, un po’ acquosi, risaltavano il suo viso pallido, incorniciato dai boccoli biondi. Tre anni dopo si era aggiunta alla famiglia un’altra bambina, Judith. Il suo nome, però, era stato subito abbreviato in Jude, forse proprio perché questo era un nome da maschio. Lei, infatti, si era sempre distinta per la sua vena ribelle e ostinata. C’era perfino chi dava la colpa ai suoi folti capelli color rosso rame, che le ricadevano liscissimi lungo le spalle. Sul naso all’insù e sulle guance facevano capolino alcune lentiggini. Gli occhi, di un azzurro intenso, erano spesso nascosti dalla frangetta, rigorosamente rossa.
 Anche se lei ancora non ne era al corrente, la vita di Jude e di tutta la famiglia stava per essere cambiata, quasi sconvolta, da una serie di avvenimenti, che si sarebbero succeduti, non senza colpi di scena, nell’anno 1968. L’anno della rivoluzione culturale, in cui i ragazzi sempre più spesso scappavano di casa con le loro chitarre e i loro sogni, sperando nell’indulgenza di qualche anima buona che avrebbe concesso loro un passaggio, vedendoli fare l’autostop sulle strade nere come l’inchiostro. L’anno in cui una ragazza con una passione così sfrenata per la musica, come Jude, non poteva essere risparmiata alle mille possibilità, che si aprivano come porte sul lungo corridoio della vita. Sì, perché il più grande sogno di Jude era diventare una cantautrice di successo e, perché no, di incidere anche dei dischi con le sue canzoni. E il suo sogno, in un modo o nell’altro, si sarebbe realizzato grazie ad un incontro che l’avrebbe segnata per sempre.
 

* * *

 
 Quella mattina di aprile la sveglia di Jude doveva essersi rotta, perché non era suonata. O forse era suonata e lei non l’aveva sentita. Fatto sta che erano le otto meno dieci e che lei in meno di un quarto d’ora sarebbe dovuta essere a scuola. Invece era ancora china sul pavimento per cercare di capire dove aveva lasciato le sue scarpe. E questo non sarebbe stato facile perché la sua camera era immersa nel disordine più assoluto. Sul pavimento erano sparsi oggetti di ogni sorta: dagli spartiti della chitarra ai guantoni da boxe, dai vecchi poster ormai consunti al suo primo quarantacinque giri di Elvis Presley. Ma delle scarpe nemmeno l’ombra.
 “Forse dovrei cominciare a fare un po’ di ordine qui dentro” pensò, mentre si rialzava e scuoteva via la polvere dai suoi jeans a sigaretta.
 Spalancò la porta della sua stanza e si avviò frettolosamente verso le scale che portavano al pianterreno. Ma non fece in tempo a percorrere mezzo metro che inciampò su qualcosa e cadde lunga distesa, con un clamoroso botto.
 -Ma che cazz…ah, ecco dov’erano finite!- esclamò, accorgendosi di essersi appena incespicata sulle sue Converse.
 -Hai perso qualcosa per caso?-
 La voce di Ellie proveniva da dietro alle sue spalle. Diffatti sua sorella era appoggiata alla porta del bagno con un’espressione divertita stampata sul volto. Jude finse di non essersi accorta del sarcasmo con cui le era stata rivolta la domanda.
 -No, l’ho appena trovato- rispose indicando il paio di scarpe.
 -Dovrebbero darti un premio per la caduta più spettacolare dell’anno- continuò Ellie sogghignando.
 -Ma cosa credi? Guarda che era tutto programmato- ribatté Jude, mentre si infilava le Converse.
 -Certo, come no. E ora mi dirai anche che sei in perfetto orario per la scuola?-
 -Senti, se sei qui solo per farmi la predica, puoi anche…- poi si interruppe un momento. -Ehi, anche tu sei in ritardo!-
 -No, stamattina ho due ore di buca- rispose Ellie con una smorfia. -Comunque se ti sbrighi può accompagnarti papà.-
 -Non sono degna di avere un passaggio da parte della Signoria Vostra?- chiese Jude rialzandosi in piedi.
 -La mia macchina serve alla Mutter- spiegò Ellie. -Ora muoviti, sennò si incazza di nuovo.-
 -Ma quanto è premurosa la mia sorellina! Scommetto che appena me ne vado correrà in camera mia a provarsi i miei nuovi stivali!-
 Ellie scrollò le spalle con un grugnito poco convinto e tornò in camera sua. Jude, invece, scese velocemente le scale che portavano di sotto.
 “Bene, devo arrivare a scuola in meno di tre minuti, non so come fare e non ho ancora fatto colazione” si disse una volta arrivata in cucina. Si guardò intorno pensando al daffarsi.
 “Ehi, chissà se sono avanzate quelle ciambelle di ieri…” pensò cominciando a frugare nella credenza.
 -Jude!-
 La ragazza trasalì a quella voce e si voltò di scatto.
 -Ehm…buongiorno anche a te, mamma.-
 Sua madre era lì davanti a lei, con le mani sui fianchi e la guardava con un’espressione di rimprovero.
 -Jude, insomma, dovresti essere a scuola a quest’ora!-
 -Già, dovrei…-
 Questo commento, però, non fece altro che peggiorare la situazione.
 -Insomma, signorina, quand’è che ti deciderai a prendere la scuola sul serio? Non voglio essere chiamata dalla presidenza per l’ennesima volta perché sei entrata di nuovo con un’ora e mezzo di ritardo!-
 -Quella volta non era colpa mia: mi ero solo fermata a parlare un po’ con Joel! E poi ti posso spiegare tutto- tentò di difendersi Jude.
 -Non c’è niente da spiegare. Ti conosco da diciassette anni e mezzo, Jude. A me non puoi darla da bere. E non credere che…-
 -Emily, che sta succedendo qui?- la interruppe il signor Madison entrando in cucina.
 Si soffermò a guardare la scena per una frazione di secondo.
 -Fammi indovinare: per caso sei in ritardo, Judy?- chiese alla figlia.
 -Esatto, e…- tentò di dire la signora Madison.
 -Bene, ti accompagno in macchina. Va’ a prendere la tua cartella- tagliò corto lui, interrompendo la moglie.
 -Grazie pa’!- esclamò Jude, felice di avere un pretesto per precipitarsi fuori dalla stanza.
 A volte si chiedeva come sarebbe stata la sua vita senza suo padre. Inutile dire che lo preferiva di molto alla madre, severa ed autoritaria. Lui era molto più comprensivo e aperto, tanto da sembrarle quasi un suo caro amico a volte. Era l’unico a chiamarla Judy. Lei era sicura di poter sempre contare su di lui. Spesso gli raccontava dei suoi problemi e passava ore a parlare con lui. D’altro canto suo padre faceva in modo di non farle mancare mai niente e la difendeva quasi sempre dalle ramanzine della madre, come in quel caso, per l’appunto.
 Infatti, quando Jude scese con la sua cartella a tracolla lo sentì ancora parlottare con sua madre a proposito della sua mancata puntualità.
 “Meglio tenersi fuori dai piedi” pensò e uscì dalla porta principale.
 Suo padre la raggiunse poco dopo in giardino e la fece salire in auto.
 -Lo sai che ha ragione, vero?- le chiese lui dopo un po’ che erano partiti.
-Posso accendere la radio, pa’?- lo ignorò Jude.
 -Fa’ pure- sospirò rassegnato suo padre.
 Jude armeggiò per un po’ con la radio dell’auto per riuscire a trovare la stazione che cercava, poi finalmente si appoggiò allo schienale del sedile soddisfatta. La voce dello speaker risuonò nell’auto.
 -E proprio oggi è previsto il ritorno in Inghilterra della famiglia Lennon, dopo circa due mesi trascorsi all’ashram indiano del guru Maharishi Mahesh Yogi. Dopo il ritorno di Starr e McCartney, John Lennon, la moglie Cynthia e il figlio Julian arriveranno a momenti all’aeroporto di Londra. E tra non molto è previsto anche il rientro della famiglia Harrison. Restate con noi per le ulteriori news!-
 In quel momento la macchina si fermò davanti al liceo di Jude.
 -Buona giornata, Judy- le disse suo padre, mentre lei apriva lo sportello.
 -Anche a te, papà- rispose lei con un sorriso, uscendo.
 La macchina di suo padre rimase ferma lì, mentre lui guardava quella che un tempo era stata la sua bambina voltarsi verso l’edificio e attraversare il cortile quasi vuoto, dove facevano capolino i primi fiori primaverili. Appena la figura snella di Jude ed i suoi capelli rossi svolazzanti varcarono l’ingresso e vi scomparvero il motore si rimise in moto e l’auto finalmente partì.
 

* * *

 
 -John!- singhiozzò ancora Cynthia, nascondendo il volto tra le mani. -Oh John!-
 Aveva gli occhi rossi e gonfi e le sue guance erano rigate dalle lacrime. La sua esile figura era scossa dai singhiozzi continui, che non riusciva a trattenere. Piegò la testa verso il basso, in modo che i morbidi capelli biondi nascondessero la sua espressione afflitta all’uomo che le sedeva accanto. L’uomo di cui era ancora innamorata dopo così tanto tempo. L’uomo che più volte aveva ferito i suoi sentimenti e l’aveva tradita. L’uomo che ormai riconosceva a stento. Il suo John. John Lennon.
 -John, come…come hai potuto? Non hai pensato a me? Non hai pensato a Julian?- balbettò ancora Cynthia, tra i gemiti.
 Già, il piccolo Jules. Il loro unico figlio, che dormiva profondamente in braccio a Cynthia, con un’espressione beata sul viso, ignaro di quello che di lì a poco sarebbe successo. Quel bambino che lei amava così tanto e che lui trascurava così spesso ultimamente.
 -Ha solo cinque anni, John! Come faremo a spiegarglielo? E lui ti vuole così bene! John, ti prego rispondimi!- eslamò lei disperata. -Dimmi almeno perché! Perché vuoi lasciarci? Perché? E per lei, vero?-
 John era ubriaco. Non si ricordava nemmeno perché aveva bevuto. Forse per la frustrazione di essere rimasto due mesi così lontano da lei. Forse per la delusione di essere stato preso in giro da un maniaco che si spacciava per un guru. Forse perché il suo matrimonio stava andando a puttane e lui non stava facendo niente per migliorare la situazione. Stava solo scappando da un rapporto che gli sembrava troppo scontato e convenzionale. Stava scappando da tutte quelle responsabilità che aveva dovuto caricarsi sulle spalle da tanto, troppo tempo. Si stava comportando da codardo. Sì, ecco cos’era, un codardo. Aveva bevuto perché non voleva guardare in faccia alla realtà. Ma poi che colpa ne aveva lui? La colpa era solo di Cynthia. Cosa aveva fatto lei quando lui era caduto in quel periodo nero? Niente. Non era stata capace di aiutarlo. Non era stata capace di fare niente. Di cosa si lamentava, allora, se lui ora voleva troncare il matrimonio? Era solo colpa sua. Sì, era colpa sua.
 In quello stato le aveva confessato tutte le sue infedeltà, durante il viaggio in aereo che li stava riportando a Londra. Non si era fermato nemmeno quando sua moglie aveva cominciato a piangere convulsamente e a disperarsi. Non aveva nemmeno cercato di consolarla.
 -John, è per Yoko, vero? E’ così, lo so. Ma perché? Perché, cazzo?- continuò Cynthia afferrandolo per un braccio.
 John la guardò negli occhi. Dentro poteva leggerci tutto il dolore e la disperazione che la portavano a comportarsi così. E per un momento quasi gli dispiacque. Ma tornò subito a ricordarsi che era tutta colpa sua. Si liberò dalla presa di Cynthia con uno scossone e, voltata la testa, si chiuse in uno dei suoi abituali mutismi.
 Cynthia continuò a piangere silenziosamente, appoggiandosi al finestrino. Ogni tanto si fermava, respirando profondamente, ma senza riuscire a fermare il flusso delle lacrime che silenziose continuavano a bagnarle il viso. Non era lo stesso viso della ragazza che sei anni fa aveva sposato l’uomo che amava più di ogni altra cosa. Ora si intravedevano nuove rughe sulla fronte e attorno agli occhi. Ora il suo sguardo era più consapevole ed esperto, era lo sguardo da una donna che aveva ricevuto spesso delusioni e che aveva imparato a cavarsela da sola. Ma ora, con queste rivelazioni, le sembrava proprio che il mondo le crollasse addosso.
 Andare in India le era sembrata una buona idea. Si era illusa, che questo avrebbe potuto migliorare il loro rapporto. Una settimana dopo il loro arrivo all’ashram, John aveva chiesto di essere sistemato in un’altra stanza, da solo. Poi aveva cominciato ad ignorarla. Cynthia aveva sospettato che intrattenesse una corrispondenza con Yoko Ono. L’artista concettuale che aveva conosciuto da poco, di cui parlava sempre. La donna per la quale aveva deciso di lasciarla.
 Il pilota annunciò l’arrivo all’aeroporto. Tutti i passeggeri, John compreso, si accalcarono nel corridoio stretto dell’aereo per scendere il prima possibile. Cynthia si asciugò gli occhi prima di svegliare Julian.
 -Jules! Jules! Tesoro, svegliati. Siamo arrivati. Torniamo a casa ora.-
 Gli parlava con una dolcezza infinita, come solo una madre può fare. Il piccolo aprì lentamente gli occhi e sbadigliò.
 -Mamma, dov’è papà?- chiese con una vocina flebile appena sveglio, guardandosi intorno.
 -E’…è uscito prima per prendere le nostre valigie, tesoro. Non preoccuparti.-
 La sua voce tremò quando pronunciò l’ultima frase. Jules non doveva saperlo, ma c’era da preoccuparsi, e anche tanto.
 -Ah- fece Jules, rassicurato. -Mamma, ma stavi piangendo?- aggiunse notando gli occhi rossi della madre.
 -No, tesoro. E’ che sono stanca e mi lacrimano gli occhi. Su ora andiamo!- tagliò corto lei.
 Così si avviò all’uscita stringendo saldamente la mano del piccolo, cercando di reprimere l’angoscia che ormai l’accompagnava ovunque come un silenzioso fantasma.
  
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