File II: l’abito
non fa il monaco (io non sono lui)
Perché
viviamo?
Perché
moriamo?
…Credevo che
almeno gli adulti lo sapessero.
Avanzò
fino al portone giusto, suonando al citofono.
Aveva
indossato qualcosa di comodo, passando da casa per evitare di andare in giro
con la divisa scolastica, che avrebbe forse attirato più attenzione del
dovuto: aveva optato per jeans scuri, felpa un
po’ larga che probabilmente era indossata sopra una maglia che restava
però invisibile in quel modo.
Persino la
borsa a tracolla era anonima.
Non ci fu
una voce in risposta, ma il gracchiante suono del
citofono che veniva riagganciato subito dopo che il portone era stato aperto.
Delle mani
entrambe in tasca, una fece capolino per fare
pressione sull’uscio quanto bastava per sgusciare all’interno;
lasciò che si richiudesse alle proprie spalle e si mosse automaticamente
verso la rampa di scale sulla sinistra, salendo gli scalini in mattonato bianco
reso beidge dalla scarsa illuminazione, ignorando il corrimano in nero lucido.
Percorse
un paio di rampe, voltando poi su un piccolo corridoio e raggiungendo il
pianerottolo che era la sua méta: la porta era già accostata e in
questo – oltre che nella targa posta subito al di sopra
del campanello – si riconosceva la natura di studio medico
dell’abitazione della quale varcò la soglia.
Sulla
sinistra, vi era una piccola stanza divisa dal resto dell’appartamento da
un arco: trattandosi del luogo in cui si trovavano la
segretaria, la sua scrivania e – alle spalle di lei – dei
cassettoni che fungevano probabilmente da archivio dei documenti, non vi era
necessità che fosse chiuso. A maggior ragione perché i pazienti
dovevano spesso e continuamente rivolgersi a lei per pagare, per i nuovi
appuntamenti e via dicendo.
Alzò
appena una mano in sua direzione ma la donna – sulla cinquantina e
abbastanza acida per i suoi gusti, specie quando era in
giornata no – era china su dei documenti e non si curò di lui.
Abituato
ormai alle visite come quella, si mosse direttamente verso
destra, percorrendo un altro piccolo corridoio ed entrando nella stanza
sulla sinistra.
Si
trattava della sala d’attesa: non grandissima, era tuttavia accogliente ed impersonale come tutte le sale d’attesa degli studi
privati o pubblici.
Pianta quadrata, una decina di sedie dall’aria tutto sommato
comoda, un tavolinetto in fondo con delle riviste bene impilate su di esso. La finestra – sul fondo e
di dimensioni simili a quelle della porta sempre aperta – faceva
abbastanza luce e ai propri piedi ospitava una delle due piante presenti. L’altra
era ad un angolo opposto, vicino alla prima sedia.
Vi si
sedette di fronte, senza prendere alcuna rivista: era raro che ci fosse così tanto da aspettare da aver bisogno di una
lettura per passare il tempo; la cosa era dovuta anche al fatto che si trattava
di andare sempre su appuntamento e che, in ogni caso, c’era un tempo
limite di seduta.
E il
dottore difficilmente sforava, se non di qualche minuto.
Ci volle
poco, infatti, perché sentisse la porta dello studio privato del medico
aprirsi e due voci provenire dall’interno: «La
ringrazio, dottore. Allora ci vediamo la prossima settimana.»
sentì dire, riconoscendo una voce femminile che gli parve di riconoscere,
cosa che il medico confermò poco dopo quando le rispose.
«Di
nulla, Kamijou-san. Mi raccomando su cosa ci siamo detti: la voglio qui
sorridente e tranquilla la prossima settimana, intesi?»
la incalzò affabile.
Aveva
scoperto dopo alcune volte in cui andava lì, che Kamijou – di cui
ignorava il nome, che non aveva mai colto – andasse lì praticamente i suoi stessi giorni e fosse quasi sempre
l’appuntamento prima del suo.
Non aveva
mai fatto domande, sia perché non gli interessava poi molto, sia
perché il dottore in quanto tale aveva il
segreto professionale da rispettare; gli pareva di aver capito però,
dagli stralci di conversazione che coglieva in momenti come quello in cui
Kamijou-san si congedava, che doveva essere qualcosa di simile alla
depressione.
Sentì
dei passi allontanarsi e poco dopo Kamijou-san – francamente non gli dava
più di diciotto anni – passò davanti alla sala
d’attesa: vi diede un’occhiata involontaria all’interno e
parve riconoscerlo. Abbozzò un sorriso leggero e chinò il capo in
sua direzione in cenno di saluto. Ricambiò dopo essersi alzato.
Quello era
il massimo del contatto che lui e quella ragazza avevano avuto: un semplice
salutarsi quando si incrociavano per quella manciata
di secondi.
Uscì
dalla sala d’attesa, occhieggiando la segretaria che si era sporta e che
inquadrandolo gli fece cenno di accomodarsi dal dottore. In pochi passi fu
sulla soglia dell’ufficio privato dell’uomo e bussò piano
contro lo stipite per attirarne l’attenzione più che altro.
Lui, chino
su dei fogli che stava evidentemente finendo di compilare e che erano
probabilmente la scheda personale di Kamijou, si limitò ad un impersonale “avanti”.
Eseguì,
entrando del tutto e richiudendosi la porta alle spalle; quando si voltò
nuovamente, il medico era tornato attento e gli stava rivolgendo il solito
sorriso cortese che riservava sempre un po’ a tutti i suoi pazienti,
essendo un uomo di indole pacata di suo.
Con un
cenno della mano gli fece segno di accomodarsi ed eseguì anche quello:
si sedette sul divanetto a due posti dove si sistemava
sempre, lasciando libera la poltrona dove in breve avrebbe preso posto
l’altro. Lasciò scivolare la tracolla lungo la spalla fino a
terra, dove si posò mollemente; si accomodò meglio mentre il
dottore si accomodava a sua volta, una cartelletta in
mano e una penna nell’altra.
Si sistemò gli occhiali con un gesto meccanico e si rivolse
a lui, le labbra incurvate in un sorriso: «Allora, Aoba-kun? Cosa mi
racconti questa settimana, è successo qualcosa di bello?»
«Mh,
nulla di particolare, Honda-sensei.»
Aprì
gli occhi lentamente, anche se non nello stesso modo in cui li apriva quando si
“svegliava” la mattina: la cosa era probabilmente dovuta alla
differenza tra quando era lui stesso ad andare in modalità
stand by, rispetto a quando come in quel caso vi era
stato quasi forzato.
Gli ci
volle una semplice occhiata a destra e a sinistra per notare che non era affatto a casa col master: le pareti erano diverse
e, anche solo da un secondo sguardo generale, era palese la differenza di
arredamento. La casa del master, dove viveva con lui, era in stile occidentale:
quell’abitazione, o almeno la stanza in cui si trovava in quel momento,
aveva il tatami1 , e
degli shoji2 .
Si mise a
sedere, accertandosi che fosse tutto funzionante come Izaya gli aveva insegnato
a fare in caso di necessità: o perlomeno, iniziò la procedura e
fu interrotto quasi nello stesso istante. Uno degli shoji fu fatto scorrere, e
la figura che apparve la registrò come Hanejima Yuhei, un famoso idol in
voga in quel momento – così aveva imparato dalla tv.
Rimase in
silenzio, osservandolo e il castano per contro non parlò subito:
lasciò lo shoji aperto, sedendosi sul tatami, guardandolo privo di qualsivoglia espressione.
Psyche
chinò appena il capo lateralmente, incuriosito: non aveva dati al riguardo, perciò era probabile che il master
non avesse contatti con quell’uomo. Di conseguenza, il suo viso in teoria
non avrebbe dovuto dire nulla al castano.
«Tu
sei Orihara Izaya?» domandò, senza mutare espressione, il tono
anch’esso piatto.
Psyche ne
fu confuso, ma mise in pratica uno degli ordini dati da Izaya stesso: quando lo
scambiavano per lui, e Psyche non li trovava nella banca dati che lo stesso
Orihara aveva personalmente aggiornato, allora non doveva dire niente di
troppo.
«Perché
Hanejima Yuhei lo vuole sapere?» replicò invece di rimando.
L’altro non parve sconvolgersi più di tanto, né impegnarsi
a mentirgli: «Mio fratello ti ha trovato, e dice
di conoscerti. Ma dice anche che, per qualche motivo,
non gli sei sembrato tu.» spiegò semplicemente in tono piatto.
Psyche non
aggiunse nulla riguardo sé: «Tuo fratello?»
«Heiwajima
Shizuo.»
«Ma
avete cognomi diversi.» ribatté Saike, infantilmente incuriosito
sebbene non lo desse a vedere – Izaya lo aveva
messo in guardia diverse volte, per occasioni come quella.
«Hanejima
Yuhei è solo un nome d’arte.» chiarì il castano.
«E
allora come ti chiami?»
«…Heiwajima
Kasuka.»
Saike lo
memorizzò immediatamente, fra quei dati di cui riportava fedelmente ogni
cosa al master; ciò che lo distrasse – e che, lo avrebbe scoperto
poi, lo tradì – fu l’arrivo di una seconda figura.
Alta, si
trattava di un uomo: capelli biondi, pelle chiara, indossava un kimono sui
colori bianco e azzurro; la figura elegante, l’espressione un po’
apatica forse, nella sinistra teneva quella che Saike aveva imparato a
riconoscere come un oggetto abbastanza vecchio, del Giappone di una volta. Una
pipa fine e lunga, il manico in legno, la parte per
posare la bocca e per far uscire il fumo in metallo.
Vi
riconobbe lo stesso Shizuo che aveva intravisto prima di perdere conoscenza.
«Shizuo?»
si interrogò – eliminando il
“san”, ora che era cosciente, poiché Izaya non lo aveva mai
chiamato con l’onorifico.
Il biondo si
accigliò appena, come se fosse perplesso da quell’appellativo; fu
Kasuka il primo a rivolgersi a lui, dopo aver sostato a lungo con lo sguardo su
Saike, quasi per studiarne il volto e i cambi di espressione.
«Contatterò io mio fratello, devo assentarmi adesso. Ci
vediamo presto, Tsugaru.» disse, ancora una
volta senza inflessioni particolari del tono di voce.
Il biondo
– Saike si sentì confuso quando realizzò
che Kasuka si era rivolto a lui con il nome di “Tsugaru” e non con
“Shizuo” – si limitò ad annuire e a chinare appena il
capo, mantenendo un modo di fare calmo e tranquillo. Si sedette quindi prendendo il posto di Kasuka, mentre il castano usciva dalla
stanza.
«Al
diavolo, al diavolo, al diavolo, al
diavolo…» ripeté come se la cosa lo aiutasse a smaltire
l’irritazione che invece si stava accumulando, mentre avanzava verso
l’ufficio dove lo avevano richiamato.
Aprì
la porta senza bussare, e la richiuse praticamente sbattendola:
nonostante questo, l’occupante della stanza non sobbalzò, quasi
fosse quella ordinaria amministrazione per lui.
«Ne,
Shizuo, vorrei non dover sostituire la porta per la seconda volta in questo
mese.» gli fece presente Tom, seduto dietro la scrivania e con lo sguardo
che da dietro le lenti era ancora su dei documenti.
Shizuo
fece schioccare le labbra in un verso stizzito, sedendosi malamente su una
sedia con l’aria di uno che ha un umore decisamente
pessimo.
Solo
quando gli fu di fronte, Tom alzò lo sguardo su di lui, indagando sul
motivo che potesse rendere il biondo così nervoso.
Tanaka Tom
era uno dei maggiori dirigenti amministrativi della compagnia P-Desire – dove la “P”
era naturalmente l’abbreviazione di Persocom. Una delle maggiori industrie
di pc artigianali insieme al Pe-Shop (suo
concorrente), vantava una struttura più grande e molti più
dipendenti.
Delle due
era stata
Heiwajima
Shizuo si occupava di mansioni diverse: alle dirette dipendenze di Tom, andava
e veniva dalla società e in pochi sapevano per fare cosa. Le voci erano
tante e tutte inconsapevolmente sbagliate.
C’era
chi sosteneva che il biondo fosse la guardia del corpo di Tom – unica
cosa esatta solo per metà in realtà – e chi invece era
più che certo che si trattasse di uno dei venditori al singolo, sebbene
l’indole fosse piuttosto… discutibile.
Ciò
di cui in realtà si occupava Heiwajima Shizuo, era per certi versi
più complesso e per altri – considerando l’indole del biondo
– qualcosa di molto semplice.
«Dannata
pulce maledetta, lo ammazzo, giuro che lo ammazzo quel—»
Tom
sospirò rassegnato: «Cos’ha combinato questa volta Orihara
Izaya del Pe-Shop?»
Un
inquietante “crack” suggerì a Tom che aveva bisogno di una
matita nuova: «Di nuovo a mettere quelle fottute mani nella banca dati o
quello che cazzo sono quei così pieni di numeri
sui computer che ci sono di sotto! Fanno tutti un fottuto casino!» sbraitò e Tom comprese che sì, i
documenti per un attimo dovevano essere lasciati da parte.
Alzò
lo sguardo sul biondo, dedicandosi completamente a lui: in un certo senso non
era mai facile capire l’entità di un danno ai dati dell’azienda
quando a fare “rapporto” era Shizuo. Il
biondo non era propriamente un genio della tecnologia, nonostante i tempi
fossero quelli che erano e gran parte delle azioni di un essere umano fossero
ormai improntate proprio sui computer – persocom o pc “standard”
che fossero.
Di
conseguenza ci si ritrovava a chiedersi quali dei possibili problemi interni
dovuti ad un singolo chip corrispondessero a
ciò che Shizuo chiamava indistintamente “quei cosi pieni di
numeri”. Potevano essere un elenco ordini di
clienti come avrebbe potuto benissimo trattarsi di un grosso problema di
programmazione dei persocom.
Pazientemente,
Tom sospirò: «Fanno casino, eh? Quanto
panico c’era da uno a dieci?»
domandò cauto. Shizuo lo fissò come se avesse dovuto mangiarselo
vivo – fortuna che Tom aveva imparato a riconoscere in quello sguardo un
semplice “ho le palle girate ad elica” e
non una minaccia di morte rivolta a lui personalmente.
«Tanto
da farmi venire voglia di pestarli.» borbottò nervoso il biondo.
Il che,
tradotto, significava “molto panico” e quindi “problema di
una certa entità”.
«Ho
capito.» replicò Tom, tornando con lo sguardo sui documenti:
«Torna a casa Shizuo, e scendendo se puoi avvisa
che tra poco vado a vedere di che danno si tratta.» assicurò.
Il motivo
per cui, pur avendo dato un nome preciso al problema
che sembrava esserci ai piani inferiori non c’era stata una denuncia, era
che “Orihara Izaya” era una supposizione.
E sebbene
per molti fosse una certezza più che un’ipotesi, se davvero era
stato il castano a complicargli sempre la vita, era stato così bravo da non lasciare la minima traccia telematica del suo
passaggio. E, tecnologia più sviluppata o meno, da che mondo era mondo non si accusava senza prove.
E nessuno
voleva uno scandalo come un’accusa senza fondamenti verso un membro in
vista di un’azienda altrettanto in vista nel
mercato più sviluppato degli ultimi anni.
Shizuo
grugnì in risposta alle direttive di Tom,
facendo per alzarsi: «Ah, Shizuo» lo richiamò l’altro
«come sta Tsugaru-kun?» s’informò.
Il biondo
si voltò, osservandolo con le mani in tasca: «Normale.
C’era Kasuka con lui stamattina.»
replicò.
Tsugaru
era il lavoro di Shizuo: si trattava di un persocom creato dall’azienda
dopo uno dei primi simpatici attacchi del cosiddetto “hacker
misterioso” – che misterioso non era poi tanto.
Si era
reso necessario salvare e rendere inaccessibili le informazioni più
segrete dell’azienda ed era parso quasi scontato rendere un persocom una banca dati; tra l’altro, nessuno lo
diceva ma tutti lo immaginavano, o lo avevano pensato almeno una volta: come
poteva un’azienda come
Un
progetto del genere, la produzione di persocom utilizzati non solo in altri
negozi e catene degli stessi, ma anche in lavori che una volta sarebbero stati
tipici solo degli esseri umani, richiedeva delle spese a dir poco enormi
all’inizio.
E
considerando che nessun miliardario conosciuto era – almeno ufficialmente
– a capo della P-Desire… non era ovvio cosa
rimanesse? Soldi sporchi.
O comunque
poco puliti.
Era nato
Tsugaru – più precisamente Tsugarujima
Kaigyou Fuyugeshiki – non appartenente a nessuna linea di produzione
poiché un pc artigianale unico nel suo genere. Si era stati a lungo
indecisi sull’involucro da usare per lui, ossia quale aspetto esteriore
dargli e soprattutto a chi affidarlo.
Era stato
proprio Tanaka Tom a proporre Heiwajima Shizuo: il biondo, che conosceva fin
dai tempi della scuola, aveva fatto lavori di tutti i generi e visto ogni ombra
che Ikebukuro e la città nascondevano.
Passato
dalle gang – in giovanissima età – al controllo di
determinate aree, non c’era persona in tutta Ikebukuro che non lo
conoscesse di fama; e soprattutto non ce ne era nessuna sana di mente che
avrebbe avuto il fegato di mettersi contro di lui, specialmente se lo scontro
minacciava di arrivare ad un piano
“fisico”.
Heiwajima
Shizuo era qualcosa di distante da un essere umano – per quanto crudele
potesse essere dirlo o pensarlo – quasi quanto i persocom che andavano
tanto di moda: era indubbiamente dotato di una forza
sovrumana e anche i piani alti della P-Desire se ne erano convinti piuttosto
facilmente.
E una
volta deciso di affidare Tsugaru alla protezione di Heiwajima Shizuo non vi era
stato alcun dubbio sull’aspetto da dargli: la cosa più sensata era
stata crearlo ad immagine e somiglianza della persona
che avrebbe dovuto proteggerlo.
In questo modo, avevano sostenuto i dirigenti dei
piani alti persino al di sopra di Tom, se anche accadesse mai che Tsugarujima
girasse da solo, con l’aspetto che si ritrova resterebbe lontano dai guai
abbastanza a lungo da essere ritrovato dalla sua guardia.
Shizuo non
era propriamente stato felice della cosa.
Grottesco,
lo aveva definito – la scelta, non tanto il persocom – e nulla lo
aveva convinto del contrario: né la scelta dei suddetti dirigenti di far
sì che Tsugaru rispondesse ai suoi ordini come se Shizuo ne fosse il
master, né l’assicurazione che come programmazione di default
Tsugaru non avesse alcun input di uscire dalla casa di Heiwajima.
Nonostante
quello però, Shizuo aveva accettato; non era propriamente abituato al
fare di Tsugaru, al modo in cui gli si rivolgeva o era servizievole nei suoi confronti, ma Shizuo nemmeno una volta aveva minacciato di
mandarlo via.
Si credeva
per convenienza, in quanto veniva pagato
profumatamente per quel compito ritenuto dall’azienda di primaria
importanza.
In
realtà – era chiaro, almeno per Tom – Shizuo non era capace
di cacciare via qualcuno ritenuto “utilizzabile perché non
umano”.
Probabilmente,
lui era stato considerato esattamente come Tsugaru per così
tanto tempo che, alla fine, la somiglianza che vi aveva scorto non era
stata solo fisica.
Da quando
aveva sentito la porta chiudersi, aveva riportato lo sguardo su quel ragazzo
biondo che si era seduto al posto di Kasuka; questi non aveva detto nulla,
portando lo sguardo quasi subito fuori dalla finestra alle sue spalle e Saike
si era fatto quindi coraggio e aveva cercato di analizzarlo come poteva senza
dare nell’occhio.
Però
dopo venti minuti di osservazione non aveva capito granché:
figurativamente continuava a rispondere alla voce “Heiwajima
Shizuo” registrata nei suoi dati anche se con abiti diversi – ma
gli umani se li cambiavano ogni giorno gli abiti, quindi non era nulla di indicativo per lui.
«Che
c’è?» fu distolto dalla sua ricerca interna dalla voce del
biondo che, pur non voltandosi, si stava evidentemente rivolgendo a lui.
Awww,
ora che cosa avrebbe dovuto fare? Il master si era raccomandato di non parlare affatto ad Heiwajima Shizuo se lo avesse
incontrato, asserendo che sarebbe stato pericoloso per lui – Psyche
– farlo. E che il biondo avrebbe tentato di fargli del male, anche!
Eppure ora
gli stava rivolgendo una domanda, perciò… perciò… perciò…
«…»
rimase in silenzio, cosa che sembrò – tragicamente, per lui
– attirare maggiormente l’attenzione dell’altro che
spostò lo sguardo su di sé.
Non
sembrava però arrabbiato, nonostante nel suo
database quella sembrasse essere l’emozione predominante
nell’essere umano da cui avrebbe dovuto tenersi alla larga.
«Tu
non sei Orihara Izaya.»
…E
quella non sembrava una domanda.
Buaaah,
era stato scoperto e aveva messo nei guai il master, anche se era stato attento
ad ogni passo, e ogni sguardo e ogni movimento! Aveva controllato le risposte
che dava a tutte le persone che aveva incrociato,
allora perché aveva fatto questo guaio?
Senza
accorgersene, aveva portato le mani fra i capelli, serrando gli occhi quasi
fosse in arrivo chissà quale punizione corporale – non che
Izaya-san le usasse, il master era buono! – che però non giunse affatto.
L’unica
cosa che lo raggiunse fu la voce del biondo che, senza alcuna inflessione
particolare rispetto a poco prima diede nuovamente voce ad
un: «Che c’è?» al quale Saike aprì gli occhi,
palesemente perplesso o abbastanza da farlo notare con un’espressione del
viso assolutamente non da Izaya.
«Perché
dici che non sono Orihara Izaya?» chiese, modulando l’atteggiamento
in maniera che somigliasse a quello di Orihara appunto.
Il biondo
allungò una mano che, quando fu in corrispondenza del viso di Saike,
portò quest’ultimo a chiudere di nuovo gli occhi, istintivamente.
Sentì
la maglia alzarsi all’altezza del fianco poco dopo e subito aprì
gli occhi, portando le mani a fermare quelle di quello sconosciuto: ormai
innegabilmente agitato e totalmente dimentico di doversi comportare in modo da
non destare sospetti, piagnucolò un «Kyaaaa,
non spogliare Psyche, non spogliarlo, non
spogliarlo!» la cui voce era chiaramente impaurita.
Il biondo
assunse un’espressione diversa finalmente, perplessa quanto quella di
Saike poco prima. Tirò appena la stoffa che teneva fra le dita, quanto
bastava per attirare l’attenzione dell’altro su quel punto del suo
corpo.
«Hai
un codice. Solo i persocom ce l’hanno.»
gli fece notare, come se fosse abbastanza ovvio che l’aveva riconosciuto
come pc di forma umana per nessun motivo oltre quello.
Parole
alle quali Saike guardò il segno, poi Tsugaru, poi il segno.
Almeno, prima di affondare la faccia nel cuscino – o nascondere
la testa sotto di esso.
«Lasciami
andare via Shizuo-san, lasciami andare viaaaa!» esclamò ormai nel panico completo.
Tsugaru
sospirò nuovamente.
«Non
sono Shizuo.» replicò tranquillamente, calmo.
Psyche
parve sentirlo chiaramente, perché spostò il cuscino
quanto bastava a guardare l’altro da una presunta – per lui –
distanza di sicurezza.
«…Non
sei Shizuo-san?» ripeté sulla difensiva, evidentemente ancora poco
convinto.
«No,
Shizuo è il mio master.» chiarì.
«Psyche
non ci crede!» ribatté testardo, facendosi un po’ di
coraggio – ma guardandolo sempre da sotto il cuscino, in parte.
Il biondo
sospirò, e Saike era pronto a rituffarsi con la testa sotto il piccolo
guanciale, come se questo fosse una difesa assoluta e impenetrabile poi; non ce
ne fu bisogno, perché tutto ciò che il biondo fece
fu allargare appena l’apertura del kimono leggero che indossava,
mostrando sul fianco – opposto rispetto a quello di Saike – un
codice simile, sebbene composto da diverse lettere e numeri.
«Shizuo-san
è un persocom come Psyche!» asserì tutto convinto come se
quella scoperta risollevasse le sorti del mondo intero.
Tsugaru
alzò un sopracciglio: «Ho detto che non sono Shizuo.»
«Allora
il tizio che somiglia a Shizuo-san è un persocom come Psyche!»
modificò la frase – parve non accorgersi che il punto non era
comunque quello: «Ah… ma se non sei Shizuo-san
allora chi sei? E perché sei uguale a lui? Anche tu sei fatto uguale al
tuo master come Psyche? Perché Psyche è con te?»
chiese a ripetizione, l’espressione ingenua sul volto.
«Tsugarujima
Kaigyou Fuyugeshiki. Sono il persocom di Heiwajima Shizuo.»
asserì: «Sono fatto così perché il master mi ha
voluto così. Sei qui perché il master ti ha trovato.»
«Che
nome lungo…» fu il solo commento di Psyche, il che rese chiaro quale delle quattro informazioni fosse
effettivamente giunta a destinazione: «Ah, ma non è possibile che
Psyche sia stato trovato da Shizuo-san! Se fosse così, Psyche sarebbe
stato distrutto!» assicurò con
espressione decisa.
Tsugaru
parve nuovamente perplesso: «Perché il master avrebbe dovuto
distruggerti?»
«Perché
il master di Psyche ha detto che se Psyche avesse incontrato Heiwajima Shizuo
sarebbe dovuto scappare. Shizuo-san vuole fare del male a Psyche, così
ha detto il master.» spiegò, assumendo un
broncio involontario.
Tsugaru
parve riflettere sulla cosa, chiudendosi nel silenzio per diversi istanti.
«Ah.
Deve essere perché sei uguale a Orihara Izaya,
e il master cerca sempre di fare più male possibile a quella persona.
Così è segnato fra i miei dati.»
convenne infine.
Capì
che doveva essere stata una pessima scelta di espressione quella di “fare
più male possibile” quando sul viso di Psyche intravide quella che
era indubbiamente l’espressione di un bambino che stava per scoppiare in
lacrime.
«Ehm…»
indugiò, totalmente estraneo a quel tipo di reazioni e al modo di
contenerle: «Però si è accorto che
tu non eri lui. Quindi non penso ti farà nulla.»
cercò di rimediare.
Psyche
parve sollevato solo in minima parte.
«Ti
chiami Psyche?» indagò, osservando l’altro annuire appena.
«Psyche
si chiama “Psychedelic Saike”. È solo il master che mi
chiama Psyche-chan.» asserì con un certo
orgoglio.
«Come
ti posso chiamare?» fu quindi l’ovvia domanda che gli rivolse
Tsugaru, sulla quale l’altro non ebbe bisogno di soffermarsi più
di tanto: «Saike.» asserì, cercando di stare composto e
darsi un contegno – cosa abbastanza difficile considerando il recente
nascondino sotto il cuscino, ma non parve considerarlo.
«Psy—Saike quanto dovrà restare qui?»
indagò quindi, correggendosi nell’usare il nome con cui gli aveva
permesso di chiamarlo; Tsugaru tacque, probabilmente soppesando la cosa in base
agli ordini ricevuti da Shizuo.
«Il
master mi ha ordinato di non lasciarti assolutamente andare, se avessi scoperto
che eri Orihara Izaya. Ma non mi ha detto nulla, nel
caso non fossi stato lui.» dichiarò infine, osservando Psyche
inclinare la testa lateralmente, segno che probabilmente per lui non era una
risposta abbastanza chiara da permettergli una qualsiasi decisione.
«Penso
tu possa andare via.» aggiunse quindi Tsugaru, alzando un sopracciglio
perplesso e sperando che così fosse stato abbastanza chiaro.
Il sorriso
felice di Psyche a quelle parole fu una risposta eloquente.
Il più
piccolo – era di diversi
centimetri più basso – si alzò quasi di scatto, rinvigorito;
lo vide stiracchiarsi per poi pronunciare: «Allora Psyche può
tornare dal master!» tutto felice. Tsugaru rimase nella sua posizione, le
braccia incrociate e le mani nascoste nelle ampie maniche del kimono, lo
sguardo su Saike.
Psyche si
guardò i piedi, riscoprendoli nudi: spostò lo sguardo
interrogativamente per la stanza in cui si trovava e Tsugaru probabilmente
intuì cosa cercasse.
«Le
scarpe sono all’ingresso, le ha messe lì Kasuka-san quando ti
abbiamo messo al letto.» disse, osservandolo
muoversi verso l’altra stanza e alzandosi per seguirlo fino alla porta.
Vide Saike
sedersi per mettere le scarpe e Tsugaru tacque, limitandosi a guardarlo; quando
il castano ebbe finito e fu in piedi per aprire la porta e andare via, si volse
verso il biondo con aria interrogativa.
Indugiò diversi secondi, prima di pronunciare un: «E ora cosa fai tu,
Tsugarujima Kaigyou Fuyugeshiki?»
«Rimango
ad aspettare il master.»
«E
tra quanto torna?» indagò Psyche.
«Un’ora
e cinquantatre minuti.» replicò preciso
– ma non era strano fra persocom, se il master li metteva in una qualche
modalità precisa fino al proprio ritorno o se, semplicemente, li
avvisava di quando sarebbe rincasato.
«Mhhh…» soppesò Psyche, con
un’espressione piuttosto concentrata – e buffa.
Alla fine
di chissà quali considerazioni, tolse di nuovo le scarpe e andò a
sedersi di fianco a Tsugaru, che si era sistemato a gambe incrociate sul tatami
dopo aver raggiunto l’altro nei pressi della porta.
Il biondo
lo guardò senza capire, ma Psyche non parve preoccuparsene
eccessivamente, sembrò anzi considerare tutto perfettamente normale.
«Saike
aspetterà qui e ti farà compagnia fino a che non mancheranno
dieci minuti. Visto che non hai fatto male a Saike e
che il master mi ha insegnato che non si devono tenere favori e conti in
sospeso.» concluse la spiegazione che evidentemente considerava logica.
«E
non verrai sgridato se rimani qui?»
«No
se non incontro Shizuo-san!» assicurò, occhieggiandolo: «Ne,
ne… ma il tuo master ti lascia spesso da solo per così
tanto tempo?» chiese quindi, una nota di palese curiosità
sia nel tono che nello sguardo.
«Il
master lavora, è normale che stia fuori casa.»
osservò semplicemente con un’impercettibile alzata di spalle.
Saike si
sistemò con la schiena contro il muro, portando le gambe piegate vicino
al busto e rimanendo in silenzio: «Mh. Psyche
non è tanto abituato, il master lavora in casa quasi sempre quindi non
sta mai da solo.» asserì, ricevendo da Tsugaru un semplice
annuire.
Quando
tornò nuovamente a casa, facendo a ritroso il percorso, Psyche non
incontrò nessuno. Una volta nell’appartamento, Izaya non lo aveva
sgridato: la cosa era stata dovuta a diversi fattori probabilmente.
Innanzitutto, fra gli spostamenti, l’intrattenersi a casa di Mikado per
la consegna che il master gli aveva commissionato e il tempo con Tsugaru
– complessivamente di due ore e un quarto
– il tempo in cui era stato lontano da casa si aggirava sulle quattro
ore.
Secondo, e
direttamente collegato al primo motivo, era un lasso di tempo
in cui era plausibilissimo che Psyche fosse rimasto con Mikado e Tengoku.
Ne
conseguiva che non c’erano stati motivi per i quali Izaya avrebbe dovuto
irritarsi particolarmente o preoccuparsi; tant’è che non fece
domande di alcun genere, se non riguardanti il cd che aveva affidato a Saike.
Quest’ultimo aveva confermato la consegna di persona a Mikado,
dopodiché era stato lasciato libero di andare a riposarsi o a fare
quello che preferiva; Izaya era infatti stato
intenzionato ad uscire non appena Psyche fosse rientrato.
Fu una
fortuna.
Specie
considerando che Saike non era programmato per mentire.
Se Izaya
avesse fatto domande più precise, Saike sarebbe stato costretto a
rispondere anche contro la sua presunta “volontà”.
Affondò
parte del cucchiaio nell’omurice3
che aveva nel piatto di fronte a sé, il rumore del metallo della
stoviglia che picchiettava appena sul piatto della persona davanti a lui.
Alzò
lo sguardo, incontrando quello di sua madre per un breve istante, prima che
anche lei spostasse l’attenzione di nuovo sulla propria cena.
«Allora
oggi com’è andata da Honda-sensei?» domandò,
il tono tranquillo.
Aoba la
occhieggiò per una manciata di secondi, senza
smettere di mangiare; quando ebbe inghiottito, replicò con un semplice:
«Tutto bene.»
Tacquero
sia lui che lei, dopo quelle parole; qualche minuto di
silenzio e il cellulare vibrò nella sua tasca. Abbassò il
cucchiaio e portò la mano in tasca, estraendone il telefonino:
pigiò un paio di tasti, aprendo la mail appena arrivata.
Aggrottò
leggermente le sopracciglia, in maniera quasi impercettibile, quando lesse il
mittente.
Era un
indirizzo sconosciuto ma non aveva dubbi su chi l’avesse mandata; non
c’erano molte altre persone che avrebbero dovuto avere interesse nello
scrivergli le poche parole che la mail recitava.
A quanto pare anche
il capo dei Turbanti Gialli ha un persocom un po’ particolare,
lo sapevi Aoba-kun? Scommetto di no~
Solo
Orihara Izaya riusciva ad essere irritante persino
mentre scriveva.
«Acchan,
non leggere mentre siamo a tavola…» lo
riprese sua madre.
Le sorrise
riponendo il telefono in tasca: «Scusa, hai ragione, mamma.»
replicò soltanto.
Odiava
ammetterlo, ma gli doveva un’informazione.
Note
1, tatami: pavimentazione tipica giapponese.
2, shoji: porte scorrevoli in
un’abitazione tipica giapponese.
3, omurice: omelette dalla forma circolare
con ripieno di riso.
Segnalo un
errore da parte mia nel capitolo precedente: ho scritto persocoN
che è diventato ora persocoM (giustamente essendo l’abbreviazione
di “Personal Computer” è stata una mia svista scriverlo con
la “n”).
La frase
in apertura è dell’anime di “Loveless”.
Ringrazio
chi ha letto e mi scuso per il ritardo, nonostante avessi avvisato
dell’irregolarità che ci sarebbe stata negli aggiornamenti.
Passo a
rispondere quindi alle recensioni :3
Litachan: grazie di seguirmi,
donna <3 Ecco il secondo capitolo (era pure ora XD). Non sono molto sicura
della caratterizzazione di Tsugaru, perciò spero che i riscontri da
parte tua mi illuminino d’immenso u_u *sfrutta Lita biecamente* *_*”
Fissie: ti ringrazio innanzitutto per i
complimenti allo stile: non posso che essere contenta del fatto che le
descrizioni ti abbiano catturato pur non entrando subito nel vivo, come tu stessa hai detto :3 Sul dove andare a parare… ti
assicuro, è molto oscuro anche per me 8D Nel senso che muovere (oltre a
quelli base del manga) uno Shizuo e un Izaya del genere – tramite Psyche
e Tsugaru – è più “intrippante”
anche per me XD
Spero che
anche questo capitolo in ritardissimo sia stato di
tuo gradimento :3