Cacciatori e Vittime
2.
Osservo il
cielo plumbeo da ormai troppo tempo. Mi manca l’azzurro, quel colore chiaro che
continuavo a scorgere nei tuoi occhi. Ho iniziato a pensare a te come al mio
cielo.
E da quel
giorno il sole tornò a brillare nel mio cuore.
Elisa osservava il buio fare preda quella misera città, persa nei propri pensieri. Nei propri ricordi fatti di sangue e cemento.
Il cielo esplose di un
grigio cupo, rosso. Nell’aria l’odore ferroso dello zolfo.
«Mamma!» il corpo
della madre protesse il corpo della figlia dall’esplosione galattica avvenuta
nell’universo.
Una pioggia di stelle
roventi cadde sulla terra, e una cadde proprio sulla loro casa.
Fuoco, dolore, macerie
e puzza di gas.
«Mamma…» la figlia
piange strattonando il corpo freddo e duro della donna.
Un ruggito penetrò le
sue orecchie, attirando la sua attenzione.
Una pantera, nera come
la pece e la notte mischiate insieme, la osservava. Quegli occhi gialli,
felini, le penetrarono l’anima e le sue unghie penetrarono la sua carne. La sua
guancia sinistra esplose, e la bambina piangendo, scappò. Tentando di fuggire
inciampò, cadendo di faccia in un liquido nero, profondo e freddo. Sentì il
ghiaccio del ferro entrarle nelle viscere e nella bocca, e la ferita sulla
guancia si cicatrizzò, stampandole nel suo corpo non solo il passaggio della
pantera, ma la pantera stessa nella
sua essenza.
Da quel fatidico
giorno, il Giorno dell’Apocalisse, tutto cambiò.
Ogni cosa cambiò.
«Parla Eleonora.» mormorò, facendo sussultare la mora dietro di lei.
«Ho l’orecchio fine, dovresti saperlo.» disse, ridacchiando per la reazione della donna, mentre si avvicinava incerta. Il braccio fasciato faceva intuire un altro miracolo di Amir. Elisa, seduta a cavalcioni sul parapetto del tetto dell’edificio, dava le spalle alla donna che seguiva il suo sguardo perso nella vastità dell’ambiente silenzioso e cupo. La coda, docile, muoveva con sinuosità la punta, completamente adagiata al freddo cemento armato.
«Sai Capo…» iniziò Eleonora.
«… io non ho mai visto il cielo di notte… dev’essere una meraviglia.» ipotizzò, persa nei fiochi ricordi dell’infanzia.
Elisa sogghignò, al pensiero di un ricordo lontano.
«Sai Elisa, qui tutti
hanno paura.» mormorò la bionda, guardando la mora osservare il cielo grigio
malinconica.
«E tutti dicono che il
cielo non è più lo stesso da quel
giorno.» continuò, catturando l’attenzione delle iridi castane scure.
«Ma io non ho paura.
Perché ci sei tu, qui con me.» rispose sorridendo, passando un braccio dietro
la sua schiena.
«E il cielo è identico
alla scorsa era. Perché è sempre con quel nome che lo chiamiamo: cielo. Che sia azzurro, nero, rosso o grigio non
importa. Sempre cielo è.» e con quelle parole appoggiò la testa alla spalla
della compagna, beandosi della sua presa delicata vicino alla vita.
«Oh, è uno spettacolo. Una coperta vellutata, colorata di quel blu scuro chiamato “notte” e bucherellato qui e là di puntini luminosi chiamate “stelle”. e nel suo centro, la regina della sera: “la luna”.» descrisse Elisa rapita dai ricordi vividi come fossero ieri. Eleonora ascoltava ammirata le parole della giovine, mentre nelle sua mente l’immaginazione cavalcava.
«Ma ci scommetto la coda che non è questo il motivo per cui sei venuta qui a parlare con me.» affermò poi, notando la ragazza arrossire vistosamente. La coda, sentendosi chiamata in causa, si riscosse.
Il silenzio calò come una coperta fredda sulle due donne.
«Chiara ti vuole bene, Eleonora.» affermò sicura, continuando ad osservare il cielo.
«Lo so… ma non è lo stesso che io provo per lei.» rispose ferma.
Elisa spostò lo sguardo dal cielo grigio agli occhi azzurri di lei.
“Assomigliano tanto a te, amica mia. Ma non sono uguali ai tuoi. I tuoi avevano il cielo, l’oceano e la rugiada racchiusi dentro te.”.
«Ne sei proprio sicura?» chiese Elisa, fissandola con sicurezza negli occhi. E vide nascere in lei il seme dell’incertezza. Eleonora, imbarazzata, li spostò da quelli scuri, portandoli al pavimento.
“Questi, invece, hanno solo il dubbio dell’esistenza in essi. Lo stesso dubbio che io leggevo nei tuoi, tempo fa. Tanto tempo fa.”
«Non domandarti il perché dubiti, Eleonora. Chiediti piuttosto i motivi della tua incertezza. E nella tua domanda scoprirai che la risposta non è in me…» disse, saltando con acrobazia giù dalla muretto, affiancandosi alla ragazza, rimasta bloccata.
«… la risposta è dentro di te.» affermò sicura, per poi entrare con passo sicuro nella porta vicina, rientrando nella base. Lasciando la mora di capelli e chiara d’occhi sola con i suoi interrogativi.
Interrogativi che avevano dentro di sé già la risposta.
Fu una notte travagliata per Elisa, che difficilmente riusciva a dormire. Quando arrivò l’alba, la mora stava dormendo da poco. Un bussare sommesso la fece sobbalzare, armata di coltello. I sensi sviluppatasi erano pronti per l’autodifesa.
«Chi è?» chiese cauta, prima di aprire. La spalla adagiata lievemente alla superficie liscia del legno, lo spioncino piccolo lasciava una breccia di verità.
«Capo, è ora dell’allenamento mensile.» Adrian era alla sua porta, cauto.
Elisa sospirò, per poi sbloccare la porta dal catenaccio che la teneva serrata.
«Arrivo subito, intanto tu…» iniziò a parlare automaticamente, ma venne interrotta dal ragazzo.
«Ho già fatto tutto, non preoccuparti Capo. Aspettiamo solo te.» rispose, scattando di fronte alla figura autoritaria della donna che usciva dalla stanza.
«Oh…» la sua bocca formò un cerchio perfetto, mentre si passava la mano nei capelli corti.
«Bravo, hai fatto un buon lavoro…» disse, guardandolo. L’osservò ancora. Si era finalmente tagliato i capelli, enfatizzando il volto ovale e gli occhi verdi che non aveva mai visto prima.
«Buon lavoro, soldato Adrian.» disse sorridendo, stando per una volta al suo gioco che poi non gioco non era.
«Sono fiera di te.» affermò, mettendo una mano nei corti capelli e sorridendo.
Sentì l’animo del ragazzo ormai diventato uomo crescere e crebbe lievemente di più in se stesso.
«Grazie…» mormorò, diventando rosso.
Elisa riportò la mano al fianco, ritornando seria.
«Bene… adesso andiamo, che siamo in ritardo.» disse, chiudendo il momento di rilassamento.
Adrian scattò all’attenti.
«Agli ordini!» disse, portando la mano alla fronte, come a saluto.
Elisa sogghignò.
«Facciamo a chi arriva prima?» sfidò la donna, pregustando la vittoria.
Adrian riflesse il ghigno della donna. Elisa incominciò a contare.
«Uno… due… tre!» e al terzo numero scattarono, lasciando Adrian con lieve vantaggio prima che di rimontare all’ultima porta.
Sai Elisa, ho sempre amato
questo edificio, questa base, questo rifugio. L’hai creato tu, con le tue mani,
racimolando e raccogliendo questi sperduti che adesso tu chiami “famiglia”.
Riunendo fratelli e sorelle. Facendoci diventare tutti fratelli e sorelle. Hai
raccolto noi, povere anime senza speranze. Ci hai dato una casa. Un tetto. Tre
pasti sicuri al giorno. Una famiglia.
Ci hai donato la cosa più
difficile, la speranza. La speranza di un nuovo mondo, di vivere in felicità,
senza la paura di addormentarci da soli, al freddo, con lo stomaco vuoto e con
il terrore quotidiano della morte.
Tu neanche ti rendi conto di
cosa ci hai dato. Di cosa mi
hai donato.
La felicità.
La fiducia di credere nella
rinascita di un essere umano nuovo.
… e l’amore.
Hai fatto rifiorire l’amore in
questa landa desolata che noi chiamiamo Terra. Hai dato a molti cuori l’aiuto e
il sostegno di cui avevano bisogno.
L’amore di cui persino io avevo
bisogno.
Ringrazio
Adhara, la mia compagna di penna e di
realtà quotidiane che ha commentato questa storia nata in un giorno desolato. E
le sta dando forza. Sta imprimendo speranza in questa scrittrice angosciata.
Che si
sente cieca in confronto a questa storia che si sta letteralmente partorendo da
sola.
Grazie.
E ringrazio coloro che leggono senza commentare.
Grazie
mille ^_^