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Autore: Bellatrix Lestrange    15/11/2005    4 recensioni
questa è una storia sul suicidio, che ho ideato in una volta ma sviluppato in molte fasi e ho scritto dopo parecchio tempo. non ho mai scritto fic originali, e in effetti ho realizzato che questa lo era dopo averla scritta. se leggendola volete commentarla ne sarei felice!
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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EVERYTHING BURNS

Everything

burns

 

 

She sits in her corner

Singing herself to sleep

Wrapped in all of the promises

That no one seems to keep

She no longer cries to herself

No tears left to wash away

Just diaries of empty pages

Feelings gone astray

But she will sing...

 

Chorus:

Til everything burns

While everyone screams

Burning their lies

Burning my dreams

All of this hate

And all of this pain

I'll burn it all down

As my anger reigns

Til everything burns

Ooh, oh

 

Walking through life unnoticed

Knowing that no one cares

Too consumed in their masquerade

No one sees her there

And still she sings...

Til everything burns

 

Chorus

 

Ben Moody featuring Anastacia, Everything Burns

 

Si raggomitola, tenendosi stretta.

Tremando.

Un vento un poco più forte fa danzare le tende della finestra aperta, facendo sembrare la stanza ancora più vuota e desolata.

Carte per terra, disegni disordinati, scuri.

Sigarette nel portacenere.

Si stringe forte le ginocchia, tremando nel vento.

Guarda il fumo della Marlboro sibilare verso il soffitto, come una piccola fata morente.

Canta sussurrando, la voce che a tratti le manca, nelle note più acute impossibili da rendere con un mormorio.

Mordicchia le unghie nere già quasi inesistenti, per abitudine.

Ripesca il jack daniels dalle lenzuola, beve l’ultimo sorso.

Si affaccia alla finestra, fissando i taxi, fissando le luci nel buio.

Si concentra sui passanti, sugli imbacuccati uomini felici carichi di pacchetti più o meno costosi.

Sbuffa per vedere il suo respiro nel freddo.

Guarda Central Park verde e buio, guarda la strada natalizia con le tipiche luci natalizie, quelle che ci sono solo a natale, quelle che no sono luci come le altre, sono più felici, più da famigliole felici.

Guarda il cielo violaceo della città, sente il suono di un clacson.

Aspetta una lacrima lenta, da dolore vero, di quelle in cui chiudi gli occhi per sentirle scivolare lente e carezzanti.

Sa che aspetta invano. Ha finito le sue lacrime.

Dal piano di sotto sale serpeggiante Kurt Cobain, e sente Polly riempire il silenzio comprimente della stanza.

Pensa che potrebbe accendere la luce giallastra sul comodino e la stanza avrebbe subito un aria meno isolata, più in tinta con le altre, più casa e  meno tana.

Fa un ultimo tiro e getta la sigaretta dalla finestra, lasciano una corda di fumo su cui vorrebbe arrampicarsi.

E poi guarda l’avambraccio segnato dal suo dolore, da altre mille notti come questa.

Sbuffa per vedere il suo respiro per vedere se c’è ancora.

Si side sotto la scrivania che profuma ancora di sua nonna, come ha sempre fatto. Si chiede cosa penserebbe se la vedesse, pensa che lei riuscirebbe a consolarla, le direbbe tante frasi da nonna e le darebbe una fetta di torta. E lei andrebbe fuori a giocare, nel sole.

Le tende danzano ancora, invitanti.

Pensa a quando era ancora a casa, e sentiva il vento parlarle dall’erba, increspare il bicchier d’acqua sul comodino con i suoi sussurri proibiti di antica disperazione.

Pensa alle favole che le leggevano e al canto triste delle principesse morenti che raggiungeva il loro principe, portandogli il loro ultimo respiro.

Pesa agli gnomi, alla paura degli altri bambini che li venissero a prendere. a quanto avrebbe voluto che la portassero via.

Gioca con il silenzio, perdendosi in un labirinto di siepi nebbiose aiutata dall’alcol.

Si alza, avvolgendosi in una coperta di promesse infrante, di delusioni così variegate e molteplici da non vere più né numero né nome, solo altre tacche nella spalliera della sua anima.

Ferita.

Sanguinante.

Stanca.

Si dirige verso il bagno, apre l’acqua della vasca.

Accende delle candele, spegne la luce.

Ma il fruscio la chiama per nome.

Fissa le tende, con la testa che le gira, ipnotizzata.

Danzano, danzano, leggiadre ballerine provocanti.

Allunga la mano, sfiorandole con la punta delle dita,facendole avvolgere come serpenti attorno ai suoi polsi.

Si affaccia, sporgendosi con la testa, facendosi scarmigliare i capelli dalla notte.

Poi una bolla di sapone, solitaria, la sfiora.

Ci si specchia, vedendosi colorata e rotonda.

Soffia allontanandola dal muro, e lei scoppia.

E qualcosa si rompe.

L’acqua della vasca scoppietta nell’acqua già versata. Quasi non si accorge che sta piangendo finchè non vede le lacrime cadere, frettolose, esili, fragili.

Dovrebbe chiudere l’acqua della vasca, straborderà.

Scuote la testa impercettibilmente.

Chiudila.

No.

Chiudila.

Scuote la testa, forte, più forte, confusa, annebbiata.

Vai a chiudere la vasca.

Arretra, incespicando.

Le sue mani incontrano il davanzale, stringendolo.

Chiudila.

No!

Chiudila!

No!!!

Sale sul davanzale, dando le spalle al vuoto.

Non lo farai, le dice. Non lo farò, pensa.

Si siede, penzolando.

Rientra, pensa.

Poi pensa al giorno dopo, a quello dopo ancora, alle notti che verranno e a vestirsi la mattina, ad alzarsi dal letto.

L’aria preme contro il suo viso tirando i lineamenti, impaziente.

Si è sempre chiesta come fosse volare.

 



 

 

 

 

 

 

 

  
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