Everything
burns
She
sits in her corner
Singing herself to sleep
Wrapped
in all of the promises
That
no one seems to keep
She no
longer cries to herself
No
tears left to wash away
Just
diaries of empty pages
Feelings
gone astray
But
she will sing...
Chorus:
Til
everything burns
While
everyone screams
Burning
their lies
Burning
my dreams
All of
this hate
And
all of this pain
I'll
burn it all down
As my
anger reigns
Til
everything burns
Ooh,
oh
Walking
through life unnoticed
Knowing
that no one cares
Too
consumed in their masquerade
No one
sees her there
And
still she sings...
Til
everything burns
Chorus
Ben
Moody featuring Anastacia, Everything Burns
Si
raggomitola, tenendosi stretta.
Tremando.
Un vento
un poco più forte fa danzare le tende della finestra aperta, facendo
sembrare la stanza ancora più vuota e desolata.
Carte per
terra, disegni disordinati, scuri.
Sigarette
nel portacenere.
Si
stringe forte le ginocchia, tremando nel vento.
Guarda il
fumo della Marlboro sibilare verso il soffitto, come una piccola fata morente.
Canta
sussurrando, la voce che a tratti le manca, nelle note più acute
impossibili da rendere con un mormorio.
Mordicchia
le unghie nere già quasi inesistenti, per abitudine.
Ripesca
il jack daniels dalle lenzuola, beve l’ultimo sorso.
Si
affaccia alla finestra, fissando i taxi, fissando le luci nel buio.
Si
concentra sui passanti, sugli imbacuccati uomini felici carichi di pacchetti
più o meno costosi.
Sbuffa
per vedere il suo respiro nel freddo.
Guarda
Central Park verde e buio, guarda la strada natalizia con le tipiche luci
natalizie, quelle che ci sono solo a natale, quelle che no sono luci come le
altre, sono più felici, più da famigliole felici.
Guarda il
cielo violaceo della città, sente il suono di un clacson.
Aspetta
una lacrima lenta, da dolore vero, di quelle in cui chiudi gli occhi per
sentirle scivolare lente e carezzanti.
Sa che
aspetta invano. Ha finito le sue lacrime.
Dal piano
di sotto sale serpeggiante Kurt Cobain, e sente Polly riempire il silenzio
comprimente della stanza.
Pensa che
potrebbe accendere la luce giallastra sul comodino e la stanza avrebbe subito
un aria meno isolata, più in tinta con le altre, più casa e meno tana.
Fa un
ultimo tiro e getta la sigaretta dalla finestra, lasciano una corda di fumo su
cui vorrebbe arrampicarsi.
E poi
guarda l’avambraccio segnato dal suo dolore, da altre mille notti come
questa.
Sbuffa
per vedere il suo respiro per vedere se c’è ancora.
Si side
sotto la scrivania che profuma ancora di sua nonna, come ha sempre fatto. Si
chiede cosa penserebbe se la vedesse, pensa che lei riuscirebbe a consolarla,
le direbbe tante frasi da nonna e le darebbe una fetta di torta. E lei andrebbe
fuori a giocare, nel sole.
Le tende
danzano ancora, invitanti.
Pensa a
quando era ancora a casa, e sentiva il vento parlarle dall’erba,
increspare il bicchier d’acqua sul comodino con i suoi sussurri proibiti
di antica disperazione.
Pensa
alle favole che le leggevano e al canto triste delle principesse morenti che
raggiungeva il loro principe, portandogli il loro ultimo respiro.
Pesa agli
gnomi, alla paura degli altri bambini che li venissero a prendere. a quanto
avrebbe voluto che la portassero via.
Gioca con
il silenzio, perdendosi in un labirinto di siepi nebbiose aiutata
dall’alcol.
Si alza,
avvolgendosi in una coperta di promesse infrante, di delusioni così
variegate e molteplici da non vere più né numero né nome,
solo altre tacche nella spalliera della sua anima.
Ferita.
Sanguinante.
Stanca.
Si dirige
verso il bagno, apre l’acqua della vasca.
Accende
delle candele, spegne la luce.
Ma il
fruscio la chiama per nome.
Fissa le
tende, con la testa che le gira, ipnotizzata.
Danzano,
danzano, leggiadre ballerine provocanti.
Allunga
la mano, sfiorandole con la punta delle dita,facendole avvolgere come serpenti
attorno ai suoi polsi.
Si
affaccia, sporgendosi con la testa, facendosi scarmigliare i capelli dalla
notte.
Poi una
bolla di sapone, solitaria, la sfiora.
Ci si
specchia, vedendosi colorata e rotonda.
Soffia
allontanandola dal muro, e lei scoppia.
E
qualcosa si rompe.
L’acqua
della vasca scoppietta nell’acqua già versata. Quasi non si
accorge che sta piangendo finchè non vede le lacrime cadere, frettolose,
esili, fragili.
Dovrebbe
chiudere l’acqua della vasca, straborderà.
Scuote la
testa impercettibilmente.
Chiudila.
No.
Chiudila.
Scuote la
testa, forte, più forte, confusa, annebbiata.
Vai a
chiudere la vasca.
Arretra,
incespicando.
Le sue
mani incontrano il davanzale, stringendolo.
Chiudila.
No!
Chiudila!
No!!!
Sale sul
davanzale, dando le spalle al vuoto.
Non lo
farai, le dice. Non lo farò, pensa.
Si siede,
penzolando.
Rientra,
pensa.
Poi pensa
al giorno dopo, a quello dopo ancora, alle notti che verranno e a vestirsi la
mattina, ad alzarsi dal letto.
L’aria
preme contro il suo viso tirando i lineamenti, impaziente.
Si
è sempre chiesta come fosse volare.