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Autore: beesp    03/11/2010    0 recensioni
Fanfiction partecipante al 2010: a year together, indetta dal Fanfiction Contest ~ { Collection of Starlight }
C'è sempre bisogno di dimostrare qualcosa, vero?
E' arrivata. Ha scritto. Ha riscritto la storia del mondo; adesso può smettere di respirare, ha compiuto ciò che doveva.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fan fiction partecipante al “2010: a year together” con il prompt #5 “Cara di cura New Hope”, indetto dal « Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since 01.06.08 ».
Dedicata a me stessa e ai miei quindici anni, anche se in ritardo.
La colonna sonora? Il silenzio. Completo. Dovreste tappare le orecchie e non far entrare nessun rumore, se potete. Siamo circondati in maniera sregolata da rumori che ci uccidono, assieme a tutto il resto.
Buona lettura.



New Hope


« [...]Non sapendo cos’altro fare, rovesciò tutto in una scatola. Una scatola cubica di cartone, “fragile”, in cui gettò ogni singolo oggetto che potesse ricordarle anche solo una lettera di quel nome che non si può pronunciare.
È amore che si trasforma in odio.
Come quando veniamo al mondo, e la nostra famiglia ci sembra la migliore del mondo, poi scopriamo che nasconde segreti irrivelabili al mondo, rimangono nel nostro petto, non possiamo svelarli al mondo, questo ci rende arrabbiati, infelici, persi, vorremmo odiarli i nostri parenti, e non riusciamo.
C’è qualcosa che ci lega a loro, non è sano, non è bello. È uguale alla stupida umanità: non ci permette di ferire le persone e di detestarle completamente, anche quando non sappiamo chi sono o ripugniamo l’esempio che rappresentano.

Perché?”.
Domanda.
È l’ennesimo quesito senza risposta, l’ennesimo grido d’aiuto che non riceverà risposta. Siamo fragili oggetti in balia dei venti e del vorticare del Pianeta su cui viviamo; per quanto odiamo i cambiamenti – di noi stessi e di chi ci circonda – siamo inevitabilmente loro vittima.
Scrivere. Fotografare. Pezzi di carta – s’intrecciano alla memoria – volano nella brezza che filtra dalla finestra spalancata; è fine Ottobre, arriva Novembre, si agitano, fermati da qualcosa di pesante. Come il macigno sullo sterno, come il groppo che non permette alle parole di uscire proprio quando dovrebbero.
Sfiorare un polso, soltanto per ricordare che esiste qualcosa di stupendo, dentro di lei: una sorta di amore, un bisogno spasmodico, che non è mai soddisfatto, eppure è dolce quando si manifesta in sogni, quando si mostra nel trovarlo inevitabilmente. E lui, lui non la trova perché non la cerca – non la vuole – ma non importa.
Attorno, attorno la Terra è scossa, non è come quando si nasce, è tutto pulito, il male non esiste se non nelle fiabe, nelle favole, dove viene sempre scacciato dal bene. O forse per raggiungere il finale, quello in cui l’eroina risolleva la sorte dell’Universo, scaccia la paura e mostra all’umanità quanto speciale sia vivere – e meraviglioso, incredibile, anche soltanto respirare aria che si trasforma in cibo per il nostro sangue – c’è bisogno di prendere l’ultimo respiro.[...] »

È ferma al centro della tempesta. È in incubo soltanto, forse. Non è ben chiaro, c’è un uomo con i capelli che gli volano attorno al volto, le dice che è deluso dal suo comportamento, ma poi le sorride, le svela un segreto che non immaginava di poter custodire: spesso le parole non sono quelle che sembrano.

Cos’è la follia? Non ne è ben certa. Lavorando nella “Casa di Cura New Hope” non si afferra mai bene il concetto. Ci sono tante persone, hanno sempre qualcosa da dire, un disegno da colorare, un collage da completare. Ricordano sulle tele della loro arte.
La maggior parte non parla molto, alcuni sono fin troppo loquaci. Di altri non conosce neanche il suono della voce.
Non sa bene quando, ma a un certo punto della sua carriera d’infermiera si è convinta che, dopotutto, quelli “pazzi” sono gli esseri umani che vivono fuori della “New Hope”. Non hanno contatto con la realtà, quella che creano – che chiamano, appunto, “realtà” ma erroneamente – è un ammucchiata di concetti messi insieme nel corso dei secoli, rubati da una filosofia o dall’altra; costrizioni del corpo e della mente e dell’anima. Amare qualcuno è sbagliato, provare piacere carnale senza finalità è necessario, indossare determinati abiti è giusto.
Lei si siede sul suo personale dondolo al tramonto d’inizio Settembre, ad ascoltare le parole di una ragazza di vent’anni colpita da una grave forma di depressione. Non hanno mai capito quale sia la causa di una tale perdita della concezione di sé, della propria stima. Ha tentato il suicidio una decina di volte, prima di essere ’ricoverata’ in quel luogo.
Le proposero, due mesi prima di Agosto, di tornare a casa. Lei si accomodò sulla panchina al centro esatto del cortile della villa, bevve un sorso del suo onnipresente tè alla fragola, « questa è casa mia ». Spesso ricade ancora nelle sue crisi, in cui piange e urla molto forte, cerca di mordersi la pelle, strapparla a morsi, nomina “Frederick” e “Veronica”, per poi appisolarsi, stanca.
In molti sono esausti lì dentro. Hanno smesso di muoversi quando sono entrati per la prima volta camminando sulle mattonelle di marmo lucido. Sono fermi in un momento infinito, mentre si lamentano delle loro ferite e qualcuno cerca di guarirle.
Guardano le stelle dei soffitti sopra i loro letti; cos’altro fanno se non non-dimenticare? Non possono certo abbandonare quel senso di sofferenza che stringe il cuore: qualcuno, prima che arrivassero, deve averli abbandonati. Sempre. Altrimenti non sarebbero dove sono, nella “Casa di Cura New Hope”. Qualcuno non ha accettato il loro modo di rifiutare il male, fingendo che non esista, fingendo a sua volta che loro non esistessero. È una gara di finzione, in cui chi è arrivato fin lì, nel giardino di quel luogo pacifico, ha scoperto la realtà. Ha compreso perché non aveva voglia di lavorare per guadagnarsi il pane di cui cibarsi, sentiva il bisogno di dedicarsi alle proprie passioni – qualunque esse fossero – e non riusciva a dimenticare il motivo per cui era cambiato fino al punto che le persone non sapevano più riconoscerlo.


« [...]Piccolo, invisibile.
Una sorella dalle trecce rosse mi tende la mano, l’afferro, pieno di gratitudine.
Mi racconta di favole di isole del tesoro, amicizie immortali, magie portentose che provengono dall’anima ancor più che dalle bacchette di legno di un mondo alternativo che pare proprio essere migliore del nostro.

Io non andrò mai via”. Esistono parole più dolci al mondo?
Ho desiderato, da sempre, l’ho bramato: che la solitudine smettesse di tormentarmi.
Perché sentivo, sulle spalle, il peso del mio silenzio e delle parole condivise soltanto con la mia persona. Non era abbastanza divertirmi per quattro ore, volevo che qualcuno non mi lasciasse mai, che rimanesse sempre, a condividere con me una vita. Cosa c’è di più intimo che un’esistenza insieme? Due corpi e un’anima.
Ho avuto, ho avuto la mia sorella.
Ho amato il vuoto, e il vuoto ha generato
tutto.
Via gli oggetti, via, fuori dalla finestra, gettiamoli al vento: ho mia sorella, non chiedo nient’altro da quando ho preso il primo respiro!
Rideremo, piangeremo, grideremo, ci arrampicheremo su per i monti più ripidi, ci abbracceremo, confideremo i segreti più nascosti e non ne avremo mai fra noi, basterà lo sguardo a raccontarli![...] »

A vederlo le pizzicano sempre gli occhi. Ha un fisico gracile, da un momento all’altro pare pronto a svenire, abbandonare la Terra, bisogna sempre imboccarlo con la forza, sembra che non abbia voglia di mangiare. Non per farsi del male, per dimagrire o attirare l’attenzione: nel suo sguardo c’è un senso di completezza malinconica.
Ha tutto, eppure nessuno riesce a capire dove sia quel che: lo cercava, l’ha ottenuto, ma dov’è?
Se gli si rivolge la parole, è sempre gentile ed educato, ma distaccato, “divertito dall’affannarsi altrui” spiegò una volta. Le pizzicano gli occhi perché desidererebbe essere tranquilla come lui, che ha carpito il segreto della vita, lo tiene stretto, legato a sé.
Ma nemmeno il filo è visibile ad occhio ignorante, ad occhio che non ha accettato la propria necessità.

« [...]Odiavo la persona che mi generò. A tal punto da desiderare di implodere e rubare, così, tutto il disprezzo del mondo: dirigerlo verso tal essere, bruciargli l’essenza con il fuoco delle passioni di sofferenza. L’odio è una corrosione dell’amore: quando chi veneriamo tradisce la nostra fiducia, diventa il mostro, l’antagonista. E allora odiamo. Non è un sentimento troppo diverso da ciò che dovrebbe essere il suo antipodo.
Ma il fuoco ha scottato me, divenni un pezzo di ghiaccio e dimenticai chi fossi, cosa volessi, ciò che importava.
Ancora adesso, mi domando cosa ne sia stato di me, vedo un’immagine riflessa nello specchio, e non capisco come possa avere quelle scure occhiaie, le guance scavate, il colorito giallognolo.
Sono circondata da uomini e donne vestiti alla mia stessa maniera, ma non sono tanto spossati quanto me, riescono perfino a ridere.
Vorrei essere felice, ancora. Non riesco.
Portatemi via da questo mondo... ma nessuno risponde, mai. »

Rose Brown, scrittrice di romanzi adolescenziali e problematiche sociali-culturali, scomparsa dalla circolazione nel 2003, dimenticata. In pochi sanno realmente dove sia. Qualche giornalista curioso compare, di tanto in tanto, sulla soglia dei cancelli in ferro battuto, domandando se sia ricoverata lì “l’eccelsa romanziera Rose Brown”, tentano in tutti i modi di varcare la soglia. Ma li fermano; oltre a essere contaminati dalla frenesia dell’errore, sono interessati alla donna per scopi di lucro.
Vogliono guadagnare sulla sua infelicità.
L’ultimo scoppio di vitalità della signorina Rose fu nel Marzo del 2003, quando, durante un ricevimento per festeggiare l’uscita del suo nuovo libro, cominciò a rovesciare i tavoli imbanditi, urlando contro il suo accompagnatore, Frank Cooper – anche lui ricoverato dal 2005 alla “New Hope”.
La trovarono tre giorni dopo – settantadue ore in cui si erano perse le sue tracce, dopo che aveva lasciato il party guidando in tutta fretta verso l’autostrada – sdraiata ai piedi dell’entrata secondaria, un leggero soprabito beige, i capelli spettinati, il trucco sciolto, le calze bucate.
La portarono dentro, la spogliarono, la vestirono di un comodo pigiama e la sistemarono in un letto, mentre borbottava frasi sconnesse e ringraziamenti vaghi.

« [...]Sin dal primo istante compresi che tra me e lei ci sarebbe stato un muro insormontabile.
Un muro creato da tutti i segreti che non avrebbe potuto svelarmi, a proposito della sua famiglia dannata, che cercava di combattere, insieme all’odio e all’amore viscerali che provava per tutti loro.
La osservavo, mentre li guardava con astio e una scintilla d’affetto, i suoi movimenti disperati per nuotare fuori da quella confusione. Pregava che qualcuno – chiunque – interpretasse quei gesti, arginasse il suo essere impreparata al mondo, e la aiutasse a risalire.
Io lo feci, ma non le sembrò giusto – e probabile – che uno come me, “dalla vita ho avuto tutto”, sapesse cosa volesse dire essere
lei.
Invece lo capivo meglio di chiunque altro, chissà per quale strano motivo. Probabilmente perché eravamo destinati a vivere insieme – o a morire, ma sempre insieme.[...]
Ed eccoci qui, due anime indistinguibili, perse; ci vediamo, tra i corridoi di questo luogo, con il non-senso di noi, ma non sappiamo trovarci ancor più di prima. Non ci vediamo affatto.
È la giusta punizione per non essere riusciti a tirarci su insieme. »


Ogni sera ritorna nell’appartamento in cui vive, pochi metri più a sud della “New Hope”. Mangia i pochi alimenti che trova nel frigo, accende il televisore per poi spegnerlo qualche istante dopo.
Cerca qualcosa lei. Tra la ’clinica’ e quella casa provvisoria.
Fogli di diari che ha accumulato documentandosi sui pazienti che abitano le mura della villa. Fogli di diari che formano un tomo di duecento pagine: fanno bella mostra di loro, cinque anni dopo dalla prima stesura, nella memoria del piccolo computer portatile sul quale appunta le gesta di uomini e donne coraggiosi al tal punto da svelarle qualche piccolo segreto, i tasselli che non era riuscita ad aggiungere con la sola sua testa, la parola finale che avrebbe permesso di comprenderli tutti.
Era finito quel diario. Finalmente. “La Casa di Cura New Hope”.

   
 
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