Fan
fiction partecipante al “2010:
a year together” con il prompt #5 “Cara di cura New
Hope”, indetto dal «
Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, «
since 01.06.08 ».
Dedicata
a me stessa e ai miei quindici anni, anche se in ritardo.
La
colonna sonora? Il silenzio. Completo. Dovreste tappare le orecchie e
non far entrare nessun rumore, se potete. Siamo circondati in maniera
sregolata da rumori che ci uccidono, assieme a tutto il resto.
Buona
lettura.
New Hope
«
[...]Non sapendo cos’altro fare, rovesciò tutto in una
scatola. Una scatola cubica di cartone, “fragile”, in cui
gettò ogni singolo oggetto che potesse ricordarle anche solo
una lettera di quel nome che non si può pronunciare.
È
amore che si trasforma in odio.
Come
quando veniamo al mondo, e la nostra famiglia ci sembra la migliore
del mondo, poi scopriamo che nasconde segreti irrivelabili al mondo,
rimangono nel nostro petto, non possiamo svelarli al mondo, questo ci
rende arrabbiati, infelici, persi, vorremmo odiarli i nostri parenti,
e non riusciamo.
C’è
qualcosa che ci lega a loro, non è sano, non è bello. È
uguale alla stupida umanità: non ci permette di ferire le
persone e di detestarle completamente, anche quando non sappiamo chi
sono o ripugniamo l’esempio che rappresentano.
“Perché?”.
Domanda.
È
l’ennesimo quesito senza risposta, l’ennesimo grido
d’aiuto che non riceverà risposta. Siamo fragili oggetti
in balia dei venti e del vorticare del Pianeta su cui viviamo; per
quanto odiamo i cambiamenti – di noi stessi e di chi ci
circonda – siamo inevitabilmente loro vittima.
Scrivere.
Fotografare. Pezzi di carta – s’intrecciano alla memoria
– volano nella brezza che filtra dalla finestra spalancata; è
fine Ottobre, arriva Novembre, si agitano, fermati da qualcosa di
pesante. Come il macigno sullo sterno, come il groppo che non
permette alle parole di uscire proprio quando dovrebbero.
Sfiorare
un polso, soltanto per ricordare che esiste qualcosa di stupendo,
dentro di lei: una sorta di amore, un bisogno spasmodico, che non è
mai soddisfatto, eppure è dolce quando si manifesta in sogni,
quando si mostra nel trovarlo inevitabilmente. E lui, lui non la
trova perché non la cerca – non la vuole – ma non
importa.
Attorno,
attorno la Terra è scossa, non è come quando si nasce,
è tutto pulito, il male non esiste se non nelle fiabe, nelle
favole, dove viene sempre scacciato dal bene. O forse per raggiungere
il finale, quello in cui l’eroina risolleva la sorte
dell’Universo, scaccia la paura e mostra all’umanità
quanto speciale sia vivere – e meraviglioso, incredibile, anche
soltanto respirare aria che si trasforma in cibo per il nostro sangue
– c’è bisogno di prendere l’ultimo
respiro.[...] »
È ferma al centro della tempesta. È in incubo soltanto, forse. Non è ben chiaro, c’è un uomo con i capelli che gli volano attorno al volto, le dice che è deluso dal suo comportamento, ma poi le sorride, le svela un segreto che non immaginava di poter custodire: spesso le parole non sono quelle che sembrano.
Cos’è
la follia? Non ne è ben certa. Lavorando nella “Casa di
Cura New Hope” non si afferra mai bene il concetto. Ci sono
tante persone, hanno sempre qualcosa da dire, un disegno da colorare,
un collage da completare. Ricordano sulle tele della loro arte.
La
maggior parte non parla molto, alcuni sono fin troppo loquaci. Di
altri non conosce neanche il suono della voce.
Non
sa bene quando, ma a un certo punto della sua carriera d’infermiera
si è convinta che, dopotutto, quelli “pazzi” sono
gli esseri umani che vivono fuori della “New Hope”. Non
hanno contatto con la realtà, quella che creano – che
chiamano, appunto, “realtà” ma erroneamente –
è un ammucchiata di concetti messi insieme nel corso dei
secoli, rubati da una filosofia o dall’altra; costrizioni del
corpo e della mente e dell’anima. Amare qualcuno è
sbagliato, provare piacere carnale senza finalità è
necessario, indossare determinati abiti è giusto.
Lei
si siede sul suo personale dondolo al tramonto d’inizio
Settembre, ad ascoltare le parole di una ragazza di vent’anni
colpita da una grave forma di depressione. Non hanno mai capito quale
sia la causa di una tale perdita della concezione di sé, della
propria stima. Ha tentato il suicidio una decina di volte, prima di
essere ’ricoverata’ in quel luogo.
Le
proposero, due mesi prima di Agosto, di tornare a casa. Lei si
accomodò sulla panchina al centro esatto del cortile della
villa, bevve un sorso del suo onnipresente tè alla fragola, «
questa è casa mia ». Spesso ricade ancora nelle
sue crisi, in cui piange e urla molto forte, cerca di mordersi la
pelle, strapparla a morsi, nomina “Frederick”
e “Veronica”, per poi appisolarsi, stanca.
In
molti sono esausti lì dentro. Hanno smesso di muoversi quando
sono entrati per la prima volta camminando sulle mattonelle di marmo
lucido. Sono fermi in un momento infinito, mentre si lamentano delle
loro ferite e qualcuno cerca di guarirle.
Guardano
le stelle dei soffitti sopra i loro letti; cos’altro fanno se
non non-dimenticare? Non possono certo abbandonare quel senso di
sofferenza che stringe il cuore: qualcuno, prima che arrivassero,
deve averli abbandonati. Sempre. Altrimenti non sarebbero dove sono,
nella “Casa di Cura New Hope”. Qualcuno non ha accettato
il loro modo di rifiutare il male, fingendo che non esista, fingendo
a sua volta che loro non esistessero. È una gara di finzione,
in cui chi è arrivato fin lì, nel giardino di quel
luogo pacifico, ha scoperto la realtà. Ha compreso perché
non aveva voglia di lavorare per guadagnarsi il pane di cui cibarsi,
sentiva il bisogno di dedicarsi alle proprie passioni –
qualunque esse fossero – e non riusciva a dimenticare il motivo
per cui era cambiato fino al punto che le persone non sapevano più
riconoscerlo.
«
[...]Piccolo, invisibile.
Una
sorella dalle trecce rosse mi tende la mano, l’afferro, pieno
di gratitudine.
Mi
racconta di favole di isole del tesoro, amicizie immortali, magie
portentose che provengono dall’anima ancor più che dalle
bacchette di legno di un mondo alternativo che pare proprio essere
migliore del nostro.
“Io
non andrò mai via”. Esistono parole più dolci al
mondo?
Ho
desiderato, da sempre, l’ho bramato: che la solitudine
smettesse di tormentarmi.
Perché
sentivo, sulle spalle, il peso del mio silenzio e delle parole
condivise soltanto con la mia persona. Non era abbastanza divertirmi
per quattro ore, volevo che qualcuno non mi lasciasse mai, che
rimanesse sempre, a condividere con me una vita. Cosa c’è
di più intimo che un’esistenza insieme? Due corpi e
un’anima.
Ho
avuto, ho avuto la mia sorella.
Ho
amato il vuoto, e il vuoto ha generato tutto.
Via
gli oggetti, via, fuori dalla finestra, gettiamoli al vento: ho mia
sorella, non chiedo nient’altro da quando ho preso il primo
respiro!
Rideremo,
piangeremo, grideremo, ci arrampicheremo su per i monti più
ripidi, ci abbracceremo, confideremo i segreti più nascosti e
non ne avremo mai fra noi, basterà lo sguardo a
raccontarli![...] »
A
vederlo le pizzicano sempre gli occhi. Ha un fisico gracile, da un
momento all’altro pare pronto a svenire, abbandonare la Terra,
bisogna sempre imboccarlo con la forza, sembra che non abbia voglia
di mangiare. Non per farsi del male, per dimagrire o attirare
l’attenzione: nel suo sguardo c’è un senso di
completezza malinconica.
Ha
tutto, eppure nessuno riesce a capire dove sia quel che: lo cercava,
l’ha ottenuto, ma dov’è?
Se
gli si rivolge la parole, è sempre gentile ed educato, ma
distaccato, “divertito dall’affannarsi altrui”
spiegò una volta. Le pizzicano gli occhi perché
desidererebbe essere tranquilla come lui, che ha carpito il segreto
della vita, lo tiene stretto, legato a sé.
Ma
nemmeno il filo è visibile ad occhio ignorante, ad occhio che
non ha accettato la propria necessità.
«
[...]Odiavo la persona che mi generò. A tal punto da
desiderare di implodere e rubare, così, tutto il disprezzo del
mondo: dirigerlo verso tal essere, bruciargli l’essenza con il
fuoco delle passioni di sofferenza. L’odio è una
corrosione dell’amore: quando chi veneriamo tradisce la nostra
fiducia, diventa il mostro, l’antagonista. E allora odiamo. Non
è un sentimento troppo diverso da ciò che dovrebbe
essere il suo antipodo.
Ma
il fuoco ha scottato me, divenni un pezzo di ghiaccio e dimenticai
chi fossi, cosa volessi, ciò che importava.
Ancora
adesso, mi domando cosa ne sia stato di me, vedo un’immagine
riflessa nello specchio, e non capisco come possa avere quelle scure
occhiaie, le guance scavate, il colorito giallognolo.
Sono
circondata da uomini e donne vestiti alla mia stessa maniera, ma non
sono tanto spossati quanto me, riescono perfino a ridere.
Vorrei
essere felice, ancora. Non riesco.
Portatemi
via da questo mondo... ma nessuno risponde, mai. »
Rose
Brown, scrittrice di romanzi adolescenziali e problematiche
sociali-culturali, scomparsa dalla circolazione nel 2003,
dimenticata. In pochi sanno realmente dove sia. Qualche giornalista
curioso compare, di tanto in tanto, sulla soglia dei cancelli in
ferro battuto, domandando se sia ricoverata lì “l’eccelsa
romanziera Rose Brown”, tentano in tutti i modi di varcare
la soglia. Ma li fermano; oltre a essere contaminati dalla frenesia
dell’errore, sono interessati alla donna per scopi di lucro.
Vogliono
guadagnare sulla sua infelicità.
L’ultimo
scoppio di vitalità della signorina Rose fu nel Marzo del
2003, quando, durante un ricevimento per festeggiare l’uscita
del suo nuovo libro, cominciò a rovesciare i tavoli imbanditi,
urlando contro il suo accompagnatore, Frank Cooper – anche lui
ricoverato dal 2005 alla “New Hope”.
La
trovarono tre giorni dopo – settantadue ore in cui si erano
perse le sue tracce, dopo che aveva lasciato il party guidando in
tutta fretta verso l’autostrada – sdraiata ai piedi
dell’entrata secondaria, un leggero soprabito beige, i capelli
spettinati, il trucco sciolto, le calze bucate.
La
portarono dentro, la spogliarono, la vestirono di un comodo pigiama e
la sistemarono in un letto, mentre borbottava frasi sconnesse e
ringraziamenti vaghi.
«
[...]Sin dal primo istante compresi che tra me e lei ci sarebbe stato
un muro insormontabile.
Un
muro creato da tutti i segreti che non avrebbe potuto svelarmi, a
proposito della sua famiglia dannata, che cercava di combattere,
insieme all’odio e all’amore viscerali che provava per
tutti loro.
La
osservavo, mentre li guardava con astio e una scintilla d’affetto,
i suoi movimenti disperati per nuotare fuori da quella confusione.
Pregava che qualcuno – chiunque – interpretasse quei
gesti, arginasse il suo essere impreparata al mondo, e la aiutasse a
risalire.
Io
lo feci, ma non le sembrò giusto – e probabile –
che uno come me, “dalla vita ho avuto tutto”, sapesse
cosa volesse dire essere lei.
Invece
lo capivo meglio di chiunque altro, chissà per quale strano
motivo. Probabilmente perché eravamo destinati a vivere
insieme – o a morire, ma sempre insieme.[...]
Ed
eccoci qui, due anime indistinguibili, perse; ci vediamo, tra i
corridoi di questo luogo, con il non-senso di noi, ma non sappiamo
trovarci ancor più di prima. Non ci vediamo affatto.
È
la giusta punizione per non essere riusciti a tirarci su insieme. »
Ogni
sera ritorna nell’appartamento in cui vive, pochi metri più
a sud della “New Hope”. Mangia i pochi alimenti che trova
nel frigo, accende il televisore per poi spegnerlo qualche istante
dopo.
Cerca
qualcosa lei. Tra la ’clinica’ e quella casa provvisoria.
Fogli
di diari che ha accumulato documentandosi sui pazienti che abitano le
mura della villa. Fogli di diari che formano un tomo di duecento
pagine: fanno bella mostra di loro, cinque anni dopo dalla prima
stesura, nella memoria del piccolo computer portatile sul quale
appunta le gesta di uomini e donne coraggiosi al tal punto da
svelarle qualche piccolo segreto, i tasselli che non era riuscita ad
aggiungere con la sola sua testa, la parola finale che avrebbe
permesso di comprenderli tutti.
Era
finito quel diario. Finalmente. “La Casa di Cura New Hope”.