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Autore: Aurelia major    04/11/2010    1 recensioni
In una qualsiasi città dormitorio, simile a tante altre che compongono la periferia delle metropoli moderne, c'è un caseggiato un po' fatiscente abitato da una colorita umanità. All'interno dello stabile s'intrecciano le loro storie, le manie degli inquilini, i litigi condominiali e i paradossi che inevitabilmente si generano laddove un gruppo raccogliticcio di persone senza capo né coda è costretto a convivere.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Si dice che col tempo i cani somiglino ai padroni, che la frutta non cade mai troppo lontano dall’albero e che chi va con lo zoppo comincia a zoppicare.

O perlomeno gli tocca camminare più piano.

Sarà, ma in ogni caso, a prescindere dai cliché e dalla proprietà transitiva dei proverbi, non avevo mai sentito parlare di una catarsi vegetale. Dico, guardatevi intorno, può assomigliare mai un arbusto al suo orticoltore? 

No, eh? Eppure credetemi, è innegabile che questo giardino abbia ormai assunto  l’inconfondibile impronta di chi se ne prende cura.

In effetti mancano solo i bigodini alle foglie e poi sarebbe il ritratto sputato della portiera, la signora Lina.

D’altronde però, mi dico mentre m’appresto al suo uscio per il consueto rito dei conti di fine mese, potrebbe darsi pure il contrario. Al punto, mi sovviene suonando il campanello ed ascoltando il ciabattare che proviene dall’interno, che varrebbe la pena di chiedersi se l’opulenza fisica di costei sia cresciuta per l’appunto di pari passo col rigoglio delle piante.  O il contrario, certo.

Probabilmente, penso dopo che quest’ultima mi ha schiuso l’uscio ed accolto con quel sorriso che le arriccia le rughe del volto in un’immutabile espressione di bonaria allegria, prima di diventare la portiera di questo stabile e di darsi da fare perché il giardino che lo circonda prosperi, poteva anche essere una donna completamente diversa. Chissà, francamente non ho la faccia tosta di chiederglielo, quantunque la mia sia una curiosità quasi pruriginosa.

Ad ogni modo non c’è tempo adesso per le mie speculazioni, tocca loro d’attendere, giacché, come al solito, per prima cosa mio impegno è quello d’oppormi a strenua difesa  ai reiterati assalti culinari cui la signora investe i suoi ospiti.

Desidero un caffè? Grazie ne ho già presi troppi per oggi.

Un dolcetto? Mi spiace signora, ma non piacciono, ricorda?

Allora un pezzo di torta rustica? Magari, ma sa ho pranzato da meno di un’ora…

Allora un digestivo, sennò m’offendo eh! E detto ciò mi tocca capitolare, altrimenti corro il rischio d’inimicarmela sul serio.

Così, sorbendo il nocino che, come tutto ciò che è commestibile all’interno di questa cucina, è stato fatto dalle sue industriose mani, diamo la stura al nostro lavoro. Mi mostra orgogliosa le ricevute dei pagamenti dell’elettricità e del gas, come se andare all’ufficio postale e pagarle sia una menzione d’onore, e m’illustra ciarliera tutte le difficoltà cui va incontro nella gestione dell’immobile. Inutile aggiungere che presto il discorso vira dal professionale al pettegolezzo. E’ inevitabile del resto, giacché nell’alveare di varia umanità che è questo stabile, convivono gli elementi più disparati e paradossali.

“Pensate che è sceso dalle scale bestemmiandomi addosso come un turco perché il vento gli ha tirato giù i panni.” Mi comunica riferendosi a Pasquale Lomunno, inquilino del terzo piano.

Ahi, ahi ci risiamo, mi dico fiutando rogne. Non è la prima volta infatti che questi due finiscono a questioni. Non più tardi di alcuni mesi fa, ricordo tentando di non palesare il fastidio, hanno discusso fino a quando gli astanti accorsi non sono intervenuti. Stavano arrivando persino alle mani e, per la cronaca, lei era armata di ramazza e lui di pantofola. 

Ad ogni modo pare che per oggi abbiamo già finito, anche se dovrò ripassare tra qualche giorno per i soliti morosi perennemente in ritardo sulla pigione.

Strano però che Donna Lina che non abbia tirato un affondo sulla melanconica dell’attico o sul visionario del quarto piano, penso ghignando mentre attraverso il cortile. Generalmente gli strali finali sono destinati a loro e raggiungono dei picchi di salacità di volta in volta tesi a superare quelli precedenti. Beh, sarà per la prossima volta. Figuriamoci se nel giro di qualche giorno non ci saranno nuove indiscrezioni.

Però, mi dico soffermandomi un momento e guardandolo come se fosse la prima volta, è davvero bello questo giardino. Non è accurato come potrebbe esserlo uno inglese, né ricercato come uno orientale. Piuttosto sa molto di vita vissuta, di gioie e miserie quotidiane, come se la natura sbocciasse al saldo di un debito o appassisse in base al tasso diabetico di un anziano.

Indulgo un attimo di più e la voglia di esplorarlo diviene irresistibile. Perciò m’inoltro e, con le scarpe che affondano nell’humus da poco rivoltato dalle zappate poderose della mia ospite, riprendo il filo del discorso interrotto dallo svolgimento delle mie modeste mansioni.

Sì, non c’è dubbio, prima di dedicarsi al palazzo, alla gente che lo abita e soprattutto alla cura di questo giardino, donna Lina doveva essere una persona completamente diversa. E più ci rifletto, più me ne convinco, tirando a casaccio le ipotesi, esattamente come sto lanciando i chicchi strappati al rododendro che orna la cinta.

E’ un vezzo che mi porto dietro dall’infanzia, tant’è ne ho fatto scorta all’ingresso e ora mi ci diverto a scatenare i frusci improvvisi delle lucertole in fuga, nonché il frullo dei passerotti che se ne volano via infastiditi dal mio giochetto.

Chissà, mi ripeto, magari così come fino al suo avvento questo pezzo di terra era incolto ed arido, allo stesso modo in passato la signora Lina sarebbe potuta essere patita e cupa. Assai diversa insomma dalla gioviale matrona dal chiacchiericcio instancabile e dalla tavola perennemente imbandita che conosco.

Provo a figurarmela, fermandomi a scopo evocativo davanti ai virgulti che timidamente fanno capolino al pallido sole di Marzo e tento di ritagliare dalla forma nota quella originaria. E vallo a capire adesso perché me la stia immaginando come una disfattista magra, dal disgusto perennemente inciso nei tratti.

Certo, se così fosse, a guardarla adesso, rifletto voltandomi giusto in tempo per scorgerla che dalla loggia scende a portarmi un sacchetto colmo d’arance, frutto dei suoi tanti coltivi, chi potrebbe crederlo?

Ma metti che, man a mano che i petali sbocciavano carnosi e le fronde degli alberi coprivano la visuale squallida di questa periferia zeppa di caseggiati popolari, abbia preso ad ingrassare e vestirsi di quei caffettani chiassosi quasi a ricalcare la cacofonia dei fiori da cui è circondata?  

Nel qual caso non sarebbe poi troppo strano. In fondo non si tende sempre a conformarsi allo sfondo che ci fa da cornice? E’ naturale, al punto che e non mi meraviglierebbe troppo neppure se scoprissi che, una volta sciolti dalla crocchia che li imprigiona, i suoi lunghi capelli stormissero alla brezza della sera.

Poggio una mano su di un tronco nodoso, che albero è?

Lo ignoro, pure il senso prepotente di osmosi che emana questo luogo pare contagiarmi e non posso far a meno di pormi una domanda. Non è il momento, né il luogo, ma eccomi qua a chiedermi se affondo le mie certezze nella terra, alla stregua delle poderose radici che calpesto, o le elevo incosciente verso l’alto, come queste fronde che, seppur terrestri, sfidano comunque il cielo.

Che razza di domanda! Sbraita una voce dentro di me. E continua petulante aggiungendo:

può mica essere sofista un giardino?

Non è un aggettivo che comunemente gli si attribuisce ne convengo e, se questo è l’effetto che mi fa il parziale ritorno all’agreste, la cosa migliore da fare è tornarmene immediatamente alle mura cittadine. Ché sì saranno pure senza vita e incolori, ma hanno il pregio di essere atone e non porre domande imbarazzanti.

Che se la goda la sua possidente l’influenza mutativa di quest’oasi, mi dico infine, attraversando in fretta il plagiante intrico di vegetazione.

Prendo dalle mani della portiera il dono che cerimoniosamente mi viene offerto e me la filo. Tutto ciò, sottraendomi a questo insospettato ginepraio, mentre la vita brulicante, chiassosa e un po’ monotona, continua a scorrere all’interno del palazzo.

 

   
 
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