Si
dice che col tempo i cani somiglino ai padroni, che la frutta non cade
mai
troppo lontano dall’albero e che chi va con lo zoppo comincia
a zoppicare.
O
perlomeno gli tocca camminare più piano.
Sarà,
ma in ogni caso, a prescindere dai cliché e dalla
proprietà transitiva dei
proverbi, non avevo mai sentito parlare di una catarsi vegetale. Dico,
guardatevi intorno, può assomigliare mai un arbusto al suo
orticoltore?
No,
eh? Eppure credetemi, è innegabile che questo giardino abbia
ormai assunto l’inconfondibile
impronta di chi se ne prende
cura.
In
effetti mancano solo i bigodini alle foglie e poi sarebbe il ritratto
sputato
della portiera, la signora Lina.
D’altronde
però, mi dico mentre m’appresto al suo uscio per
il consueto rito dei conti di
fine mese, potrebbe darsi pure il contrario. Al punto, mi sovviene
suonando il
campanello ed ascoltando il ciabattare che proviene
dall’interno, che varrebbe
la pena di chiedersi se l’opulenza fisica di costei sia
cresciuta per l’appunto
di pari passo col rigoglio delle piante.
O il contrario, certo.
Probabilmente,
penso dopo che quest’ultima mi ha schiuso l’uscio
ed accolto con quel sorriso
che le arriccia le rughe del volto in un’immutabile
espressione di bonaria
allegria, prima di diventare la portiera di questo stabile e di darsi
da fare
perché il giardino che lo circonda prosperi, poteva anche
essere una donna
completamente diversa. Chissà, francamente non ho la faccia
tosta di
chiederglielo, quantunque la mia sia una curiosità quasi
pruriginosa.
Ad
ogni modo non c’è tempo adesso per le mie
speculazioni, tocca loro d’attendere,
giacché, come al solito, per prima cosa mio impegno
è quello d’oppormi a
strenua difesa ai
reiterati assalti
culinari cui la signora investe i suoi ospiti.
Desidero
un caffè? Grazie ne ho già presi troppi per oggi.
Un
dolcetto? Mi spiace signora, ma non piacciono, ricorda?
Allora
un pezzo di torta rustica? Magari, ma sa ho pranzato da meno di
un’ora…
Allora
un digestivo, sennò m’offendo eh! E detto
ciò mi tocca capitolare, altrimenti
corro il rischio d’inimicarmela sul serio.
Così,
sorbendo il nocino che, come tutto ciò che è
commestibile all’interno di questa
cucina, è stato fatto dalle sue industriose mani, diamo la
stura al nostro
lavoro. Mi mostra orgogliosa le ricevute dei pagamenti
dell’elettricità e del
gas, come se andare all’ufficio postale e pagarle sia una
menzione d’onore, e
m’illustra ciarliera tutte le difficoltà cui va
incontro nella gestione
dell’immobile. Inutile aggiungere che presto il discorso vira
dal professionale
al pettegolezzo. E’ inevitabile del resto, giacché
nell’alveare di varia
umanità che è questo stabile, convivono gli
elementi più disparati e
paradossali.
“Pensate
che è sceso dalle scale bestemmiandomi addosso come un turco
perché il vento
gli ha tirato giù i panni.” Mi comunica
riferendosi a Pasquale Lomunno,
inquilino del terzo piano.
Ahi,
ahi ci risiamo, mi dico fiutando rogne. Non è la prima volta
infatti che questi
due finiscono a questioni. Non più tardi di alcuni mesi fa,
ricordo tentando di
non palesare il fastidio, hanno discusso fino a quando gli astanti
accorsi non
sono intervenuti. Stavano arrivando persino alle mani e, per la
cronaca, lei
era armata di ramazza e lui di pantofola.
Ad
ogni modo pare che per oggi abbiamo già finito, anche se
dovrò ripassare tra
qualche giorno per i soliti morosi perennemente in ritardo sulla
pigione.
Strano
però che Donna Lina che non abbia tirato un affondo sulla
melanconica
dell’attico o sul visionario del quarto piano, penso
ghignando mentre
attraverso il cortile. Generalmente gli strali finali sono destinati a
loro e
raggiungono dei picchi di salacità di volta in volta tesi a
superare quelli
precedenti. Beh, sarà per la prossima volta. Figuriamoci se
nel giro di qualche
giorno non ci saranno nuove indiscrezioni.
Però,
mi dico soffermandomi un momento e guardandolo come se fosse la prima
volta, è
davvero bello questo giardino. Non è accurato come potrebbe
esserlo uno
inglese, né ricercato come uno orientale. Piuttosto sa molto
di vita vissuta, di
gioie e miserie quotidiane, come se la natura sbocciasse al saldo di un
debito
o appassisse in base al tasso diabetico di un anziano.
Indulgo
un attimo di più e la voglia di esplorarlo diviene
irresistibile. Perciò
m’inoltro e, con le scarpe che affondano nell’humus
da poco rivoltato dalle
zappate poderose della mia ospite, riprendo il filo del discorso
interrotto
dallo svolgimento delle mie modeste mansioni.
Sì,
non c’è dubbio, prima di dedicarsi al palazzo,
alla gente che lo abita e soprattutto
alla cura di questo giardino, donna Lina doveva essere una persona
completamente diversa. E più ci rifletto, più me
ne convinco, tirando a
casaccio le ipotesi, esattamente come sto lanciando i chicchi strappati
al
rododendro che orna la cinta.
E’
un vezzo che mi porto dietro dall’infanzia,
tant’è ne ho fatto scorta all’ingresso
e ora mi ci diverto a scatenare i frusci improvvisi delle lucertole in
fuga,
nonché il frullo dei passerotti che se ne volano via
infastiditi dal mio
giochetto.
Chissà,
mi ripeto, magari così come fino al suo avvento questo pezzo
di terra era
incolto ed arido, allo stesso modo in passato la signora Lina sarebbe
potuta
essere patita e cupa. Assai diversa insomma dalla gioviale matrona dal
chiacchiericcio instancabile e dalla tavola perennemente imbandita che
conosco.
Provo
a figurarmela, fermandomi a scopo evocativo davanti ai virgulti che
timidamente
fanno capolino al pallido sole di Marzo e tento di ritagliare dalla
forma nota
quella originaria. E vallo a capire adesso perché me la stia
immaginando come
una disfattista magra, dal disgusto perennemente inciso nei tratti.
Certo,
se così fosse, a guardarla adesso, rifletto voltandomi
giusto in tempo per
scorgerla che dalla loggia scende a portarmi un sacchetto colmo
d’arance, frutto
dei suoi tanti coltivi, chi potrebbe crederlo?
Ma
metti che, man a mano che i petali sbocciavano carnosi e le fronde
degli alberi
coprivano la visuale squallida di questa periferia zeppa di caseggiati
popolari, abbia preso ad ingrassare e vestirsi di quei caffettani
chiassosi quasi
a ricalcare la cacofonia dei fiori da cui è circondata?
Nel
qual caso non sarebbe poi troppo strano. In fondo non si tende sempre a
conformarsi allo sfondo che ci fa da cornice? E’ naturale, al
punto che e non
mi meraviglierebbe troppo neppure se scoprissi che, una volta sciolti
dalla
crocchia che li imprigiona, i suoi lunghi capelli stormissero alla
brezza della
sera.
Poggio
una mano su di un tronco nodoso, che albero è?
Lo
ignoro, pure il senso prepotente di osmosi che emana questo luogo pare
contagiarmi e non posso far a meno di pormi una domanda. Non
è il momento, né
il luogo, ma eccomi qua a chiedermi se affondo le mie certezze nella
terra,
alla stregua delle poderose radici che calpesto, o le elevo incosciente
verso
l’alto, come queste fronde che, seppur terrestri, sfidano
comunque il cielo.
Che
razza di domanda! Sbraita una voce dentro di me. E continua petulante
aggiungendo:
può
mica essere sofista un giardino?
Non
è un aggettivo che comunemente gli si attribuisce ne
convengo e, se questo è
l’effetto che mi fa il parziale ritorno
all’agreste, la cosa migliore da fare è
tornarmene immediatamente alle mura cittadine. Ché
sì saranno pure senza vita e
incolori, ma hanno il pregio di essere atone e non porre domande
imbarazzanti.
Che
se la goda la sua possidente l’influenza mutativa di
quest’oasi, mi dico
infine, attraversando in fretta il plagiante intrico di vegetazione.
Prendo
dalle mani della portiera il dono che cerimoniosamente mi viene offerto
e me la
filo. Tutto ciò, sottraendomi a questo insospettato
ginepraio, mentre la vita
brulicante, chiassosa e un po’ monotona, continua a scorrere
all’interno del
palazzo.