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Autore: IvanaEfp    07/11/2010    5 recensioni
Maledì ad alta voce d’esser stato tanto stupido da lasciarsi uccidere dall’amore,maledì la femminuccia che era diventato.
Maledì le lacrime, la vita, il tempo; il tempo, solo padrone che egli riconoscesse e che aveva infranto tutte le cose belle della sua esistenza.
Per primo, Pierre.
Pierre l’aveva amato, ma amato per davvero.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Bibby, perché lei c'è sempre.

La mia prima Slash non può che andare a te.

 

 

Non è tempo per noi

 




“Il tempo passa.
Anche quando sembra impossibile.
Anche quando
il rintocco di ogni secondo
fa male come il sangue che pulsa nelle ferite.
Passa in maniera disuguale,
tra strani scarti e bonacce prolungate,
ma passa.”


 



Ormai gli capitava sempre più di frequente di alzarsi all’alba, con il cuore in gola e palpitante di paura; paura che lui non avrebbe adempito alle sue promesse e non sarebbe ritornato tra le sue braccia, paura della vita - quella vita che stava diventando faticosa e banale senza lui.
Anche quella volta, il cuore che gli batteva all’impazzata, si mise a sedere tra le lenzuola umide del letto, afferrando la bottiglia di vodka al suo fianco e cercando tra il liquido che gli bruciava la gola una qualche consolazione.
L’intruglio, però, ebbe il benefico effetto di decelerare di un po’ il ritmo impazzito del suo stupido cuore da umano; era dunque lui, quell’uomo di trent’anni che tremava sulla sponda del letto, all’alba? Erano lì che l’avevano condotto tanti anni di risate, spensieratezza e amori folli?
Si rituffò sul guanciale, lasciando che il contenuto della bottiglia si spargesse sulle lenzuola e stringendo il cuscino contro la sua guancia come se fosse stato, per sua natura, detentore di sonno provvidenziale.
Eppure i suoi di occhi non volevano saperne di chiudersi; rimanevano sbarrati, luminosi nel buio, cacciando poche lacrime quando si soffermavano su qualche foto frantumata sul pavimento.
Fu allora, quando essi si posarono per l’ennesima volta sul vetro rotto e le fotografie sbiadite a causa delle lacrime, che si rese conto che “la cosa” c’era, esisteva sul serio, e lui era malato.
Non malato d’amore, non solo almeno; ma malato.
L’amore per quel francesino tutto pepe, Pierre, lo stava uccidendo letteralmente; il cancro, ormai, era quasi del tutto diffuso e sempre più spesso, quando meno se l’aspettava, lo trafiggeva come lame d’acciaio nella carne.
Questione di attimi e si ritrovava ad annaspare alla ricerca di briciole d’ossigeno, a piegarsi in due dal dolore, a stringere forte i denti e piangere come un bambino.
E, per di più, era solo. Completamente ed assolutamente solo e malato.
Maledì ad alta voce d’esser stato tanto stupido da lasciarsi uccidere dall’amore, maledì la femminuccia che era diventato.
Maledì le lacrime, la vita, il tempo; il tempo, solo padrone che egli riconoscesse e che aveva infranto tutte le cose belle della sua esistenza.
Per primo, Pierre.
Pierre l’aveva amato, ma amato per davvero.
Aveva desiderato di baciarlo, di toccarlo, di stuzzicarlo e morderlo sin da quando, quel lontano 24 agosto dell’ 82, gli era stato presentato come suo nuovo collaboratore di ricerca, all’Albert Eistein Research Istitute.
Da allora, incessantemente, i suoi occhi vispi e blu come il fondo di una bottiglia d’acqua minerale, l’avevano tormentato giorno e notte.
Le sue mani, delicate ma forti e ben curate. Le sue labbra, carnose e rosee. Il collo esile, i capelli che scorrevano biondi e morbidi giù per la nuca, fino a terminare sulle spalle, con le punte rivolte all’insù, come il suo nasino piccolo.
Tutto lo affascinava ed eccitava nel contempo; ed era sempre lui, lui e quel suo sorriso bianco e perfetto, a farlo urlare di piacere nelle notti di caldo asfissiante chiuso in camera sua.
Per secondo, aveva portato via il legame che li univa.
Si, perché alla fine ce l’aveva fatta ad averlo tutto per sé; a farlo urlare tra le sue braccia più volte mentre il sole faceva capolino trasportando con sé una leggera brezza mattutina.
Perché c’era riuscito a fargli urlare quanto l’amasse ai quattro venti,a farsi presentare a tutti i suoi amici come l’amore della sua vita.
Perché, cosa alquanto soddisfacente, era riuscito a lasciarsi andare con lui; a bisbigliare quelle paroline dolci e troppo smielate che s’era promesso non avrebbe mai e poi mai detto.
Perché s’era umiliato, chiedendogli di fuggire a Las Vegas e sposarlo, ricevendo solo un netto e brutale rifiuto.
S’era umiliato, piangendo come un bambino quando Pierre l’aveva lasciato, quando era sparito, da un giorno all’altro, senza lasciare nessuna lettera,nessuna spiegazione.
Aveva portato via il loro amore, il tempo. Aveva frantumato l’idilliaca perfezione che era la loro unione, li aveva uccisi, li aveva divisi..
E sapeva, Dio se lo sapeva, che tutto quello lo avrebbe portato alla morte, fisica e non.
Sapeva che innamorarsi, che lasciare che ogni barriera doverosamente e scrupolosamente costruita nel corso della sua adolescenza scivolasse via per poter stringere meglio il corpo caldo e fragile dell’amante, l’avrebbe rovinato un giorno.
Sapeva, mentre le palpebre tentennavano affaticate, mentre l’ennesima fitta lo portava a contorcersi e mentre il viso di Pierre gli si materializzava per l’ultima volta, forse, d’avanti,che dopotutto quello che l’aveva ridotto in quello stato, l’aveva fatto perché era innamorato.
Lo aveva voluto, aveva scelto lui di farlo. Ed era stato il suo cuore, stupido muscolo che va per i fatti suoi, a scegliere per entrambi.
Si erano amati loro. Lo avevano fatto senza riserve, perché coscienti che un giorno sarebbe finito; così come lo sarebbero stati loro.
Chiuse gli occhi, cercando di assecondare quella strana stanchezza che lo invadeva; ma gli occhi restavano sbarrati, ancora.
Decise allora, di lasciare il suo letto, di rintanarsi dove il suo profumo era più forte, dove giacevano ancora i suoi vestiti, dove era impossibile annoiarsi o pensare a qualcos’altro.
E lì, tra i vestiti doverosamente ripiegati, giaceva una lettera: bianca, perfettamente liscia e senza imperfezioni.





Mio Amore,
Credo che quando leggerai questa lettera, sarò già a destinazione, lontano una volta per tutte dal tuo incessante pensiero.
Mi torturava sapere che tu fossi a pochi passi da me, ma che non potessi averti. Mi uccideva sapere che te ne stavi lì a consumarti giorno per giorno, a lasciarti rodere dal cancro.
Sapevo che avevi rinunciato alle cure perché ti sentivi in colpa, perché la mia assenza ti avrebbe fatto morire lo stesso e- con il senno di poi- ho preso una scelta. Starai ridendo di me. Io, sconsiderato ragazzino dagli occhi profondi, che finalmente divento un uomo.
Mi avvio con te, amore. Muoio con la speranza di rincontrarti un giorno.
Muoio . mentre qualcosa di molto simile ad un coltello d’acciaio nella gola mi impedisce di respirare-, per sgozzare i sendi di colpa, e la consapevolezza di essere stato il promotore principale della tua morte interiore.
Ma posso ancora combattere, perché finché so che i nostri sentimenti, sebbene sbagliati, esistono ancora, io sarò vivo; sarò accanto a te come lo sono stato in tutti questi anni.
Non ti lascio proprio adesso, perché posso ucciderti una volta, ma farlo ancora mi distruggerebbe. Non ti lascio,  perché so che farebbe male prima a te e poi a me, perché so che ti ho già fatto troppo male. E che non te lo meriti.
Ti aspetto, in una dimensione che non esiste magari, ma che io crerò per noi due, perché noi siamo importanti, lo siamo sempre stati.


Pierre.

 




Le lacrime gli rigavano il volto, eppure sorrideva: spontaneo,felice per la prima volta da secoli.
Pierre lo amava, quello importava più di qualsiasi altra cosa.
Si rintanò, consapevole tra i vestiti che odoravano di lui, poggiando il capo sul pavimento di granito freddo e stringendo al petto nudo e sudato la lettera sgualcita e bagnata dalle lacrime.
Per la prima volta, dopo anni passati insonni, dormì sonni tranquilli, assaporando la dolce sensazione del suo risveglio dell’indomani.

 









   
 
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