Nick: alida
Titolo: Quanto è
grande il tempo?
Personaggi: Severus Piton,
altro personaggio
Pairing: nessuno
Rating: Verde
Genere: Introspettivo
Avvertimenti: nessuno
Intro: Alle volte spazio e
tempo si confondono così
il tempo diventa uno spazio in cui si
vive, e lo spazio il tempo in cui viviamo.
NdA: Questa storia si
è piazzata seconda al Contest : Number 17
indetto da elyl, remvsg e piperina.
Quanto
è grande il tempo?
“Sbrigati,
Charlie!
Mamma ci sgrida se arriviamo in
ritardo”.
Ottima idea, Charlie. Ascolta tuo fratello,
dannazione! E’ già da
un’ora che cerca di convincerti.
“E
tu come fai a
sapere che siamo in ritardo? Non sai neanche leggere
l’ora”.
Allora insegnaglielo,
testa di
troll!
Il
piccolo Sam
abbassò lo sguardo di fronte all’evidenza. Lui
aveva solo cinque anni e benché
sapesse contare e scrivere fino
a cento,
non era in grado di leggere quel dannatissimo orologio azzurro che
aveva al
polso perché ogni volta che lo guardava le lancette
cominciavano a girare
all’impazzata.
“Dai,
Sam. Non è ora
di rientrare, possiamo giocare ancora un bel po’”.
Che Merlino mi fulmini! Cosa significa ancora un
bel po’? Sono le tre
del pomeriggio, i bambini dovrebbero stare a casa a riposare oppure a
studiare.
“Quanto
dura –ancora
un bel po’-?”.
Domanda intelligente.
“Dura
un bel po’!”
rispose Charly scocciato.
Che risposta stupida.
Sam
come Severus, che per l’ennesimo
pomeriggio a Spinner’s End
non riusciva a riposare dopo il pranzo, non era per niente soddisfatto
della
risposta. Un bel po’ poteva essere dalla stradina polverosa
del quartiere fino
al parco, ma anche dal panificio del signor Finningam
fino al semaforo accanto alla banca che però
era molto meno distante rispetto al primo percorso ma comunque era un
bel po’.
Sam
arricciò il naso
e domandò: “Quanto è grande un bel
po’ di tempo? Da qui fino al parco?”.
Charlie
sbuffò e
allargando le braccia sconsolato, stanco di dover spiegare tutto al
fratellino
più piccolo, rispose: “Tu sei bacato! Te lo dico
io, tu hai qualcosa che non
va. Il tempo non può essere grande, il tempo è
…”.
Sentiamo un po’ cosa gli risponde
…
“…
il tempo è, è
quando si conta. Quando tu conti,
stai misurando il tempo. Da qui al parco non
è un tempo, è uno spazio”.
Beata innocenza.
“Io
non ho capito!”
affermò deciso Sam.
Non ha capito niente neanche Charlie, nessuno ha
mai capito niente.
Charlie
tagliò corto,
prese per mano il fratello e lo portò
dietro un palo. “Quando sarai grande ti
spiegherò meglio questa storia
del tempo, adesso però giochiamo. Tu conti sino a venti e io
mi nascondo. Sei
pronto?”.
No, Merlino! Nascondino no!
Sam
si dimenticò in
un attimo del tempo e dello spazio, sorrise mostrando tutti i suoi
dentini da
latte mentre il fratello maggiore cominciava
a correre via, e poi iniziò a
contare: “Uno, due, tre ..”.
“Più
piano, così non
vale!” urlò Charlie.
Si, certo. Così
non la finite
neanche fra vent’anni.
“Cinque,
sei, sette,
otto, nove-dieci-undici …” continuò il
piccoletto sempre più in fretta.
“Sam!”
lo rimproverò
l’altro.
Basta con le urla, non ne posso più!
“Dodici,
tredici,
quattordici …”.
Severus
si alzò dalla
poltrona nella quale aveva cercato disperatamente di appisolarsi,
indossò il
mantello nero, che di solito usava solo nel mondo magico, con il chiaro
intento
di spaventare i due bambini e uscì per la strada
schiarendosi la gola per
lanciare un formidabile urlo.
“Quindici
…”
“Ma
insomma si può
sapere …” cominciò a sbraitare
avvicinandosi a Sam che era l’unico in bella
vista.
“Sedici
…”
“
… per quanto tempo
ancora …”
“Diciassette”
“continuerete
a fare
tutto questo …”
“Diciassette”
“chiasso!
Non avete
una casa …”
“Diciassette”.
Severus
raggiunse Sam
che non sembrava essersi accorto dell’uomo dal mantello nero,
e continuava a
ripetere come un disco rotto: “Diciassette”.
Severus
gli si mise
di fronte e in
momento ebbe un brivido,
Sam non era Sam, era lui, era Severus da bambino, aveva gli occhi pieni
di
lacrime e continuava a ripetere: “Diciassette”.
Poi si sentì un urlo e un fischio lungo, prolungato e
ritmico.
Severus
tese le
orecchie per capire da dove arrivasse il fischio e quando si
voltò verso Sam,
questo non
c’era più.
Drin-drin!
Drin-drin!
Drin-drin!
La mano di Severus colpì con forza la sveglia maledicendosi di averne comprata una. Il professore sbadigliò, poi si strofinò le mani sul viso e fece un lungo e profondo respiro. Come ogni anno, quando si stava per avvicinare il diciassette agosto, faceva sempre lo stesso sogno.
Tante volte si era chiesto come mai lui sognasse bambini, e perché uno di questi si trasformasse in se stesso, e naturalmente non aveva mai ricevuto nessun tipo di risposta. Inoltre non era mai riuscito a capire che importanza avesse il numero diciassette che il piccolo Sam continuava a ripetere.
Quell’anno, a differenza degli altri, Severus si trovava a Hogwarts perché Silente lo aveva informato, semmai fosse stato necessario, che Harry Potter avrebbe iniziato la sua carriera scolastica e bisognava assolutamente discuterne con calma. Tuttavia i pensieri del professore di pozioni erano altrove.
Ogni volta che Severus faceva sogni che lo inquietavano, al suo risveglio aveva l’impressione che i luoghi in cui viveva si restringessero; così i suoi alloggi ad Hogwarts sembravano ridursi fino a soffocarlo. Per sfuggire a quest’opprimente sensazione aveva preso l’abitudine di camminare a passi svelti, agitando il suo mantello quasi che, così facendo, arrivasse più ossigeno ai polmoni, al sangue e dunque al cervello e lui potesse ritrovare la concentrazione necessaria per capire che era tutta un’illusione.
Le stanze non si restringevano, lui respirava benissimo e i sogni erano solo sogni. E sì, anche perché Severus non aveva mai conosciuto nessuno che si chiamasse Sam. Questa era una certezza. Erano ormai tanti anni che ci rifletteva su, e nessun Sam era mai entrato nella sua vita, e se anche fosse stato non doveva trattarsi di una persona importante o se ne sarebbe ricordato di sicuro.
In tutti questi anni di riflessione aveva imparato due cose importanti: la prima era che una lunga distanza poteva sembrare piccolissima se la si percorreva tutti i giorni per diversi anni , e la seconda era che non bisognava mai camminare a capo chino.
Questo gli aveva impedito di andare a sbattere contro muri, cose, persone e Silente che, come in quel momento, sbucava fuori sempre dai luoghi più insensati come un fantasma.
“Albus!” esclamò trovandoselo di fronte all’improvviso “Sarei proprio curioso di sapere …”
“E io sarei ben felice di soddisfare le tue curiosità ma si dà il caso che abbiamo cose più stringenti di cui discutere”.
“E di che cosa dovremo parlare?”.
“Non di cosa ma di chi, Severus”.
Il pozionista, concentrato nei suoi pensieri, rispose immediatamente: “Ne parliamo tutti gli anni, Albus. Io non so chi siano questi bambini”.
Silente capì subito e mettendogli una mano sulla spalla lo fermò. “Io intendevo dire che dobbiamo parlare di Harry Potter”.
Severus rimase interdetto dal proprio comportamento, aveva abbassato la guardia, aveva dato informazioni di se stesso senza che nessuno gliele chiedesse, insomma si era scoperto.
Silente vide la preoccupazione negli occhi dell’amico fidato e cercò di rassicurarlo ben sapendo che non sarebbe servito a molto. “Non è così grave, Severus. Di me ti puoi fidare”.
Il pozionista si aggiustò le maniche della tunica nera che spuntavano dal mantello, era chiaramente in imbarazzo e questo non gli piaceva. “Lo so, ma vorrei smettere di sognarli, o forse dovrei dire di sognarmi”.
“Nessuno può decidere cosa sognare, l’unica cosa che possiamo fare noi maghi è quella di bere una bella pozione Sonno senza sogni. Tuttavia così non risolveresti niente, invece mi piacerebbe sapere cosa ti spaventa, del resto sono solo bambini”.
“A me piacerebbe sapere che senso ha questo sogno, perché lo faccio? C’è qualcosa che mi riguarda che è nascosto in me e non riesco a tirarlo fuori, anzi lo nascondo …”
“No, semmai è il contrario, attraverso i sogni stai cercando di esternare la verità che è in te”.
“Ci sono troppe verità in me che vorrei dimenticare per sempre” affermò con amarezza il professore.
“Senti, Harry Potter può aspettare ancora qualche giorno. Tu lasciati andare al tuo sogno e vedrai che tutto si sistemerà”.
“Lasciarmi andare? Non riesco a farlo da sveglio figuriamoci quando sono addormentato!”.
Silente sorrise di malinconia e, con convinzione, gli suggerì: “Parti da ciò che conosci e poi prosegui senza indugi”.
Severus annuì, era un buon consiglio, doveva rilassarsi e ragionare su Sam, Charlie e il diciassette.
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Senza rendersene conto cominciò a camminare per l’antico castello, a ripercorrere i corridoi ormai senza segreti , come se questi fossero i passaggi della sua mente; a osservare i personaggi dei quadri che si muovevano entro il loro spazio limitato sebbene avessero la possibilità di passare di quadro in quadro a loro piacimento.
Mentre lui era stato costretto a spostarsi di stanza in stanza per sfuggire alle ire del padre, di aula in aula per scappare dagli scherzi dei Malandrini, sempre alla ricerca di un luogo fisso in cui sistemarsi e non fuggire più, sennonché una volta stabilitosi a Spinner’s End o ad Hogwarts aveva capito che non si può fuggire da un luogo quando lo si porta dentro l’anima.
Allora l’unico modo per andare avanti era quello di ripercorrere i propri passi, di stanza in stanza, di aula in aula, e affrontarli e allo stesso modo bisognava tornare indietro con i ricordi e risalire a tutti i diciassette della propria vita.
Di diciassette in effetti ce n’erano pochi nella sua vita.
Il diciassette agosto di undici anni prima Silente gli propose di insegnare Pozioni ad Hogwarts.
Era un diciassette anche il giorno in cui sentì la profezia della professoressa Cooman su un bambino che avrebbe dovuto sconfiggere il male assoluto.
Anche le erbe base sulle quali si fondava l’arte pozionistica erano diciassette.
Il diciassette luglio gli arrivò la lettera con la quale veniva ammesso alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.
E prima di quella data … c’era solo un altro diciassette. Severus se ne ricordò all’improvviso passando accanto ad un quadro che raffigurava l’espresso per Hogwarts mentre fischiava allegramente.
Ciuf, ciuf!
Ciuf, ciuf!
Quando era piccolo un bambino che lui conosceva era stato investito da un treno. Il treno numero 171.717 ovvero il diciassette-diciassette-diciassette.
Severus sentì
una vocina nella sua testa: “Intanto
inizia a contare, poi un giorno ti insegnerò a leggere
l’orologio”.
Era un bambino scuro, aveva i capelli neri, gli occhi neri e la pelle scura ma non nera. Severus si sforzò di ricordare il suo nome ma senza successo. Non era inglese, doveva essere spagnolo o portoghese, diceva sempre di avere un nome da re.
“Carlos!” esclamò il professore soddisfatto “Ecco come si chiamava, Carlos”.
Il sorriso di soddisfazione che si formò sulle sue labbra ben presto scomparve e al suo posto comparve una smorfia di dolore, mentre ormai i suoi passi lo avevano portato già fuori dal castello.
“Non puoi chiamarti Carlos, non
è un nome inglese”.
“E tu non puoi chiamarti Severus, sembra
il nome di un bambino
dell’antica Roma”.
“Allora da oggi ti chiamerò
Charles, mi sembra molto più dignitoso e
regale”.
“E io ti chiamerò
Sam”.
“Ma non somiglia a Severus”.
“Meglio così. Sai, non hai un
gran nome. Adesso iniziamo a giocare a nascondino, e comunque non ti
preoccupare, quando imparerai a leggere l’orologio ti potrai
chiamare come vorrai”.
“E quanto tempo ci
vorrà?”.
“Dovrai imparare a contare fino a diciassette
mila”.
“Ma
diciassette mila è da qui fino a
Edimburgo”.
“Non importa fin dove è, tu
impara a contare fino a diciassettemila e
poi vedremo il da farsi”.
“Va bene” rispose il piccolo
Severus.
“Mi raccomando, non imbrogliare e conta
piano”.
La voce di Carlos era forte e cristallina come se a parlare con il professore fosse qualcuno che gli stesse accanto. Dal promontorio in cui si trovava, Severus poteva vedere la Foresta proibita spaziare in lontananza. Lo spazio sempre più grande alla vista diventava enorme nel cuore che aprendosi ai ricordi rendeva il pozionista libero di giungere alla verità.
E la libertà era leggera, pesava di quella leggerezza che permette alle lacrime di scendere senza vergogna.
Toc, toc.
Tobias non era in casa e fu Eileen ad aprire la
porta e parlare con uno
sconosciuto mentre Severus ascoltava da dietro la porta del soggiorno.
“Buongiorno” disse
l’uomo con il cappello in mano.
“Buongiorno” rispose
freddamente la donna credendo che il tale fosse un
amico di suo marito venuto per riscuotere qualche debito.
“Sono qui per parlare con Sam”.
Da dietro la porta del lugubre soggiorno Severus
sussultò; qualcuno, un
adulto, conosceva il suo nome segreto. Chi mai poteva essere?
Eileen si ritrasse ancora di più.
“Qui non vive nessun Sam” rispose
cercando di chiudere la porta, ma l’uomo allungò
le mani che stringevano sempre
più forte il cappello nel tentativo di fermarla.
“Forse non è il suo nome di
battesimo” specificò l’uomo
“Ma posso dirle
che è un bambino di circa cinque anni. Era un amico di mio
figlio Carlos”.
A Eileen bastò questo per dare un
po’ di fiducia al signore che
sembrava davvero afflitto e sconsolato. Severus aveva cinque anni e da
alcune
settimane, forse più, spesso si tratteneva fuori casa a
giocare, anche se lei
aveva sempre creduto che giocasse da solo.
“Senta, mio marito starà per
tornare, se non è urgente…”.
“Sarò breve”
affermò l’uomo mentre lisciava il suo cappello di
lana
“Dica a Sam che Carlos non c’è
più, ieri sera è stato investito da un treno
…”
Dal soggiorno giunse un forte: “No! Non
è possibile!” che gonfiò di lacrime
gli occhi dei due adulti certi di aver trovato Sam.
“Oh, mi dispiace così
tanto” rispose Eileen portandosi una mano alla
bocca per trattenere un urlo di disperazione che non venne ma
restò
intrappolato nella gola al pensiero di un bimbo morto in modo
così tragico.
“Il treno numero 171.717”
specificò il padre di Carlos come se in quel
modo si mettessero in ordine le cose che di colpo sembravano mescolarsi
confusamente.
“Glielo dirò e se permette
vorrei portare mio figlio al funerale di
Carlos” propose Eileen che non era certa di credere in Dio ma
sperava comunque
che esistesse.
“Al funerale” ripeté
l’uomo lasciando che l’amarezza prendesse il posto
del dolore.
“Dio è vicino al suo bambino
adesso” gli disse Eileen.
“Dio? Dio non esiste, signora, se ci
fosse non sarebbe così crudele”.
Eileen sospirò. “Non sempre
possiamo capire”.
L’uomo cominciò a singhiozzare
e con i grossi pollici delle mani cercò
di asciugare le lacrime. “Mi scusi, mi scusi”.
“Non deve”.
“Allora vi aspetterò, adesso
vado via. Saluti tanto Sam, la sua
amicizia ha significato molto per Carlos. Arrivederci”.
“Arrivederci”.
Eileen chiuse la porta e andò a cercare
suo figlio. Era chiuso in
camera sua con in mano una penna e un foglio di carta e piangeva.
“Non ci riesco, non ci riesco”
ripeteva.
“Cosa stai cercando di fare?”
chiese Eileen.
“Sto cercando di scrivere ma non ci
riesco. So contare solo fino a
cento”.
“Cosa devi scrivere, Severus. Dillo alla
tua mamma”.
“Devo scrivere, Charlie, treno numero
171.717, ma il numero è troppo
grande io so contare solo fino a cento” rispose mentre i
lacrimoni cadevano
pesanti sulla carta.
“Non serve contare così tanto,
basta che scrivi diciassette,
diciassette, diciassette”.
Severus sollevò lo sguardo verso sua
madre è ripete: “Diciassette,
diciassette, diciassette”.
Il Platano picchiatore era immobile, nessuno era andato a disturbarlo quel giorno e neanche Severus si permise di farlo. Gli passò attorno senza svegliarlo e poi prese la piccola discesa che portava ad un piccolo lago; anche l’ultimo andito della sua memoria era stato percorso e Severus ebbe l’impressione che l’intera Gran Bretagna fosse ai suoi piedi.
Charlie
alias Carlos, Sam alias Severus.
Un sorriso nacque sul viso del professore quando due piccole voci si insinuarono tra le sue lacrime e la sua mente.
“Charlie, quanto è
diciassettemila? Da qui fino a Edimburgo?”.
“No, Sam. E’ da qui fino a
quando cambierai il tuo nome”.
“A me piace essere chiamato
Sam”.
“Allora diciassettemila è
adesso!”.