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Autore: C_Moody    10/11/2010    0 recensioni
" In questa sera della vigilia di Natale, attorno a tutte queste persone diventate miei parenti, a questa tavola dove abbiamo gustato deliziose pietanze preparate da me e mia suocera, mi è stato nuovamente chiesto di tirar fuori la mia storia. Questa volta però è stato meno difficile, con tempo e amore tutte le ferite rimarginano."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Johnny ed io ci siamo sposati il 6 novembre 2003, dopo alcuni anni di raro amore. E dico raro perché ci vedevamo al massimo una volta a settimana ma vivevamo quei venti minuti a pieno, come se fossero gli ultimi. Lui mi coccolava con tenerezza tale che mi faceva tornare in mente Stella. Johnny aveva proprio l'innocenza di un bambino. Quel giorno nevicava, era molto bello. Le nozze ci sono state concesse all'interno della struttura, con la benedizione del prete del carcere. Tutto è stato molto semplice: il mio abito rosso pallido, le piccole fedi da bancarella, l'abito di Johnny. Ce li aveva procurati una ex detenuta di mia conoscenza; ci stavamo simpatiche e con la nostra semplice amicizia avevamo arricchito le nozze. I nostri testimoni sono stati Gina e Adam, fratello di Johnny. Tutto è andato alla perfezione. Il direttore ci ha scattato alcune foto e poi ci è stato offerto un buffet, anche questo molto discreto. Prima di sposarci, ne avevamo parlato per molto tempo. Era molto ben informato della mia situazione, dei miei errori, ma non si era lasciato scoraggiare dalle ombre del mio passato e mi aveva sempre amata. Io gli ero molto grata di questo. Lui era una persona molto trasparente, genuina, semplice e tanto tenera, non c'era mai stata una lite fra di noi. Jesse era spiritualmente molto lontano da me, nonostante i miei sforzi per eliminare l'universo fra di noi. Con Johnny invece era diverso, eravamo in sintonia e adoravamo chiacchierare, senza dire molto ci capivamo perfettamente. Mi aveva detto il motivo della sua detenzione di sua spontanea volontà: rapina. Non sapevo se ridere o piangere. Certo, la rapina è una cosa grave, sbagliata. Ma io che ero finita dentro per ragioni ancora più gravi, la vedevo diversamente. Lui sarebbe uscito di prigione prima di me. Questo mi riempiva di paure e dubbi.
 
Dato che il direttore e gli agenti erano ben al corrente del nostro amore e vedevano la nostra buona condotta, ci è stata regalata, lusso supremo, la nostra prima notte di nozze. In qualche modo avevano legato due letti singoli in una cella vuota e ci avevano chiusi lì. Toglieva il romanticismo il fatto che avessimo il tempo contato: solo due ore. A tempo scaduto, ci venivano a prendere per ricondurci nuovamente nelle nostre rispettive celle. Ma è stato straordinariamente tenero. Lui era nervoso, maldestro, dava l'impressione di non saperci fare e questo lo rendeva ancor più tenero. Sempre meglio di Jesse, che con la sua aria da latinlover mi faceva sentire stupida. Penso che per Johnny sia stata la prima volta da innamorato. Al termine delle due ore, ero parecchio seccata, avrei voluto restare con lui per sempre. Volevo dormire con lui, ne avevo abbastanza di dormire da sola. Volevo solo stare con mio marito. In ogni modo, senza fiatare mi sono diretta alla mia cella. Erano stati molto carini ad organizzare quella piccola isola d'amore in mezzo all'oceano infestato da squali. Era incredibile pensare che nel posto sbagliato e più impensabile di tutti, io abbia trovato l'amore, quello vero. Sarebbe meschino dire che grazie ai miei brutti atti commessi io sono finita in prigione, ho trovato l'amore e sono stata felice e contenta. Non potevo dirlo, era sbagliato. Se avessi potuto tornare indietro nel tempo non avrei rifatto l'errore.
Se Johnny ed io eravamo destinati ad amarci, allora ci saremmo trovati da un'altra parte comunque.
 
La mattina seguente non ero più Luna Nicole Williams. Ero Luna Nicole Irvine. La signora Irvine. Anche se ci vedevamo saltuariamente, era sempre un immenso piacere incontrarlo, stringerlo fra le mie braccia e distruggere così i pensieri negativi. Per la prima volta dopo tutti quegli anni passati a stringere i denti e soffrire, io mi sentivo sicura fra le braccia di qualcuno. Era un rischio, quelle braccia potevano scomparire. Niente è per sempre. Ma finché durava, me la godevo. Avevo cercato lo stesso conforto fra le braccia di Jesse, ma lui era uno che si reggeva tranquillamente sulle proprie gambe e pretendeva che io facessi ugualmente. L'avrei fatto, certamente, ma non allora, le ferite erano troppo fresche, avevo bisogno di conforto, di qualcuno che mi sostenesse mentre riprendevo a camminare. Jesse era dotato di un orribile mancanza di tatto, di comprensione. Alla fine ce l'avevo fatta a rialzarmi, ma da sola e ciò mi aveva molto indurita. Ero stata privata di quel conforto che ora, un po' troppo tardi, poteva darmi solo Johnny, mio marito. Potevamo appoggiarci l'uno all'altra e riprendere a camminare insieme. È così che deve essere il matrimonio. Non credo che sarei arrivata alle nozze con Jesse, anche se lo amavo tanto. Nel mio cuore non era rimasto più nulla per lui, dovevo dedicarmi solo ed esclusivamente a Johnny.
 
Durante l'orario di visite esterne io dedicavo il mio tempo al disegno, alla poesia o alla chiacchiera con Gina, convinta al cento per cento che nessuno sarebbe venuto a visitarmi. Ero tutta immersa nella scrittura di una poesia per Stella quando una poliziotta ha battuto il manganello contro le sbarre della cella.
"Williams, visite."
"Io? Visite?"
C'era sicuramente un malinteso. La poliziotta era molto sicura di aver sentito bene ed esser venuta a chiamare me. Ma io non capivo. Ero uscita dalla cella ancora perplessa, quando fuori dalla stanza visitatori ho visto Johnny che mi stava aspettando.
"Vieni amore, voglio presentarti mia madre."
Ero scioccata al punto di cadere in ansia, non avevo avuto neanche il tempo di darmi una sistemata ai capelli, niente.
"Ma Johnny, sono un disastro! Dovevi darmi tempo per sistemarmi..."
I suoi occhi azzurri si erano posati sui miei occhi verdi, con un mix di magia. Con la sua dolcezza caratteristica mi aveva sussurrato: "Sei magnifica."
La signora Irvine, mia suocera, era una persona davvero in gamba. Era molto gentile con me anche se mi trattava in modo strano. Cercavo di non innervosirmi, ma la signora mi trattava come se fossi di cristallo, quasi premurandosi che tutto intorno a me fosse perfetto. Mi faceva sentire un vasetto di nitroglicerina. Capivo che lo faceva per non mettermi a disagio, ma dava l'impressione che in realtà cercasse di non far esplodere la mia vena assassina. Mi sarei abituata, pensavo, o lei si sarebbe convinta che non ero pericolosa. D'altra parte era la madre di Johnny, sentivo che mi doveva star simpatica per forza.
 
 
Quando Gina se n'è andata, i primi giorni mi sentivo smarrita. Mi mancava. Per un po' non si era fatta vedere, ma poi mi veniva a visitare praticamente tutte le settimane, portandomi dolci, fogli per i miei disegni e tante altre cose. Era diventata una buona amica per me, un tesoro introvabile. L'amica un po' pazzerella che nella mia infanzia e adolescenza era mancata.
Tutto stava cambiando in prigione. Gli agenti cambiavano, le detenute finivano di scontare le loro pene e se ne andavano, quindi ne arrivavano delle nuove. L'ambiente era sempre più ostile e io incominciavo ad averne abbastanza di quel posto. Mi restavano ancora parecchi anni da scontare e mi parevano lunghissimi. Dopo alcuni mesi dalla partenza di Gina, mi ero unita ad un gruppetto di detenute che erano lì da tanto tempo quanto me e insieme guardavamo dall'alto in basso le nuove arrivate. Se fossi stata un po' più cattiva, probabilmente avrei picchiato a sangue quelle donne finite dentro per aver ucciso i propri figli. Ma non ero quel tipo di persona, non sarei arrivata a tanto, volevo lasciare da parte il mio essere troppo impulsiva. Era come lottare contro il demone dentro di me. Comunque, con quelle donne mi limitavo a non parlarci, non le guardavo neanche. Per me non esistevano. I figli sono sacri. I bambini sono intoccabili.
 
 
È stato un brutto giorno quando anche Johnny e suo fratello hanno finito di scontare la loro pena. Ero molto triste, mi sarebbe mancato da morire. A quel punto non avrei avuto più nulla di "familiare" lì dentro. Non c'era più Gina, non c'era più Paul con il quale avevo un bel rapporto d'amicizia, e adesso se ne andavano anche mio marito e mio cognato. Anche lui era molto triste ma mi aveva promesso che sarebbe rimasto nei paraggi, venendomi a trovare tutti i giorni. Forse l'avrei visto più di quanto lo vedevo in carcere. Quando ci siamo salutati, non volevamo più sciogliere il nostro abbraccio. Avevo insistito affinché fosse felice di ritrovare la libertà e non rifare errori. L'ho visto voltarsi e guardare indietro mentre attraversava la porta a vetri che separava la prigionia dalla libertà. Aveva passato gli ultimi sei anni della sua vita lì dentro. Tornare fuori per lui significava ricominciare tutto da zero. Avrebbe voluto tornare in patria, in Irlanda, ma aveva una moglie in questo paese ed era deciso a non lasciarla sola neppure un secondo. Non so chi dei due avesse più paura dell'abbandono. 
Anche Johnny, una volta fuori, ci aveva messo un po' prima di tornare a visitarmi, proprio come Gina. Pare che dopo così tanti anni di carcere, ce ne siano di cose da fare fuori. Erano passati solo quattro giorni dalla sua partenza, ma a me erano sembrati secoli.
"Williams, visite."
Non me lo facevo ripetere due volte. Mi sistemavo un po' e correvo verso la sala visitatori come un fulmine, con la poliziotta che non riusciva a starmi dietro.
"Johnny, ci hai messo tanto! Mi sei mancato!"
Gettarmi fra le sue braccia era una cosa dalla quale ero diventata dipendente. Lui mi spiegava che voleva darmi una buona notizia quando sarebbe tornato a trovarmi ma prima doveva ricevere conferme. Gli avevo chiesto di cosa si trattasse.
"Ho un lavoro!" Mi aveva risposto.
Ero così orgogliosa di lui che l'avrei omaggiato con premi d'amore. Anche lui era fiero di sé e mi diceva che con quei soldi avrebbe pagato una pensioncina vicino al carcere, si sarebbe pagato da mangiare e avrebbe coperto qualche piccola spesa risparmiando un po' per potermi pagare il biglietto per l'Irlanda. Ma io gli ho garantito che con i soldi dell'assicurazione dei miei genitori ce la saremo cavata più che bene. Così, ogni volta che tornava a trovarmi mi raccontava sempre dei progressi che faceva nel lavoro, delle telefonate di sua madre nelle quali lo pregava di salutarmi e io lo ascoltavo, l'avrei ascoltato per ore e ore. Mi portava sempre dei regali anche se il miglior regalo era la sua compagnia. Senza le persone conosciute, uscivo raramente dalla mia cella che, tra l'altro, non condividevo con nessuno. Ero sola lì dentro, potevo riflettere per delle ore intere senza interruzioni e guardare le foto che tenevo insieme ai miei disegni. La foto di Stella, che avevo staccato dal muro per paura di sciuparla. Era l'unica foto che avevo di lei, scattata poco prima della sua morte, la mattina prima dell'aggressione. La conservavo gelosamente, avevo paura di dimenticarmi il suo visetto d'angelo. Tenevo anche una foto di famiglia, Stella aveva appena otto mesi. Avevo le copie delle foto del mio matrimonio. Benché non fosse come l'avevo sempre sognato, con l'abito bianco da favola, l'altare, la festa, la luna di miele e tutto il resto, era sempre il mio matrimonio e amavo tantissimo la persona con il quale l'avevo celebrato. 
Una foto che non ho mai confessato di avere è la foto della mia follia omicida. Ci sono Jesse e la sua Allison, sdraiati sul letto sporco di sangue, mano nella mano, con due buchi sulla fronte ognuno. È una foto orribile, macabra, l'avevo scattata con la macchina istantanea, la polaroid che gli avevo regalato per il suo compleanno. L'ho conservata come prova di quanto in là si è potuta spingere la mia follia. L'ho sempre tenuta ben nascosta, in attesa di vergognarmi e bruciarla un giorno. Mi ero vergognata molto del mio atto, ma per non dimenticare di cosa esattamente mi ero vergognata, ho conservato la prova.
 
Dopo tre anni passati con le visite di Johnny, ero arrivata al punto in cui nulla riusciva a farmi stare bene. La parola libertà mi tormentava giorno e notte, mi sembrava d'impazzire fra quelle mura. Soffrivo un'altra volta di solitudine e spesso giocherellavo con la forchetta sul vassoio senza riuscire a mandar giù boccone. Dopo tre mesi ero pelle e ossa. Un agente si era pure preoccupato e mi aveva prenotato una visita con il medico del carcere. Una serie di noiosissime analisi che non erano servite a nulla, poiché ero sana ma ero anche molto depressa. Allora hanno avuto la "splendida" idea di mandare il prete a parlare con me. Io non avevo peccati recenti da confessare. Padre Oscar era una persona gradevole ma abbastanza fissata con la fede. Mi riempiva la testa a suon di "abbi fede in Dio", "Dio non ti ha abbandonata", "Dio ti vuole bene" e bla bla bla... Facevo finta di essere d'accordo giusto per non farlo incapponire nel suo compito di salvare la pecora smarrita. Qualche volta riusciva persino a risollevarmi il morale, ma di poco. Non appena se ne andava, pluff, la serenità svaniva e soffrivo di tachicardia e improvvisi tremori. Dopo tutto quello che avevo sofferto, l'esistenza di un Dio mi pareva impossibile, logicamente.
 
Di quella mattina ricordo solo che c'era molto vento. Una giornata partita malissimo perché anche tenendo chiusa la piccola finestra, questa sbatteva per via della forza del vento facendo un rumore insopportabile che mi aveva svegliata di buon ora, per questo ero di cattivo umore. L'agente Smith mi stava già cercando. Non era orario di visite per cui avevo motivi validi per temere. Solo durante il tragitto, mi ero accorta che mi stava portando all'ufficio del direttore. Male non fare, paura non avere. Ma non avrebbe funzionato con me, nell'ultimo periodo ero molto stressata e qualunque cosa mi avrebbe fatto piangere. Temevo quel posto, e temevo lui. Non era cattivo, anzi. Ma per me, il fatto che lui avesse il potere significava rispetto e addirittura sottomissione assoluta.
"Bene signora Irvine, come va?"
"Si va avanti, signor direttore."
"Benissimo. Questa che Le sto per dire è una cosa che ho deciso io personalmente, poi mi sono consultato con il suo avvocato ed era d'accordo anche lui."
"Di che si tratta, signor direttore?"
Cercavo di nascondere le mie ginocchia tremanti sotto alla scrivania. Mi veniva da urlare che non avevo fatto nulla, che ero stata buonissima e non capivo perché; come un brutto scherzo della mia mente, la parola sentenza aveva preso a tormentarmi. Sarò giustiziata? Mi costringevo a restare calma, ad apparirlo almeno, e ad ascoltare.
"Se Lei è d'accordo, vorrei iniziare con le trattative per il suo rilascio con sconto di pena per buona condotta."
Cosaaa? L'aria aveva incominciato a mancarmi. Dunque potevo uscire? Non riuscivo a mettere a fuoco l'immagine della libertà, nonostante negli ultimi anni fosse diventata la mia ossessione. Ma poi ho pensato che quelle trattative non si sarebbero mai concluse, non nel mio caso. Ero troppo depressa per crederci e poi i genitori delle mie vittime non l'avrebbero mai permesso. D'un tratto, non avevo più stupide illusioni in testa. 
"Vede, Lei è stata la più corretta di tutte le detenute. Esiste quindi la possibilità che io la faccia uscire per buona condotta. È d'accordo?"
"Sì, signor direttore."
Si sarebbe messo subito d'impegno. Io stavo tornando in cella con le lacrime negli occhi. Decisa a non dirlo a nessuno, nemmeno a Johnny, e di costringermi a restare con i piedi per terra. Ma era impossibile e una volta arrivata in cella avevo ammucchiato tutte le mie poche cose su una coperta che mi aveva regalato Gina. Così, se dicevano che era ora di andare, mi sarebbe bastato annodare la coperta creando una specie di fagotto e sarei stata pronta. Quello stesso giorno, durante le visite, faticavo enormemente a non dare la notizia a Johnny e, più tardi, a Gina. Prima volevo essere sicura al cento per cento. Johnny sarebbe stato molto felice di saperlo ma per il momento lasciai che mi raccontasse che nel suo paese sua madre e suo fratello si erano messi a ristrutturare una specie di granaio posto in fondo all'enorme giardino della casa, in modo da farlo diventare il nido d'amore di Johnny e Luna. Lui aveva molti sogni e speranze per il futuro. Io invece avevo imparato a non farne. Vivevo la giornata così come mi veniva offerta dalla vita perché non appena facevo un solo misero sogno per il futuro, il fato mi scombussolava l'esistenza impedendo ai miei sogni di avverarsi. Per esempio, quel lontano 19 marzo 1991 volevo solo festeggiare in santa pace il compleanno di Stella, e invece...
 
Dopo tre interminabili mesi, ho ottenuto il mio rilascio con sconto di pena per buona condotta. Ho pensato che quella volta essere buona mi aveva ripagata. Quando avevo informato Gina e Johnny della novità, erano entrambi felicissimi. Johnny aveva addirittura gli occhietti lucidi. Chiedendo mentalmente scusa a Jesse, avevo deciso che da quel giorno mi sarei presa più cura di me stessa, senza lasciare che il passato governasse la mia vita. Non mi sarei più lasciata andare al punto di lasciare che la mia follia e il mio dolore facessero del danno alla mia vita e a quella degli altri. Tuttavia, era strano per me lasciare quella cella con una punta di rammarico. Ci avevo vissuto gli ultimi dieci anni della mia vita e fuori le cose sarebbero cambiate tanto. I media non ce l'avevano più con me e speravo che i genitori delle mie vittime non sapessero che io uscivo di prigione con uno sconto di ben nove anni. Nove anni, non erano mica pochi! Ma dover marcire per altri nove anni in quella tomba malsana avrebbe finito per rovinare completamente la mia salute mentale, nonostante il dolcissimo amore che Johnny ad ogni visita mi donava. Se la pena era di diciannove anni, io avrei dovuto imputridire in quella prigione per diciannove maledetti anni. Ma incominciavo a farmi pena, che è la cosa peggiore. Ero un'assassina, una serial killer improvvisata. E anche una peccatrice pentita. Sinceramente pentita. La cosa migliore era che con i miei quasi trentuno anni avevo tutte le intenzioni di non commettere ancora gli stessi errori e ricominciare daccapo con la mia vita.
 
L'attimo nel quale firmavo le carte del rilascio è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Archiviato nella mia mente nella sezione "momenti felici". Dopo ho preso il mio fagotto e sono uscita anch'io dalla porta di vetro che separa la prigionia dalla libertà. Non credevo di farlo, ma istintivamente l'ho fatto: mi sono voltata a guardare quel posto, per l'ultima volta. 
Lasciando dentro, per sempre prigioniera, la mia giovinezza.
Una volta fuori, credevo mi venisse un infarto! Tutti quegli anni senza respirare l'aria pura se non da una piccola finestra in alto nella cella dove si poteva arrivare solo arrampicandosi sul letto. Il vento mi arrivava da tutte le parti, era una giornata soleggiata ma tremendamente ventosa. Sembrava quasi che il vento fosse felice di rivedermi. Fuori dal cancello mi aspettavano Johnny e Adam. Ero di nuovo libera! Non riuscivo ancora a pronunciare la parola libertà, ma ero finalmente libera. Pensai di aver pagato per i miei peccati ancora prima di averli commessi, nel momento in cui gli occhi imploranti di Stella si erano fissati nei miei.
 
La prima cosa che ho fatto fuori dalla prigione è stata andare al cimitero. Ho comprato rose rosse per mia madre e rose bianche per Stella. Sono rimasta a lungo sulla tomba di mia sorella, ma senza piangere, chiedendomi se Stella sarebbe stata felice di vedermi partire per non fare più ritorno, per lasciarmi dietro il passato. Da una parte forse si sarebbe rattristata, nessuno le avrebbe più portato fiori, lei che voleva stessi sempre vicino a lei, anche sotto la doccia. Non voleva nemmeno che andassi a scuola e io dovevo scappare senza che lei mi vedesse. Ma poi ho pensato che se nel luogo dove ora si trovava era già diventata grande, avrebbe capito che la sua sorellona aveva un forte bisogno di vivere la sua vita giorno per giorno e non attraverso amari ricordi. Avrebbe accettato il fatto che io avevo ancora una vita da vivere e finire, e avrebbe desiderato vedermi felice.
 
Il suo spirito mi avrebbe protetta per l'eternità. Anzi, fino al giorno in cui ci saremmo ritrovate.
   
 
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