“Spiegami ancora una
volta perché lo stiamo facendo” ringhiò Inuyasha posando una pila pericolante
di piatti sporchi sul bancone. Kagome sospirò dietro ai fornelli che aveva
ricordato amaramente dover essere ancora inventati in quell’epoca, asciugandosi
le mani nel grembiule.
“Per aiutare Sango e
Miroku” ripeté col tono di chi è stato costretto a fornire quella risposta più
volte nel corso della giornata e non ne può più di sentirsela porre.
“Passi per Sango, ma
per quale motivo dovrei aiutare il bonzo?” chiese di nuovo il mezzo demone, più
corrucciato che mai.
Lei mise le mani sui
fianchi voltandosi completamente e trafiggendolo con un cipiglio così marcato
che Inuyasha si ritrovò a deglutire ancora prima che aprisse bocca. “E’ nostro
amico, padre delle tue figliocce. Ritengo sia il minimo tu possa fare dal
momento che hai contribuito con lui alla distruzione di metà villaggio a quanto
si racconta.”
“Ehi!” si difese
subito, “si dà il caso che il demone stesse scappando.” Kagome scosse il capo
sconsolata stringendo le labbra in una smorfia sottile.
“E pensi questo ti
desse il diritto di usare la cicatrice
del vento? Contro un avversario che tra l’altro avresti potuto sconfiggere
anche senza usare la Tessaiga?” continuò imperterrita e severa. Inuyasha si
vietò di incassare la testa tra le spalle come un bambino sgridato, ma non poté
evitare alle proprie orecchie di agire per conto loro abbassandosi colpevoli.
Kagome distinse
chiaramente tra i mugoli bassi e sconnessi di lui le parole “noia” e “fuggire”
e ancora “noia” ed increspò le labbra in un sorriso tenue che soppiantò
l’espressione truce che aveva accompagnato le sue parole.
Era stato un periodo
relativamente calmo quello, troppo tranquillo per i gusti ben poco pacifici di
Inuyasha e non si stupiva che le conseguenze del suo umore uggioso e tediato si
fossero ben presto fatte sentire.
E se anche essere
costretti a lavorare nel piccolo santuario del villaggio scampato per miracolo
all’annientamento totale non era propriamente da considerarsi come migliore
scappatoia da quell’impasse, Kagome aveva trovato fosse un buon modo per
ripagare i paesani senza scucire la paga che Miroku si era rifiutato categoricamente
di restituire, adducendo come pretesto la scusa che il lavoro fosse stato
portato a conclusione come promesso benché con incidenti di percorso
indesiderati.
Era stata Sango a
svelarle la realtà e cioè che avesse già speso tutto per comprare dei nuovi
giochi alle bambine. Kagome non vi aveva visto nulla di male, oltre
l’insospettabile amore familiare di lui ed era stata dunque ben felice di
proporsi come aiuto non potendo Sango essere presente perché costretta a letto
da una nuova gravidanza e volendo Miroku starle il più vicino possibile.
Ciò che non aveva
previsto però era stata la testardaggine iniziale con cui Inuyasha aveva deciso
di non aiutarla, la ritrosia dopo un paio di Osuwari e infine la rabbia
rancorosa e lamentevole con cui aveva infine accettato dopo infinite promesse
di ritorsioni e minacce.
Alzò gli occhi al cielo
tornando ad aiutare le altre donne nella preparazione dei piatti da portare
agli ospiti e premunendosi tuttavia di sporgersi per poggiare un bacio lieve e
veloce sulla guancia del mezzo demone.
Rise del broncio che
adesso lui sfoggiava e rientrò nelle cucine a passo svelto mentre Inuyasha tornava
nella sala di fianco a cuor leggero e con un velo di rosso intorno alle guance
dovuto probabilmente al caldo.
~~~
Ͼhιϛϵ
Casa
dolce casa
“Sei stato molto bravo
oggi. Forse servire ai tavoli è il lavoro dei tuoi sogni, chi lo sa.”
Kagome lo prese in giro
con un sorriso spensierato e dolce che ammutolì la risposta che lui aveva
pronta in cantiere. Capitava sempre più spesso da un po’ di tempo a quella
parte infatti che il solo sorriso di Kagome riuscisse a farlo tacere in modo
orribilmente totale.
Tornò a prestare
attenzione all’erba e al lieve scricchiolare sotto i piedi, l’afa che si andava
attenuando col calare delle ombre della sera condensandosi in una nebbia
sottile e traslucida sul profilo basso dell’orizzonte.
Stavano tornando al
villaggio e quando poco prima Inuyasha aveva intravisto le lanterne di carta
che Kagome aveva insistito fossero appese alle porte di ogni casa in occasione del
Geshi, entrambi avevano deciso di concedersi una passeggiata al limitare del
bosco sacro che un tempo gli era stato dedicato.
Ora Kagome non gli era
più accoccolata sulla schiena, ma in piedi al fianco e lui quasi rimpiangeva il
calore che la mancanza del suo corpo premuto al suo non gli permetteva più di
percepire e la distanza impercettibile tra le loro braccia che si sfioravano ad
ogni passo.
“Sei ancora arrabbiato per
via di Miroku?” gli chiese d’un tratto fermandosi e costringendolo a fare lo
stesso.
Sembrava impensierita,
forse preoccupata dal suo silenzio e si ritrovò a borbottare un no che la tranquillizzasse, abbastanza
da permetterle di prendergli la mano intrecciando le loro dita come faceva coi
fiori, per creare le ghirlande che la piccola Rin le aveva insegnato a fare, e poi
riprendere a camminare.
Kagome gli si poggiò
contro, dal lato che aveva imparato a rendere proprio da sempre, quello
sinistro in cui non c’era la Tessaiga appesa nel suo saya e dove la mano di lui
era già col palmo rivolto verso il suo ogni volta che gli si avvicinava.
Lo stato di tensione
che aveva provato poco prima si dissolse istantaneamente, sciogliendosi e
facendo distendere i muscoli tra scapole e spalle. La stanchezza fluiva via
mentre il vento della sera gli portava alle narici aria impregnata del profumo
di Kagome e il suo respiro delicato come soffi di un gattino.
C’era il rumore del
fruscio prodotto dallo yukata e dei geta che calzava al posto dei soliti zori e
che producevano un debole struscio contro il terriccio umido. In sottofondo le
cicale frinivano cullandoli nella brezza leggera insieme allo stormire delle fronde
scosse degli alberi e al gorgoglio del ruscello poco distante.
Kagome alzò il volto
verso l’alto e Inuyasha vide riflessa nei suoi occhi la cupola che la volta celeste
era, attraverso quell’aria sognante e ammaliata che la rendevano di una
bellezza dolorosa e fragile, da proteggere.
“Sai, questo è uno dei
motivi che mi fanno tanto amare quest’epoca” sussurrò incantata, studiando il
cielo bluastro e il miliardo di puntini accecanti che costituivano quel fascio
di minuscoli pianeti tanto distanti e diversi da quello in cui loro si trovavano.
Distanze quelle, su cui lei aveva imparato a sorvolare dall’alto di
un’esperienza personale, unica e magica. “Non è meraviglioso?” chiese in un
bisbiglio emozionato.
Lo
era davvero.
Si chinò
imprigionandole le labbra con le sue ancora prima che lei potesse voltarsi,
respirando dalla sua bocca e sentendo i suoi pensieri accavallarsi sulla punta
della lingua in movimento prima che questi potessero trasformarsi in parole o
forse insulti.
Sorrisero l’uno sulla
risata dell’altra staccandosi, ma di poco, le fronti unite, i capelli scuri e
pieni dei riflessi delle stelle di lei che si mischiavano ai suoi sul petto.
Kagome gli strinse l’hitoe all’altezza del collo, facendosi scorrere quella
veste rosso fuoco che aveva imparato ad amare quanto chi la indossava tra i
polpastrelli. Nulla da ridire, davvero, ma…
“Sei decisamente strano”
considerò sovrappensiero.
Inuyasha arcuò le
sopracciglia, stupefatto e per alcuni versi disorientato.
Fece per dire qualcosa
in sua difesa, ma lei lo zittì con fare imperioso.
“Questo non sei tu o
meglio sì, sei tu, ma troppo…” annaspò come cercando una spiegazione che
risultasse combaciante alle sue impressioni. La trovò. “Troppo mansueto ecco.”
Fu lui stavolta a
scrutarla, scettico e divertito. “Mi stai dicendo che ti lamenti perché…”
scelse con cura le parole più adatte nello stesso modo in cui lei aveva fatto,
“ti sembro troppo gentile con te?”
Kagome ammutolì cincischiando
ancora con l’orlo della sua giacca. “Non è che voglia protestare, certo che no”
balbettò imbarazzata. “Ma ammetterai” proseguì puntando gli occhi nei suoi con
maggiore sicurezza e una certa luce di determinazione ben conosciuta, “che sia
abbastanza bizzarro, no?”
“Ora quindi, a meno che
tu non sia Shippo con le sue sembianze e spero davvero tu non lo sia perché in
tal caso sarei costretta ad ucciderti e poi a seppellirmi viva per il resto
della mia vita e Inuyasha ne morirebbe anche perché non sa prepararsi neanche
il bagno, figurarsi un pranzo o cose del genere da solo… -o e non ti offendere!”
sbottò in ultimo osservandolo in tralice. “Ad ogni buon conto se tu sei davvero
tu, voglio delle spiegazioni, subito” ordinò perentoria, il mento
pericolosamente alzato sopra la soglia di massima sopportazione.
Inuyasha prese un
respiro profondo cercando di trattenersi il più possibile, ci provò davvero a
tenerla per sé, ma fallì miseramente.
La risata sgorgò roca,
naturale dal fondo della gola incontrando cammin facendo la ruga di dispetto di
Kagome a solcarle la fronte.
Rise finché l’immagine
di Shippo che baciava Kagome da ridicola sfumò a labile fastidio, rise sempre
più forte a mano a mano che proseguiva, tanto che divenne quel suono piacevole
e poco frequente a scandire il tempo e tutto il resto passò a brusio
indistinto, in secondo piano.
“Non c’è nulla da
ridere” lo accusò subito Kagome e Inuyasha acconsentì col capo.
“Hai ragione.”
Se possibile il terrore
di Kagome ora gli sembrava più tangibile che in tutte le battaglie che avevano
condiviso in quegli anni, una paura che schiacciava e superava perfino lo stato
di orrore in cui l’aveva trovata all’interno dello spazio in cui la sfera
l’aveva imprigionata.
“Ecco, ora ne ho la
prova.” Si allontanò di scatto portandosi in una posizione di difesa forse, ma che
lui non riconobbe, gli avambracci l’uno poco distante dall’altro posti davanti
al viso, i pugni ben stretti, le gambe leggermente divaricate. Un sorriso
sghembo questa volta fece capolino, ma lei non si raddrizzò né diede mostra di
star scherzando.
“Kagome…” la richiamò allora spazientito,
incrociando le braccia al petto nelle lunghe maniche.
“Chi sei tu e cosa ne hai fatto di Inuyasha?”
Lui sbuffò apertamente
ora. “Cosa ti fa credere che io non sia io?”
“Mi hai appena dato
ragione e Inuyasha non lo fa mai, anche quando è evidente a chiunque che sia
lui ad essere nel torto.”
“Questo non è vero”
replicò lui con stizza, chiaramente toccato da quell’accusa.
“Sì che lo è” ribatté
lei.
“No, non lo è” insistette
lui a denti stretti.
“Sì!”
“No!”
“Ti ho detto di sì
invece!”
“Ah, dannazione!” Le si
portò davanti prendendola per la vita ed abbracciandola così strettamente da
toglierle il fiato. “Sei contenta ora? Ti sembro abbastanza idiota da essere in
me?”
“Io…” pigolò Kagome, ma
lui non diede segni di averla ascoltata.
“Possibile che con te
debba sempre finire in questo modo?” sbottò seccato.
“Non era mia
intenzione…”
“Mi hai chiesto se ero
Shippo!” disse lui stralunato alla sola idea e lei arrossì miseramente per l’infondatezza
delle sue farneticazioni. “Beh sì” ammise, “ma solo perché tu…”
“Ti sembra così strano”
l’interruppe lui con forza, due dita a tenerla ferma premute su una guancia,
“che sia semplicemente felice al saperti qui con me?”
Kagome sgranò gli
occhi, in silenzio e lui la lasciò andare, chiudendo invece i suoi e
ritraendosi.
Le diede le spalle
allontanandosi e la sentì subito seguirlo.
“Inuyasha io…” cercò di
spiegarsi standogli alle calcagna. Lui andava maledettamente veloce e camminare
su quegli affari sarebbe stato complicato per chiunque, figurarsi per lei
abituata a mocassini dalla suola piatta. Inuyasha però rallentò sentendola
affannarsi tanto alle sue spalle e lei riuscì a raggiungerlo.
“Non dire nulla” l’avvertì.
“Non posso!” Lo tirò
all’indietro per i capelli e lui digrignò i denti. “Lasciami.”
“No! Io… mi dispiace,
non avevo capito nulla, scusa!” proruppe in un grido strozzato.
“Non fa niente.”
“Sì invece!”
“Ricominci?” sillabò
lui con impazienza.
“Acci-… Hai maledettamente
ragione.”
Kagome si portò le mani
al viso, intimamente sconvolta. “Chi avrebbe mai detto che quella dei due ad
essere psicolabile sarei diventata io?” si domandò a voce abbastanza alta ché
anche lui la sentisse.
“Ehi!” s’infiammò come
previsto Inuyasha. “Io non sono mai stato psico- qualcosa!”
“Si dice psicolabile”
lo corresse lei in un riflesso incondizionato, “e per la cronaca sì, lo sei
stato per un mucchio di tempo posso garantirtelo.”
Annuì tra sé e sé a
conferma, ricordandosi delle innumerevoli volte in cui si era comportato come
tale.
“A pensarci bene
potresti persino vincere una medaglia d’oro, ovviamente se esistesse una gara
del genere cosa di cui dubito, ma…”
“Kagome…” la richiamò
lui, vincendo l’istinto di massaggiarsi le tempie nel patetico tentativo di
scongiurare l’emicrania in arrivo.
Lei lo fissò spaesata,
come ricordandosi solo allora che anche lui fosse lì.
“Oh già, stavamo
dicendo…” e lo guardò ancora, quasi chiedendogli di ricordarle l’argomento di
conversazione.
L’impulso diventava
sempre più intenso.
“Non ne posso più!”
quasi le gridò contro interrompendo il suo sproloquiare insensato.
Kagome stese le labbra
in una pigra dimostrazione di soddisfazione per niente segreta.
“Era ora” osservò spavalda
e Inuyasha l’incenerì senza pietà con l’espressione più odiosa del suo
repertorio, una di quelle che a Kagome all’alba del loro comune rapportarsi in
base ad un indefinito trattato di dispetti e malevolenza reciproca, aveva fatto
temere fosse dovuta più che altro alla mancanza di una qualche elaborata
attività intellettuale oltre la fitta cascata di capelli argentati, ma che in
seguito era riuscita a comprendere fosse la solita mimica facciale del mezzo demone
quando messo alle strette. L’ultimo invalicabile rifugio tra sé e una verità
inconfessabile, di un’entità tale da metterlo a disagio al solo pensiero.
Era con quei sotterfugi
in fin dei conti che era riuscito a non dirle che l’amava per tutto quel tempo.
“Felice di essere
insopportabile?” domandò in modo irritante.
“Che vuoti il sacco
e la smetta di essere diverso da quel che sei” scandì Kagome scrollando il capo,
insensibile a quel comportamento da sbruffone. “Non so perché tu lo stia
facendo e non ti costringerò a dirmelo, ma voglio che torni ad essere lo
psicolabile mezzo demone di cui io mi sono innamorata.”
Lo vide irrigidirsi e
rifuggirla, d’improvviso incapace di sostenere la sua vista. Inuyasha odiava
essere messo alle strette, così come odiava manifestazioni tanto esplicite. Lei
lo sapeva e ciò nonostante l’aveva costretto in uno di quei momenti di assoluta
sincerità che tanto detestava.
“E va bene” borbottò
con quel suo dire ringhioso, come se quella semplice constatazione gli fosse
stata scucita a forza dalle labbra, serrate nei canini che le martoriavano con
un nervosismo palpabile, rabbioso e ferito. L’oro imbrunito dell’iride, oltre
il velo dato dalle palpebre chinate sulle ciglia in un gesto impietoso di
rifiuto della presenza della sua persona, era soffuso di un disagio e una
stanchezza sfiancata.
Non che fosse qualcosa
di cui andare orgogliosi, per carità!- ma prenderlo per esasperazione le riusciva sempre
benissimo.
Inuyasha si chinò in
avanti dandole la schiena. La curva familiare e il tepore che sapeva dell’odore
selvatico di lui, del muschio che anni prima lei aveva calpestato arrampicandosi
sui rami intrecciati al suo corpo imprigionato al Goshinboku, delle foglie
sempreverdi dell’albero secolare e della resina smielata pianta dal legno della
corteccia come sangue di linfa.
Inuyasha conservava lo
stesso aspetto e lo stesso odore così come lei la bolla di emozione indistinta
che le esplodeva in petto feroce ad ogni contatto delle loro pelli. Poggiò la
testa nell’incavo del collo mentre Inuyasha le prendeva le caviglie. Le sue
mani le carezzarono le gambe goffamente, fermandosi alle ginocchia e lì rimanendovi allorquando
iniziarono a muoversi con agilità nel folto della foresta del loro primo incontro,
segnato dalle stelle che avevano ammirato.
Il mezzo demone brontolava
alla luna che sorgeva, frasi contro di lei in un linguaggio che le scaldò il
cuore e la fece sorridere. Perché quel dannata,
checché ne potessero pensare gli abitanti che a lei di nuovo si appellavano col
titolo onorifico di saggia Kagome-sama, per lei e le proprie orecchie era
quanto di più bello potesse esistere, bello quasi quanto il Kagome che lui aveva sussurrato con
dolcezza inusuale e nuova il giorno dopo il suo ritorno, riscoprendola reale e
vera ancora al suo fianco.
E brontolava Inuyasha
in modo tutto suo, contro la curiosità che si sapeva essere donna, ma
soprattutto Kagome, nella fiera necessità di risposte che lei si era inchinata
a domandare come sempre, dando voce alle sue riflessioni mai segrete. Perché Kagome
non teneva mai nulla per sé sola, ma voleva sempre condividere con lui
qualsiasi cosa le accadesse, ogni scoperta straordinaria o minimo particolare
che le fosse gradito. E per lui era un piacere riscoprire in cose vecchie e
date per scontate un’attrattiva sconosciuta.
Non c’erano segreti che
tenessero con Kagome, ma per un attimo aveva sperato che solo quello potesse
rimanere tale ancora per un poco, il tempo necessario di completarlo portando a
termine il disegno originario.
“Spero tu sarai
contenta adesso” le disse con maleducata sgarberia, ma Kagome non si lasciò
convincere dalla scortesia nella sua voce concentrandosi piuttosto sulla nota
di fondo che la rendeva particolarmente agitata.
“C’è qualcosa che ti
preoccupa Inuyasha?” gli domandò perciò in un fremito d’apprensione
incondizionata.
Lo Tsk poco ortodosso la spinse a poggiare il naso contro il suo mento
e a decidere di attendere che fosse lui ad indicarle ciò che era suo desiderio
mostrarle.
Giunti poco lontani
dallo spiazzo che lei subito riconobbe, quello che conteneva il pozzo e tutto
ciò che i ricordi dell’altra vita cui aveva deliberatamente rinunciato rappresentavano
per entrambi, Inuyasha la mise giù con delicatezza.
Senza la luce delle
fiammelle aranciate nella carta di riso colorata delle lanterne, tutto appariva
buio e privo di illuminazione. Gli alberi che li circondavano erano avvolti in
una tela di oscurità fitta come neve, ma facilmente diramabile dai fili di
ragnatela rappresentati dai raggi lunari.
Kagome dovette sbattere
più volte le palpebre per abituarsi al cambiamento, la mano di Inuyasha che la
guidava nella cortina di tenebre con sicurezza.
“Potresti dirmi dove
stiamo andando?” sussurrò al suo indirizzo.
“Vedrai” lo sentì dire in
risposta e poi aggiungere un “donna cocciuta”.
“Era una sorpresa” disse
lui dopo momenti di silenzio in cui c’erano stati solo i loro passi e il
battito a rimbombare contro le costole ad accompagnarli. “Ma naturalmente
chiedere di mantenerti nascosta una cosa del genere sarebbe stato troppo, vero?
Una richiesta assolutamente inattuabile con una ficcanaso come te” sibilò.
Sembrava arrabbiato
eppure Kagome ancora percepiva quella concitazione che, conoscendolo, avrebbe
potuto in altre occasioni bastare a metterla in allarme. Perlomeno era tornato ad essere il solito e intrattabile Inuyasha, pensò
con un sospiro che non seppe interpretare neppure lei se fosse di sollievo o
rimpianto.
All’improvviso lui
frenò, tanto bruscamente che lei gli finì contro. Non cadde, bloccata in
procinto di farlo dalle mani di Inuyasha che l’avevano agguantata pronte. “Siamo
arrivati” spiegò e Kagome si allungò sui sandali per vedere ciò che il busto
del mezzo demone tentava disperatamente di nascondere alla sua vista ancora per
poco.
“Prima che tu possa
dire qualunque cosa, sappi che non è ancora finito.”
Kagome non chiese cosa di preciso non fosse finito, concentrata
nel mettere a fuoco la sagoma scura e alta e imponente di quella struttura in
ombra.
Mosse qualche passo incerto,
troppo stordita perché il suo sgomento trovasse voce, tutta stretta in una
morsa di subbuglio e palpiti di amore così grande da spiazzarla e farla
traballare pericolosamente.
“Inuyasha” mormorò e il
mezzo demone che aveva atteso con trepidazione una sua reazione, smise di
torcersi la mandibola nell’ansia che lo divorava.
La sua casa o ciò che
era stata la sua casa fino a quel momento, il luogo in cui era cresciuta e che
aveva visto la bambina diventare ragazzina e poi tramutarsi in donna, era lì di
fronte a sé, diversa e uguale al contempo, in una visione meno moderna, ma più
recente. Un’imitazione così fedele che le si inumidirono gli occhi al pensiero
di quanta fatica e arroventamenti di cervello fossero costati ad Inuyasha per
renderla riproduzione tanto scrupolosa.
Inuyasha dovette fraintendere
quella commozione perché si affrettò a dirle con un ché di terrorizzato: “Il secondo
piano manca, perché non ho avuto il tempo di finirlo, ma conto di riuscirci
presto, molto presto. E non ti ho detto nulla perché volevo che tutto fosse in
ordine prima che venissimo ad abitarci e che diventasse una casa a tutti gli
effetti.”
Il primo singhiozzo di
Kagome fu una pugnalata, ma il grazie sincero di gratitudine pulsante, le
lacrime e i singulti spezzati che seguirono il primo, lo stordirono come le
braccia di lei che gli si avvolsero attorno al petto scaldandolo in ogni parte.
“Grazie… grazie… grazie…”
sussurrò lei tra una lacrima e l’altra, un entusiasmo così limpido da lasciarlo
confuso e impietrito.
Avrebbe potuto dirle
che era nulla in confronto a ciò che sapeva in tutta onestà lei avesse fatto
per lui, che la fatica e l’impegno messi in quel regalo non erano che briciole
e polvere di sudore rispetto al vuoto, la desolazione e il senso d’abbandono cocente
che aveva provato in quei tre anni di lontananza costretta. Che la sua presenza
era diventata così indispensabile e ogni sua piccola assenza così
insopportabile, da rendere ogni sua azione per lei molto più egoistica di
quanto ad occhio imparziale potesse apparire.
La felicità di Kagome
era quanto di più prezioso potesse pensare ed era un capriccio il mantenerla
tale, che si sarebbe concesso il privilegio di preservare per tutta la vita se
lei avesse voluto e acconsentito a ché lo diventasse.
“Ti piace?” domandò
sommessamente e Kagome alzò di scatto lo sguardo umido e intriso della gioia
che le infiammava il volto, in una sorpresa sgranata e autentica.
“Piacermi?” trasecolò. “Inuyasha
è quanto di più meraviglioso nessuno abbia mai fatto per me in tutta la mia
vita.”
Un altro pregio di
Kagome: sicuramente se la cavava meglio di lui a parole quando si trattava di
esprimere un concetto o un’impressione particolarmente difficili perché cari.
“Vuoi vederla all’interno?”
“Posso?”
“E’ casa tua” rispose
paziente Inuyasha e la condusse verso l’ingresso, quello in cui secoli e secoli
dopo sua madre le avrebbe ogni mattina dato il bento per il pranzo e un bacio
sulla fronte, in cui Buyo era solito accoccolarsi come una ciambella tra la
soglia e la porta aperta, in cui tutti loro avevano detto un euforico banzai di
buona fortuna a Sota in occasione della sua prima vera dichiarazione d’amore,
in cui il nonno era solito appendere gli oggetti più strani e disparati come
buon auspicio, a protezione della casa dagli spettri maligni.
“Casa nostra” rettificò
Kagome e lui roteò gli occhi, impaziente.
“Decisamente Kagome… se
vogliamo vivere insieme devi fare qualcosa per quel tuo lato psico-.”
Casa sua aveva smesso
di esserlo nell’attimo stesso in cui non l’aveva scelta, preferendovi l’abbraccio
caldo e impacciato, la voce incerta e roca, le dita screpolate dal freddo cupo di
un inverno inconcluso e le parole graffianti, ruvide di Inuyasha.
Casa era Inuyasha
eppure Kagome rise riconoscente come non mai mettendovi piede di nuovo e per la
prima volta. Ricordi vecchi e brandelli di passato che si mischiavano alle
speranze appena nate e alla fragranza del tempo al suo sboccio. Casa era
Inuyasha, ma quella – pareti da riempire, pavimenti su cui sedersi abbracciati,
finestre a cui affacciarsi e da aprire per far intrufolare visitatori- quella era
casa loro, tutta loro. E un giorno forse sarebbe stata anche della sua famiglia
passata. Per questo voleva riempirla di sé e della felicità che provava con
Inuyasha, in modo che in quel giorno e tempo futuri anche loro – la mamma, Sota
e il nonno- potessero avere un pezzo di sé come lei conservava i loro nella
memoria.
Chissà forse avrebbe
potuto convincere Inuyasha a costruirle anche il santuario. Di quello suo nonno
le sarebbe stato davvero debitore ne era sicura. E come ne aveva dato prova, Inuyasha
sapeva essere davvero un gran manovale.
“A cosa pensi?” inquisì
Inuyasha, il viso a pochi centimetri dal suo. Kagome sorrise sfiorandogli la
bocca con la sua, serenamente. “Solo che sono molto, molto felice.”
Ed
era vero, così tanto da far paura.
N/A:
O.o Sinceramente, non
so neppure io cosa abbia scritto qui sopra. E’ un qualcosa di stranamente
inquietante per me perché grazie al cielo non mi capita spesso – sì, di solito
comprendo appieno ciò che scrivo seguendo magari un’idea generale. Beh questa
volta non è stato così. E’ come se si fosse scritta da sola e non è stato per
nulla complicato. L’altro ieri pensavo a quanto sarebbe stato bello riuscire a scrivere
qualcosa su questi due personaggi in onore dell’Inuyasha e Kagome Day che
sapevo per l’appunto essere ieri. Ricordo di averlo letto da qualche parte, ma
non ricordo bene dove di preciso ^^”.
Come stavo dicendo
quindi ieri mattina mi è spuntata l’idea vedendo questa immagine http://photos1.blogger.com/blogger/4598/3531/1600/180px-Maneki-neko-ja.jpg.
Si tratta di un Maneki-neko, un gatto portafortuna presente in ogni negozio o
ristorante giapponese.
Sì, lo so non c’azzecca
un piffero, ma che posso farci se la mia mente segue associazioni mentali tutte
sue XD? E da quest’associazioni mentale è dunque nato questo.
Chise che in dialetto
ainu significa proprio casa, mi è sembrata la scelta migliore per il titolo.
Spero davvero di essere
riuscita a trasmettervi qualcosa, un sorriso, una risata per questa coppia stupenda
;) che tra l’altro ho l’orribile sensazione di non aver reso al meglio.
Mi sembrano un po’
troppo maturi e consapevoli, però boh… mi rimetto al vostro giudizio.
Un saluto a tutti =)