Urla,
maledizioni che rimangono appese nell’aria come granelli
infinitesimali di polvere ma che sembrano pesare come macigni.
È così da un po’
di tempo. Litigano, litigano in continuazione, ogni giorno
più spesso e per una
cosa più stupida. Ma so che presto cadrà il
silenzio. 5,4,3,2,1 ecco la porta
che sbatte e il rombo della macchina indice che mio padre è
uscito, sotto si
sentono i singhiozzi di mia madre e anche il bicchiere rotto dalla sua
rabbia.
A furia di litigare e di rompere tutti gli oggetti che gli capitavano
in mano
avevamo dovuto comprare presto un nuovo servizio di piatti e bicchieri.
Sbuffo.
E una cosa che non riesco a sopportare. Ora dovrei scendere,
raccogliere i
pezzi di quella che una volta era mia madre e dirle che
andrà tutto bene, la
dovrei accompagnare a letto , rimboccarle le coperte, portarle un
bicchiere
d’acqua e dirle di riposare scoccandogli un bacio sulla
fronte.
Però
non so se riuscirò a farlo anche oggi.
Sono
stufa dei loro litigi, del clima di terrore che regna
ormai costantemente dentro queste 4 mura. Sono arrabbiata con entrambi.
Non
riesco a guardarli più in faccia. Non sanno niente di me da
almeno un paio di
mesi perché le uniche discussioni che riusciamo ad
affrontare si riducono ad un
“come va?” E un falso “tutto
bene”, sono troppo occupati a pugnalarsi alle
spalle per occuparsi di me. Sono stanca fisicamente e mentalmente.
Sono, non
riesco nemmeno io a dire come sono. Sento i passi di mia madre
trascinarsi
verso la sua camera. La porta della mia è chiusa a chiave.
Lo faccio sempre
appena finito il pranzo. Vengo nella mia camera, chiudo la porta e
accendo la
musica quanto più alta posso senza che i vicini mi uccidano
perché so che
nell’arco di qualche minuto le urla inizieranno. Forse per un
piatto messo
male, forse per una camicia non stirata, forse per una bolletta troppo
alta.
Che famiglia di merda. La odio. Se potessi andrei via, ma ho solo 16
anni cosa
posso combinare? Sento i passi fermarsi davanti la mia porta. Posso
quasi
immaginarmi la figura di mia madre, magra e con grandi occhiaie
violastre che
ormai si porta dietro costantemente, che se ne sta dietro la porta
bianca con
scritto il mio nome a colori, possibilmente ha una mano alzata indecisa
se
bussare o no. Sa che, come è ovvio, le scene appena vissute
non le amo e forse
ha paura di un'altra sfuriata come quella di qualche settimana fa.
All’inizio
della distruzione ho cercato di tenere a freno un po’ tutti e
due. Mi mettevo
in mezzo, finendo per urlare anche io. Accusavo l’uno,
accusavo l’altra. Dicevo
visto cosa sta succedendo? Visto come stiamo finendo? E con le lacrime
agli
occhi salivo in camera. Ora non me la sento. Non credo ne valga
più la pena, ho
l’impressione che qualsiasi cosa possa dire sarebbe inutile e
allora perché
sprecare fiato? Famiglia doppiamente di merda.
I
passi si allontanano, ha scelto la cosa giusta, oggi avrei
seriamente potuto spaccarle la faccia. Che rabbia che mi fa vederli
ridotti
così. Uno in macchina, che vaga senza metà
sprecando benzina, con una sigaretta
in mano. Una delle tante che si fumerà oggi, una di quelle
che a fine giornata
saranno diventate venti. L’altra nella sua stanza come una
malata, sotto le
coperte, ancora con i vestiti del lavoro e il trucco spalmato in faccia
come
una maschera. Che schifo. Spengo la radio ed esco dalla porta ma non
vado da
mia madre. Non c’è la faccio, sono stanca di
mettermi lì e consolarla sparando
cazzate alle quali non credo nemmeno io. Sono io la bambina della
famiglia,
sono io la figlia che deve essere consolata per qualche minchiata
adolescenziale. Non devo essere io l’adulta, non è
il mio ruolo e mi sta
stretto, non ho intenzione di crescere prima del tempo. Vogliono
litigare,
uccidersi di insulti, piangere e fumare sigarette fino a morire di
dolore o
cancro? Bene che lo facciano pure, non mi interessa più
nulla. Questa non è la
mia famiglia. La mia famiglia è quella che aveva i suoi riti
ogni giorno. Papà
arrivava, passava dalla mia stanza e mi lasciava il pane comprato al
panificio.
Io quando tornavo a casa trovavo mia madre ha guardare qualche idiozia
alla
televisione, posavo lo zaino in camera e le raccontavo la giornata. Ci
mettevamo a ballare delle volte e apparecchiavamo insieme. Prima
parlavamo,
giocavamo a fare le “signore”, mentre lei puliva io
le arrancavo dietro
parlando come solo una bambina è in grado di fare. Sapeva
chi ero, cosa facevo,
chi erano i miei amici. Avevamo la nostra canzone estiva che
insultavamo perché
trovavamo sempre alla radio. Conosceva
i
miei voti, il mio umore, sapeva come tirarmi su il morale dicendomi
cose sceme
come “andiamo a fare la spesa?”. Era tutto diverso.
Quella famiglia non esiste
più. Una piccola parte cerca ancora di sopravvivere e ogni
tanto esce a galla,
sono pochi minuti di pura felicità dove ridiamo
tranquillamente come una volta,
pochi minuti che mi sembravo rubati ad un atra persona con un'altra
vita, pochi
minuti che durano appunto pochi minuti. Ora non sopporto più
la vista di
nessuno di loro due, voglio solo uscire di casa appena ci metto piede.
Cerco di
distrarmi con tutto quello che mi capita e di stare fuori più tempo
possibile. Quando sono a casa la
porta della mia camera è sempre chiusa e io sono buttata nel
letto a leggere il
mio libro preferito una due tre miliardi di volte per sfuggire a quello
che mi
sta intorno, per non sentire le nuove urla, i nuovi insulti sempre
più atroci
che riescono a trovare. Per chiudermi in me stessa.
Esco
di casa e salgo di un pianerottolo. Il campanello strilla
appena lo premo. Mi apre il mio migliore amico. Non devo dirgli nulla,
mi dice
entra e io lo faccio. Andiamo in camera sua, ci stendiamo sul letto e
io mi accoccolo
vicino a lui che mi passa un braccio sotto la testa e mi accarezza i
capelli.
Scoppio a piangere ma lui non dice nulla, lo sento sospirare, ha visto
troppe
volta questa scena per avere ancora il coraggio di dire qualcosa. Ho
vissuto
troppe volte questa scena per avere ancora il coraggio di chiedergli di
aiutarmi.