And they said.
Io amo i miei fans, sul serio.
Cosa sono quelle facce? Quegli sguardi dubbiosi? Io
amo i miei fans, i
Cielers o come li si voglia chiamare.
Se ho scritto una canzone come Bravery d’altronde, è anche e
soprattutto per questo: perché non penso siano
stupidi, cioè. Un po’ sordi, forse, sicuramente
legati all’apparenza, ma come
posso fargliene una colpa? La musica è anche, se non
soprattutto, cerone e
lustrini, lo so bene anch’io che in casa giro come un profugo
afghano, ma sul
palco sfoggio sempre capi all’ultimo grido. E non importa
cosa dice Ken al
riguardo –che dovrebbe, tra l’altro, imparare a
guardarsi prima allo specchio,
ma glissiamo-, so di essere alla moda. Meglio, di crearla la moda:
perché
limitarsi a seguirla sarebbe mortalmente noioso e scontato. Chiedetelo
un po’ a
Nishikawa e ad un altro milione e mezzo di nuovi patiti delle gonne
pantalone
della Westwood o delle giacche college, se non è
così.
C’è una cosa, però,
che non sopporto dei fans, che proprio non riesco a
digerire e che mi ha fatto letteralmente vomitare un testo come quello
di Bravery: i giudizi di valore. La
pretesa di
sapere.
Ma sapere cosa? Quello che non so nemmeno io? Complimenti
davvero.
Va bene, non giriamoci attorno, non sono un buon
incassatore, sono
permaloso e le critiche mi fanno rabbia. Non è che non le
accetti –sarei
stupido a non farlo- ma le assimilo male. Soprattutto quelle campate in
aria.
Forse dovrei arrivare al nocciolo del problema
prima di perdermi.
Cosa mi rode? Essere etichettato. Sapere per certo
che, leggendo il mio
nome nei credits di una canzone, chiunque si sentirà
autorizzato a pensare
“Allora è un altro pezzo pop”, come se
fosse scontato, come se non avessi mai
scritto pezzi come Shi no ai o Shinkirou, come se non fossi io il fesso che
riarrangia tutte le canzoni che finiscono negli album. Sì,
anche quelle che
haido si scrive tutto da solo: anche My Dear
l’ho sistemata io e non solo per armonizzarla al resto
dell’album,
quanto proprio per tirarla fuori dall’anonimato. E con questo non voglio fare un torto al mio
vocalist; solo che, tra
le sue tante virtù, gli manca l’orecchio clinico
per il riff giusto, per la
tonalità più adatta, per la strumentazione
adeguata per ogni sezione della
canzone: è un poeta ed un compositore eccezionale, sono che
non sa lavorare di
cesello, quindi me ne occupo io. Una volta mi alternavo con Sakura
–o meglio,
ci lavoravamo insieme, dato che è un’arte che ho
imparato clandestinamente
proprio da lui- ora soprattutto con Yukki, più raramente con
Ken, che come autore
è decisamente meno ingenuo, tanto che si è quasi
procurato una cifosi piegato
su una keyboard per comporre Jojoushi.
E venitemi a dire che quella non è una canzone pop, avanti.
È facile
affermarlo: ma quanti saprebbero riprodurre la linea ritmica del mio
basso – o
meglio: dei miei due diversi bassi- su quella canzone? Quanti hanno
notato che
ci sono volute tre differenti chitarre – e dunque altrettante
differenti
tonalità- per riempire la melodia? Quanti hanno immaginato
come ci abbia
bestemmiato haido, che ha dovuto adattare un testo e la sua voce da
tenore ad
un rognosissimo andirivieni di mezzi falsetti e bassi talmente
ravvicinati da
fargli balenare lo spettro di Hitomi no Juunin?
Quanti hanno immaginato quanta voglia, però, avessimo di
suonare una
canzone del genere –tutti quanti-? Suppongo in pochi. A voler
essere generosi.
E parliamo di una canzone pop,
ovviamente, perché pare nessuno sappia riconoscere un
po’ di soul o il
retrogusto jazz della melodia.
Dunque, che ne sanno loro?
Come al solito nulla. E non lo dico per biasimare
nessuno, è normale
sia così, se avessi voluto la mia vita in pasto a chiunque
avrei scritto
un’autobiografia dal numero potenzialmente infinito di pagine
o avrei
partecipato ad un reality show di quelli che vanno tanto di moda in
Europa.
“Solo che la prima sarebbe
stata ritirata immediatamente dalle
librerie e ti avrebbe procurato caterve di denunce, dal secondo ti
avrebbero sbattuto
fuori a calci dopo due puntate, tetchan.”
Ken sa sempre come nutrire la mia autostima, si
nota? Non a caso è uno
dei pochi sia riuscito a sopportarmi trent’anni senza
mandarmi a quel paese
come avrei meritato più volte. E no, non sono masochista a
tenermelo stretto,
solo anche più lungimirante di quanto possano definirmi
tutti. Perché è un amico,
un grillo parlante, un confessore e –tanto per lusingare il
mio ego da
businessman- un
ottimo compositore. Che
non scrive canzonette come il
sottoscritto.
Ripeto, io amo i miei fans, gli sono
incredibilmente grato per quel che
hanno fatto e continuano a fare per noi, perché un musicista
non esiste senza
un fanbase, senza qualcuno che compra, insomma.
E lo so che non è molto gradevole dirlo,
ma parliamoci chiaro, un
ragazzino che sogna di fare il musicista è un po’
come quello che sogna di fare
l’avvocato o il medico: e non perché siano lavori
simili, ma semplicemente
perché il fine è lo stesso. Avere successo,
diventare qualcuno, fare soldi.
Solo che, dimenarsi dietro uno strumento od un microfono, è
decisamente più
romantico e cool che stare a scannarsi per un pluriomicida o del
brandire uno
stetoscopio. E non provate a dire di no.
Magari, fare il medico o l’avvocato, ti
evita scivoloni che mai avresti
creduto tali con la stampa, però, e pure colleghi ed amici
pronti a fartela
pagare –letteralmente- cara. Dovrei dire sia una fortuna Aoyama sia sempre stata più gettonata di Setagaya, altrimenti il prezzo sarebbe diventato
decisamente più salato. E a me il maiale nemmeno piace
tanto, poi, con gran
scorno e diletto di haido tra l’altro: perché lui
l’adora e ne mangerebbe a
quintali in qualsiasi occasione. Quindi, spesso, si serve
abbondantemente anche
della mia porzione.
Awake era finalmente stato messo in commercio. Quanto ci avevano lavorato per arrivare a presentarlo proprio il primo giorno d’estate? tetsu decise che era meglio non pensarci, perché gli sembrava ancora di sentire chiaramente le lamentele di Yuki, che era riuscito a tirar fuori un perfezionismo ancora più capillare ed irritante del suo: alla fine avevano dovuto quasi minacciarlo per fargli accettare il dato di fatto che, sì, l’album era perfetto così com’era, la linea ritmica della batteria non doveva essere –di nuovo- rimaneggiata e che le dieci canzoni avevano passato pure l’esame al microscopio elettronico. Si era evitata una lotta senza quartiere unicamente perché Yuki rispettava troppo i suoi compagni –e le gerarchie: l’ultima parola spetta sempre ad un’unica persona e lo sanno tutti- per non accettarne i giudizi. Così si era dato pace ed aveva abbassato la testa. Le blande preoccupazioni che aveva tirato fuori durante l’intervista al Recochoku, al più, avevano fatto sorridere divertiti i suoi compagni e lo staff.
Sarebbe
andato tutto bene come al
solito: qualcuno aveva pensato che scegliere Jojoushi
come terzo singolo da proporre dopo i ritmi veloci di Killing
me e New world sarebbe
stato un azzardo. Ma tetsu si era strenuamente
battuto per quella canzone, decisamente più di Ken stesso,
che non si era mai
curato più di tanto se le sue produzioni finivano in
solitaria sugli scaffali.
Ma il leader così aveva voluto e così era stato.
Ed era stata una mossa
vincente, perché avevano spiazzato tutti e dato una
panoramica completa dei
contenuti e delle diverse anime dell’album in un unico colpo.
Il pubblico aveva
gradito ed assaporato lo sperimentalismo di Ken e l’anima new
rock di Yukki e
haido. E tetsu?
tetsu aveva portato ben sette
tracce alla causa del nuovo album quando, più di un anno
prima, si erano
riuniti per discutere del progetto, una delle quali era già
stata
commercializzata come singolo. Eppure le aveva sistematicamente
eliminate tutte
fino a lasciare sul banco la sola Trust.
Il motivo non era stato da subito
chiarissimo agli altri -quelle tracce non erano male, con qualche
ritocco
potevano diventare anche meglio-, ma tetsu si era limitato a dare
un’occhiata a
quelle degli altri, aveva preso un po’ in giro Yukki dandogli
del lavativo per la
sua unica –stupenda- traccia, ed aveva stabilito che per il
nuovo album erano
decisamente più indicate. Anche se erano ancora solo
semplici spartiti,
l’embrione di quel che sarebbero poi state. Ma il re aveva parlato.
Dopo
più di un anno di continui
rimaneggiamenti, aggiunte, ripensamenti, scazzi e qualche parola di
troppo, in
studio ci si era addirittura dimenticati di quel particolare, ma, come
spesso
capita, era tornato alla ribalta quando nessuno ci pensava
più. Evidentemente,
però, qualcuno non aveva invece mai smesso di rimuginarci e
con un discreto
livore per giunta.
Leggendo le bozze dello special
che il sito del Recochoku aveva dedicato all’imminente uscita
di Awake, le reazioni dei rimanenti
tre
Laruku erano state inizialmente differenti, finendo poi per confluire
in
un’unica certezza: tetchan non
l’avrebbe
passata liscia.
“Fatemi capire, quand’è che l’avremmo accusato di comporre pop? Accusato, poi, nemmeno fosse una vergogna. E poi non scrive mica per quegli stronzetti degli Arashi, per la miseria, che gli ho mai scritto una rima cuore-amore io? Eh? L’ho mai fatto?” “haido, scusami… Ma questo che c’entra?” “C’entra Ken, c’entra: testo e note devono armonizzarsi a dovere.” “Lo sappiamo, haido, ma fa’ un discorso del genere a tetsu e passerai automaticamente dalla parte del torto: sembra tu stia dicendo che può scrivere tutte le cazzate che vuole, tanto ci sei tu a rimediare.” “Cosa? Ma non è vero! Questo è scorretto Ken, stai travisando le mie parole.” “haido, se volevi dire altro, ti assicuro che non ci sei riuscito: e lo sai quanto me che dire una cosa del genere a tetsu equivale a farselo nemico per la vita. E non avrebbe nemmeno tutti i torti.”
“Scusate ragazzi… Ma non starete facendo un problema di una sciocchezza? In fondo lo conoscete tetsu: quando sgancia la bomba vuol dire che gli è già abbondantemente passata.”
Ken
e haido si erano voltati a
guardare Yukki, rimasto zitto fino a quel momento, che parlava
continuando a
fissare annoiato lo schermo del suo laptop, facendo scorrere
svogliatamente le
pagine del sito del Recochoku. I due si erano soffermati a fissarlo in
silenzio
sapendo che aveva perfettamente ragione, tetsu aveva parlato in quel
modo
perché era già venuto a patti con lo scazzo ed il
malumore, forse aveva persino
trovato il modo di ficcare in gola ai detrattori quel che
–credeva lui- gli
avevano lanciato contro.
Il problema autentico stava nel
fatto, tra i presunti detrattori, fossero annoverati anche loro tre.
E non era stato tanto esaltante
venirlo a sapere dalle pagine di una rivista telematica, soprattutto
considerato non avessero nessun sentore del disagio di tetsu. Sembrava
di
essere tornati indietro di sette anni, quando di erano ritrovati Bravery a far capolino tra gli spartiti:
haido si era quasi strozzato con una soda quando aveva saputo di
doverla pure
cantare. E senza discussioni.
Ma era evidente non gli fosse
bastata, così come non gli era bastata Perfect
blue: ma come avrebbe intitolato il terzo atto? “Datevi fuoco, stronzi”? Non
avrebbe avuto problemi a farlo, anche
se sarebbe stato politicamente scorrettissimo: tetsu di quello non si
era mai
davvero dato pensiero, non aveva peli sulla lingua e non si preoccupava
d’infiocchettare la verità con belle parole. La sua verità, almeno.
Ken
si era acceso lentamente una
malboro ed aveva aspirato una lunga boccata prima di rispondere
qualcosa di
abbastanza vicino alla verità da sembrare credibile.
“Hai ragione Yukki, ma vedi, io
odio essere calunniato. Calunniato e tenuto all’oscuro di
cose che tra l’altro
mi riguardano. Il leader-san deve imparare che nemmeno lui è
impunibile.” A
quelle parole, inutile dirlo, haido aveva drizzato le orecchie
“Che intendi
dire?” “Che dovrà farsi perdonare per le
brutte cose che ha detto di noi,
ovvio. Minimo dovrà offrirci cena, bevuta e putt-”
“Quelle non se le offre
nemmeno da solo, Ken.” “Giusto. Vorrà
dire che il festino lo faremo a casa sua,
allora!” “Ma deve essere punito lui o noi?
L’ultima volta che il signor leader
ci ha fatto l’onore di sputar fuori il suo indirizzo siamo
stati fermi due ore
su uno scomodissimo divano di pelo, senza poter nemmeno fumare. E ci ha
comunque deumidificati a morte, con la scusa che haido aveva il
raffreddore.”
“…anche questo è
vero…” “Onestamente, non so voi, ma io
al bis non ci tengo.”
“Perché no? Almeno scopriamo dove è
andato ad infognarsi stavolta!”. Esatto.
Quella poteva essere l’occasione perfetta per costringere
tetsu a rivelare le
sue nuove coordinate e haido certo non voleva lasciarsela scappare.
Almeno fino
al trasloco successivo.
“haido tu sei l’unico che ha
questa priorità: io preferisco alleggerirgli il portafogli e
possibilmente
rompergli i coglioni in un locale per fumatori.”
“Neanche per sogno! E poi, tu
parli così perché magari già lo sai
dove abita.”. haido si era accorto troppo
tardi che le sue si avvicinavano pericolosamente alle recriminazioni di
un
bambino delle elementari o, alternativamente, a quelle di un
corteggiatore respinto
e pure frustrato. Si era morso il labbro tra l’imbarazzato e
l’offeso
continuando a guardare Ken dritto negli occhi, sapendo benissimo che
aveva
appena offerto il fianco ad uno dei suoi motteggi. E, dal lampo
ch’era balenato
nello sguardo del chitarrista, sapeva anche sarebbe stato
particolarmente
diretto e fastidiosamente vero.
Invece l’altro si era limitato a
portarsi ancora la sigaretta alle labbra scoccandogli
un’alzata di spalle
noncurante ed un semplice “Forse” che
l’aveva fatto arrabbiare ancora di più.
Ed era lo stato d’animo ideale
per affrontare il leader-sama.
“ ‘Forse’ cosa?”
Quando
tetsu era entrato in
studio gli altri si erano voltati praticamente in contemporanea verso
di lui: il
bassista si era ritrovato tre paia di occhi non proprio amichevoli a
fissarlo
insistentemente senza emettere un fiato.
“Cosa? Che vi prende, il pranzo
non è ancora arrivato?” E quest’ultima
domanda, chissà perché, l’aveva rivolta
soprattutto ad haido, che aveva semplicemente grugnito il suo scontento
in
risposta. Perché no, il pranzo non era comunque ancora
arrivato.
“No. Però abbiamo avuto le bozze dell’intervista del Recochoku.” Ken non aveva mai smesso di fumare e fissarlo sornione. Ma tetsu aveva finto di non badargli. “Era ora. Fate leggere anche a me?” “ Ma certo! Yukki-kun porta qui il tuo portatile, leggiamo tutti insieme!”.
Avrei dovuto capirlo che c’era qualcosa
che non andava dal sorrisone di
Yukki e dal fatto Ken avesse spento la sua malboro per accendersene
subito
un’altra mentre mi si avvicinava –imitato dagli
altri due-, mi prendeva per le
spalle e mi piazzava davanti al laptop. Avrei dovuto capire che
c’era qualcosa
che non quadrava quando me li sono trovati dietro a farmi da capannello
–o da
avvoltoi- mentre facevo scorrere le pagine del sito. Avrei dovuto, ma
non l’ho
capito nemmeno quando sono arrivato a leggere il famoso dunque.
Ci sono arrivato solo quando Ken mi ha stropicciato le spalle con le
mani stringendo ‘amichevolmente’ troppo forte e mi
sono ritrovato haido che mi
flautata in un orecchio “Come pensi di cavartela
questa volta?”.
Già. Ed eccoci qua, sulla strada
principale di Aoyama. Mi è quasi preso
un colpo quando, chiedendo dove lor signori avrebbero preferito
ingozzarsi a
mie spese, haido ha proposto proprio QUEL
locale. E Ken gli è andato dietro pure entusiasta.
“Yukki non c’è mai venuto. Non con noi,
almeno. Non è mica giusto.” È
stato tutto quel che mi ha detto rispondendo alla mia espressione
incerta.
Quello era il locale in cui avevamo mangiato la prima volta tutti e quattro insieme. Con
Sakura. E serbava
solo bei ricordi, era arrivato prima di qualunque recriminazione e
rimpianto,
prima delle lacrime e dei litigi. Era stata la pietra sulla quale
avevamo
costruito il gruppo e l’amicizia che ci aveva intrecciati e
continuava a
tenerci legati. Forse.
“Tetchan, lo mangi quello?”
Come ai vecchi tempi.
The
End.