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Autore: WhoKilledBambi    19/11/2010    2 recensioni
Avevo otto anni quando hanno tirato su quel muro. Avevo otto anni, una sorella gemella, due fratelli e dei genitori che ci amavano tutti. Tutti allo stesso modo, pensavamo noi (...)
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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 Avevo otto anni quando hanno tirato su quel muro. Avevo otto anni, una sorella gemella, due fratelli e dei genitori che ci amavano tutti. Tutti allo stesso modo, pensavamo noi. 

Non erano davvero i nostri genitori; nostra madre e nostro padre erano morti nelle Miniere, e noi ci eravamo ritrovate da un giorno all'altro sole e abbandonate in un  orfanotrofio troppo pieno. Quando quella donna dagli occhi dolci con i suoi due bambini è venuta a prenderci eravamo le persone più felici del mondo. Ma quando hanno eretto quel muro, quando hanno smesso di fornirci il cibo dalla Capitale, e abbiamo iniziato a mangiare soltanto scatolette. Scatolette di latta arrugginita con dentro alimenti muffì. Il cibo, quello vero, quello c'era. Ma costava, costava tantissimo. E Edwing era malato. Mi faceva pietà vederlo lì, piccolo e arrotolato su se stesso nel lettino, sotto le coperte bagnate dal suo sudore. Non so quanto sia rimasto così, ma mi ricordo che quella mattina la mamma ci ha prese per mano e ci ha dato il vestito bello, quello bianco con i bordi d'oro. Ci ha sorriso mentre salivamo sull'auto, ci ha sorriso mentre guidava per vie che non conoscevamo, ci ha sorriso mentre ci faceva scendere e ci accompagnava ad un banco scuro. Ma allora ha smesso di sorridere. Avevamo dodici anni e avevamo appena finito di vivere gli anni più belli della nostra vita. Quando un signore vecchio che puzzava di alcool ha dato un borsellino tintinnante alla mamma non riuscivamo a capire. 

Lei ci ha guardate con quei suoi occhi dolci che ci avevano incantate pieni di lacrime. «Edwing… Edwing non ce la farà mai, senza questi soldi. È stata un'idea di Charles, io…» si è fermata, ha iniziato a piangere nascondendosi il viso fra le mani. «Vi voglio bene, ve ne vorrò sempre» ha mormorato, scappando verso la macchina. 

Quando abbiamo realizzato cosa fosse successo era già troppo tardi. Ci avevano vedute. Ci avevano vendute per trovare i soldi delle medicine di Edwing. Perché lui era davvero loro figlio, perché a lui volevano bene. Io e lei, invece, eravamo state trovate in un orfanotrofio di periferia. Charles non ci aveva mai volute. Charles ci odiava perché la mamma voleva più bene a noi che a lui, perché noi non la picchiavamo, perché non era da noi che doveva scappare la sera. 

Emily  mi guardava sempre con i suoi occhioni azzurri, il visino che diventava più magro e pallido ogni giorno che passava. Ma lei non poteva ammalarsi, non poteva finire come Ed. Ci prendevano tutte le mattine e ci facevano salire su un palco di legno sporco che scricchiolava ad ogni nostro passo. Stavamo lì, al freddo, con addosso solo quello che restava dei nostri vestiti bianchi, ci rannicchiavamo l'una contro l'altra e guardavamo i signori vestiti di tutto punto sventolare borse di denaro verso il cielo. Chi faceva l'offerta più altra si prendeva un ragazzo. Nessuno aveva mai fatto offerte per noi: ci vedevano piccole, magre, sempre tristi e raggomitolate come fossimo un'unica entità. Non so cosa pensassero di noi, ma non pensavano le cose che ci avrebbero salvato da quell'inferno fatto di notti passate a dormire corpo contro corpo con i nostri compagni, fatto di pasti a base di latte cagliato, fatto di frustate contro la pelle. 

Finché non è arrivata Charlein, che ci ha salvate dall'inferno. È qui che comincia la nostra storia.

 

 

«In piedi! In piedi!» la frusta schiocca nell'aria. «Tiratevi su e andate fuori. Di corsa!»

Non c'è più nessuno nella stanza. Io e Emily  siamo sempre vicine, abbracciate, per non essere divise. Le sistemo i capelli con le mani. Sono sempre stata io la più forte, quella che ci parava il culo in ogni situazione. Lei è più femminile, più sincera. Lei è una vera ragazza. Alta, magra, i boccoli biondi che cadono sugli occhi grossi e azzurri come il cielo. Credo sia stata lei a farci adottare la prima volta, guardando la mamma con i suoi occhioni brillanti. 

Siamo contro il palo, io seduta sul palchetto di legno e lei sdraiata con la testa sulla mia pancia. Sorride, nonostante tutto, e si tiene una mano sulla testa. Anche questa notte ha avuto mal di testa, ce l'ha spesso. Questa mattina, con gli occhi cerchiati dalle occhiaie, mi ha detto:«Sel, è oggi.»

È esattamente quello che mi ha detto il giorno in cui sono morti mamma e papà, il giorno in cui siamo state adottate e il giorno in cui siamo state vendute. "Sel è oggi". Ma poi non sa mai dirmi di più. È come se si risvegliasse da un coma. 

Ma oggi sorride, sotto il sole. La conosco abbastanza da dire che quella ciocca di capelli intrecciata tra le sue dita è un segno della sua felicità. E quasi non ci credo quando sento una voce che dice «Quelle due: voglio quelle due.»

Mi tiro su; è stata una donna a parlare, una donna vestita di pelle nera con i capelli rossi legati in una treccia lunga che le scende lungo la schiena. La sua pelle bianca è pulita, ed è così vicina a noi sul palco che quasi posso sentire il suo odore di sapone. Sapone. Quanto tempo è che non uso davvero il sapone? Da quando Edwing è stato male, di sicuro, forse anche da prima. 

Emily  si alza e mi prende per mano, sempre sorridente. «Sel, te l'avevo detto che era oggi.» 

Mentre corriamo verso la donna, dando un saluto con lo sguardo a quelli che erano stati i nostri compagni, la frusta di Mr Sandy si frappone fra di noi. 

«Prima il pagamento, donna.» 

Una bustina nera cade in mano all'uomo. Conta le monete, 30 corone d'argento. Valiamo davvero così tanto? Lui, con la bocca ancora mezza aperta per lo stupore solleva la frusta e ci lascia andare. La donna scompare nella folla, portandosi dietro il suo odore di sapone. Guardo Emily  fisso negli occhi. «Che dobbiamo fare?»

«Andiamo, ci sta aspettando, non vedi?» 

Non so come faccia a  capirlo, in mezzo alla folla, ma la donna sembra appoggiata contro un angolo di un viottolo buio. Quando le arriviamo in contro, lei ha sciolto la treccia e ci fissa, immersa in quelle onde rosse. «Beh, non siete scappate. È già un passo avanti.» prende Emily per mano «tu devi venire con me. E tu… tu sei libera di fare quello che vuoi» aggiunge, rivolta a me. 

Emily mi guarda, i suoi occhi continuano a sorridere, ma è come se non fossero sinceri. «Io senza di lei non vado da nessuna parte».

Non l'avevo mai sentita decisa. Ero io quella che si prendeva cura di lei, non il contrario. La donna mi fissa negli occhi, e una sensazione spiacevole mi entra nella testa, come se qualcuno mi stesse aprendo il cervello e ci stesse facendo le pulizie di primavera dentro. Ma non abbasso lo sguardo, ho paura di quella donna. Mi… inquieta. 

«E io devo anche sottostare a quello che dice una ragazzina?» guarda verso il cielo, come se potesse trovare una soluzione nelle nuvole. Poi molla la mano di Emily e entra nel vicolo. «Venite, se volete. Ho bisogno di voi»

Io e lei restiamo un attimo a guardarci. Quando poi la figura della donna scompare nell'ombra, la inseguiamo di corsa. 

 
   
 
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