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Autore: hotaru    19/11/2010    7 recensioni
«Chibiusa si era ripromessa di non tornarci più. Di non dormire più, se necessario, e anche se una volta si era assopita era riuscita a tornare indietro.
Ma adesso c'era qualcosa di nuovo. C'era un cavallo, un cavallo bianco che aspettava lei ed esisteva soltanto nei suoi sogni. Solo per lei.»
Prima classificata al primo turno del contest "Narrami o Musa..." di wolverina91 e seconda classificata a parimerito al contest "La paura fa 90" di NonnaPapera
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Ami/Amy, Chibiusa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Onirofobia
Onirofobia


Onirofobia

"Sogni, sogni, non dubitarne.

Un sogno di sogni che fanno i bambini che sognano."

  (Circo della Luna Spenta, episodio 150)


La guancia appoggiata al freddo vetro della finestra, se ne stava a guardare il tramonto di quella sera. Il cielo era sereno, tranne per alcune nuvole dalla parte in cui il buio stava avanzando, a oriente. Cercava di fare attenzione ad ogni particolare, osservando qualunque sfumatura, per non assopirsi.

Non che ci fosse buio, ma la luce era insufficiente ad illuminare completamente quello che sembrava un luogo piuttosto grande, dai confini tuttavia ben definiti.
Sapeva che, continuando in una direzione qualunque, sarebbe arrivata a toccare un muro di stoffa che le era ormai piuttosto familiare.
Una figura a testa in giù si stagliava nell'ombra; se ne scorgeva appena la sagoma, ma quella strana pettinatura era inconfondibile.
- È un bel po' che non ci si vede, Chibi... -.


- No! No! - aprì gli occhi, sbarrandoli. Il buio era avanzato, ma anche se il sole era ormai calato a ponente rimaneva ancora la dorata e calda luce del crepuscolo.
- Chibiusa? Va tutto bene? - a parlare era stata una giovane donna che aveva appena aperto la porta per entrare nella stanza. Indossava ancora un lungo camice, ma il fatto che fosse tranquillamente aperto sul davanti, lasciando intravedere la camicetta e la gonna, significava che l'orario di lavoro era terminato e che quello era un momento quasi familiare.
- Ah, dottoressa Mizuno... sì, sto bene – ancora per un po'. Finché non fosse arrivato il buio a ricordarle che aveva assolutamente bisogno di dormire – Ha qualche altro libro da prestarmi? -.
- Quelli adatti alla tua età li ho terminati, ma ti prometto che domani farò un salto in biblioteca a prenderti qualcosa – le rispose, sedendosi sul letto. Quella stanza era arredata in modo quasi normale, come una qualsiasi camera da letto di una qualunque casa, ma rimaneva comunque piuttosto anonima.
La vide tentennare il capo, come chi è colto dagli assalti del sonno ma non vuole assolutamente cedere. Ad un certo punto la bambina sbatté la testa contro il vetro, prendendo una bella botta.
- Ohi! -.
- Chibiusa! Ti sei fatta male? -.
- No, no... - rispose lei, massaggiandosi piano il punto dolorante, coperto dai folti capelli.  
- Forse è meglio se andiamo a bagnarti... un po' d'acqua diminuirà il dolore – disse la dottoressa, facendo per alzarsi.
- No, non serve. Non mi fa più male – continuò però a tastarsi, sicura che le sarebbe venuto fuori un bel bernoccolo. Magari un po' di dolore alla testa l'avrebbe tenuta sveglia.
- Chibiusa, ascoltami. Lo vedo che sei stanca. Una bambina della tua età dovrebbe dormire almeno dieci ore per notte, lo sai? -.
- Ma io sto bene. E riesco a concentrarmi e a leggere comunque... non serve che dorma -.
- Chibiusa... - i grandi occhi azzurri della donna assunsero un'espressione dolce, mentre chiedeva: - Perché non parliamo un po'? Mi puoi raccontare che cosa succede quando dormi, ti va? -.
- Ad esempio? - fece la bambina, leggermente sulla difensiva.
- Quello che sogni – rispose tranquillamente la dottoressa, come se si fosse trattato di una chiacchierata qualunque.
- No – rispose Chibiusa senza battere ciglio.
Beh, era quello che si aspettava. In fondo era ancora troppo presto, ma la pazienza faceva parte del suo lavoro; faceva parte anche di lei, comunque: la classica goccia che scava la pietra.
- Hai qualche preferenza per i libri? Se vuoi un titolo in particolare, posso provare a cercarlo – cambiò discorso. L'importante era mantenere il contatto, anche rimanendo su chiacchiere di nessuna apparente importanza.
- Non ha dei libri di psicologia? - indagò Chibiusa.
Ami sorrise: era la terza volta che avanzava quella richiesta, ma di certo quella bambina non aveva bisogno di arrovellarsi ulteriormente sui propri processi psicologici. Non quando non riusciva ancora a parlarne.
- La sai una cosa? - accavallò le gambe, poggiando le mani intrecciate su un ginocchio, mettendosi più comoda – C'è una branca della psicologia che si occupa di interpretare le fiabe, le più famose e apparentemente più banali, scoprendone il significato più nascosto: ti stupirebbe, sai, che cosa vogliono dirci in realtà. E perché sono state raccontate ai bambini, nel corso dei secoli -.
Non era sicura che molti altri psicanalisti avrebbero approvato quella conversazione, ma era ben consapevole di trovarsi davanti una bambina sveglia e intelligente; e come tale doveva trattarla.
- Davvero? -.
Ami annuì.
- E... - Chibiusa si morse piano le labbra, incerta se chiederlo o meno - … che cosa si dice sul circo? -.
- Sul circo? - la dottoressa ci pensò un attimo – Al momento non mi sovviene alcuna storia che tratti questo tema, ma il circo ha sempre stimolato l'immaginario collettivo: le immagini suggestive di personaggi fuori dal comune, per il loro aspetto o per le loro capacità, hanno ispirato libri e film -.
Tacque un momento, chiedendosi se non stesse per caso usando un linguaggio troppo forbito per una ragazzina, ma Chibiusa la stava seguendo senza problemi.  
- Tu ci sei mai stata? - trovò comunque più opportuno riportare il discorso sui binari sicuri della conversazione tra adulto e bambino.
Chibiusa scosse dapprima la testa, poi ci pensò su e rispose:
- Non me lo ricordo – ma il tono era dubbioso.
- Magari quando ci sei andata eri molto piccola – tentò Ami.
- Quindi è per questo che non mi sembra di ricordare niente? - Chibiusa simulava indifferenza, ma gli occhi tradivano tutta la sua sete di sapere al riguardo.
- È possibile che lo ricordi a livello inconscio: non i particolari, ma alcune immagini che ti sembrano familiari anche se non ricordi di averle mai viste. Non so... vedendo degli acrobati in tivù, o la foto di un domatore. Ti è mai successo? -.
Chibiusa strinse le labbra, chiudendosi nel mutismo assoluto e guardando a terra, prima di rivolgere nuovamente lo sguardo fuori dalla finestra.
Era ormai buio, e in effetti si era fatta ora di andare.
- Adesso devo tornare a casa – disse Ami – Hai bisogno di qualcosa? -.
La bambina scosse la testa; la dottoressa le augurò la buonanotte e uscì.


Appunti della dottoressa Mizuno
Mentre si toglieva il camice nello spogliatoio e usciva dall'edificio, Ami prese mentalmente appunti sulle impressioni che le aveva fatto quella conversazione.
Chibiusa si era chiusa a riccio nel momento in cui erano stati nominati acrobati e domatori; inoltre lei stessa aveva tirato fuori l'argomento "circo", e il fatto che per la terza volta avesse avanzato la richiesta di poter leggere dei libri di psicologia significava che voleva capire. Voleva essere aiutata, e questo era l'unico presupposto necessario.
- Il circo... - mormorò Ami, cercando nei propri ricordi.
Salita in macchina, avviò il motore. La prima volta che era andata al circo l'aveva accompagnata suo padre, e lei era rimasta completamente stregata dal mangiafuoco: il giorno dopo aveva chiesto alla sua maestra come fosse possibile che un essere umano riuscisse a mangiare il fuoco, e perché nel libro di scienze non fosse scritto da nessuna parte.
Rise piano di quelle sue innocenti domande, pensando che quella sera avrebbe dovuto provare a cercare in rete qualcosa concernente il circo. Qualche immagine, o magari dei video.


Era stata lei a voler giocare con loro, in fondo. Sembravano più grandi, ma erano pur sempre delle ragazzine: dicevano di non voler diventare adulte, di voler giocare per sempre. Per loro il circo non era altro che un grande gioco.
Erano quattro ragazzine diversissime, ma unite come sorelle, e Chibiusa le aveva guardate con invidia, desiderando fin da subito di potersi unire al loro gruppo.
Ma lei non domava i leoni, non sapeva volteggiare sul trapezio, non riusciva a fare tre salti mortali di fila e i trucchi con la palla non le riuscivano per niente.
- Non preoccuparti – le aveva detto Cerecere, leggiadra come il fiore che portava tra i capelli – Puoi comunque giocare con noi: anche Pallapalla combina un sacco di pasticci -.
Le aveva indirettamente dato della pasticciona, ma Chibiusa non se l'era presa: Pallapalla le stava simpatica, a volte era persino più infantile di lei.
- Pallapalla non combina un sacco di pasticci! - mise in chiaro l'interpellata, ruzzolando giù dalla palla azzurra su cui stava allegramente passeggiando. Si massaggiò la testa, contrariata, e mise su il broncio a cui tutte avevano fatto l'abitudine.
Chibiusa cercò di non ridere- non le sarebbe piaciuto se fosse stata lei a fare un capitombolo- ma Pallapalla le sorrise amichevolmente.
- Giochi con me? - chiese.
- Giochi con noi? - fecero eco le altre.
Le sarebbe piaciuto moltissimo imparare a domare gli elefanti come faceva Vesves, o volteggiare nell'aria come Junjun. Sapeva di non poter ancora aspirare a tanto, ma quelle quattro ragazzine la stavano accogliendo nel loro gruppo. E rispose di sì.


- ... usa. Ti sei stancata di giocare con noi? -.
- Pallapalla ti annoia? - domandò una vocina piagnucolante.
- Non voglio più giocare con voi! - mise in chiaro Chibiusa, sapendo che gli occhi erano aperti solo nel sogno; nella realtà, li aveva ben chiusi.
- C'è voluto un fiore dalle proprietà soporifere per riportarti qui, lo sai? - la informò tranquillamente Cerecere, accarezzando i petali di uno strano fiore viola.
- Se resti qui, posso iniziare ad insegnarti a domare gli animali. Niente di pericoloso, all'inizio. Cominceremo con i cava... -.
- No! Non voglio! - urlò Chibiusa, tanto forte che le sembrò di sentirsi per davvero, e poco prima di andarsene vide con la coda dell'occhio una grande forma bianca.
Non capì cosa fosse, ma quando riaprì gli occhi le rimase sulla retina un'indistinta e affascinante macchia bianca, che non la abbandonò per il resto della notte.


- Non può andare avanti così, dottoressa. Stanotte l'ho sentita urlare -.
- E che cos'ha detto? -.
- Qualcosa che suonava come "no, non voglio...". Questa storia non può continuare: deve riuscire a farla dormire, in qualche modo! -.
L'infermiera sembrava davvero in apprensione, e Ami comprese che l'essere madre di quattro figli la rendeva sensibile ai problemi di qualunque bambino. Lo capì e lo rispettò, ma non poteva semplicemente far dormire la paziente con un sonnifero somministrato come se niente fosse. Il problema di quella bambina, all'anagrafe Usagi Chiba ma chiamata da tutti Chibiusa, non era di natura fisica, e finché non fosse riuscita a sbrogliare la matassa del suo inconscio non avrebbe dovuto darsi per vinta.
Era giovane, e ancora recuperabile. Bisognava solo trovare il capo di quell'ingarbugliatissimo filo.
Mentre si avvicinava alla sua stanza, percorrendo il corridoio e salutando cortesemente il personale che incontrava, diede una scorsa veloce a tutti gli appunti che aveva raccolto finora.
"Chiaro caso di onirofobia" aveva scritto. Beh, su quello non ci pioveva: la paziente mostrava tutti i sintomi di chi ha paura dei sogni e di sognare. Cercava disperatamente di non dormire e, ogni volta che provava a chiedergliene il motivo, si chiudeva nel mutismo assoluto. Non voleva ricordare i propri sogni, questo era chiaro, ma il nodo stava tutto lì: che cosa non voleva sognare? Un ricordo traumatico che si ripresentava in forma onirica? O qualcosa di più elaborato, creato dalla sua mente di bambina pronta e sveglia?
Per cominciare ad uscirne Chibiusa avrebbe almeno dovuto raccontarle la dinamica dei propri sogni, in modo che lei riuscisse ad analizzarli, ma la bambina si rifiutava puntualmente.
Erano settimane che cercava una traccia, un indizio qualunque che potesse iniziare ad aprire una breccia nel mondo onirico della paziente, e forse la sera prima aveva trovato qualcosa.
La dottoressa Mizuno bussò alla porta della stanza in cui si trovava Chibiusa ed entrò, trovandola sveglia accanto alla finestra e con due occhiaie che avrebbero fatto invidia a un fantasma.

- Ti ho portato qualcosa che potrebbe interessarti – annunciò.
Chibiusa allungò la testa, mostrandosi curiosa anche se era visibilmente esausta.
- Ecco, guarda – tirò fuori il computer portatile, sistemandosi sul letto, dove la bambina la raggiunse. Indossava ancora il pigiama verde che le avevano fatto mettere la sera prima, ma era lampante che non aveva chiuso occhio. Ami cercò di non pensarci e aprì la cartella in cui aveva raccolto tutte le immagini che aveva trovato sotto la voce "circo".
Vide Chibiusa irrigidirsi impercettibilmente, senza tuttavia distogliere lo sguardo dallo schermo. Ami dovette riconoscerle una certa forza d'animo, davvero non comune in una bambina di quell'età.
Decise che in quel momento la cosa migliore era rimanere in silenzio, e si mise anche lei ad osservare le molteplici immagini che coloravano lo schermo.
C'era davvero di che far volare la fantasia: tendoni colorati, grandi manifesti che annunciavano spettacoli mirabolanti, acrobati in equilibrio su lunghe pertiche e trapezisti volteggianti. Non le piacquero molto le foto di una tigre che saltava in un cerchio di fuoco- non approvava un simile utilizzo degli animali- e di un domatore in frac e cilindro che faceva alzare su due zampe uno splendido cava...
- Ah! - seguì con lo sguardo il dito di Chibiusa che indicò qualcosa sullo schermo. Guardò, e vide la foto del cavallo bianco che stava osservando l'istante prima.
- Un destriero magnifico, non è vero? - disse, chiedendosi se l'immagine da cui era stata attratta la bambina non avesse per lei un qualche significato – Ti ricordi se al circo hai mai visto un numero con i cavalli? Magari una volta che ci sei andata da piccola -.
Ma non era a questo che Chibiusa stava pensando. Stava guardando quell'animale in piedi sulle zampe posteriori, con una bardatura luccicante e un pennacchio in testa, rendendosi conto che la sagoma candida vista nel sogno non era altro che un cavallo.
Un cavallo. Un cavallo bianco. Era quello l'animale che Vesves voleva insegnarle a domare.


Appunti della dottoressa Mizuno
In qualunque cosa la mente di quella bambina fosse stata coinvolta prima dell'incidente, ci stava inequivocabilmente tornando. Completamente persa nei processi della propria mente, non manifestava alcun segno di dolore- perlomeno non evidente- per la tragedia occorsa da poco. Più che con un prodotto dell'inconscio, però, sembrava che stesse interagendo con qualcosa di altro rispetto al proprio io. Eppure Ami non era propensa ad attribuirle alcun sintomo di schizofrenia; c'era solo quella persistente e apparentemente ingiustificata paura di sognare, e di conseguenza di dormire.
Ma forse stavano facendo qualche timido progresso. Quando infilò le chiavi nel cruscotto, Ami si rincuorò pensando che rispetto al giorno prima aveva già un altro indizio: il circo e il cavallo bianco.


Si era ripromessa di non tornarci più. Di non dormire più, se necessario, e anche se una volta si era assopita era riuscita a tornare indietro.
Ma adesso c'era qualcosa di nuovo. C'era un cavallo, un cavallo bianco che aspettava lei ed esisteva soltanto nei suoi sogni. Solo per lei.
E la decisione iniziale si andava facendo sempre più blanda, il tempo passava e le giornate scorrevano tranquille. Qualche volta era riuscita a dormire il tempo necessario di riposare un po', senza che quel circo buio riapparisse nella sua mente; ma era stanca, tanto stanca. Una bambina della sua età avrebbe dovuto dormire dieci ore per notte, e lei cominciava a non farcela più.
Voleva vedere quel cavallo.


- Cominceremo con i cavalli – stava dicendo Vesves, come se lei non se ne fosse mai andata. Era come un film che metteva in pausa, e poi riprendeva non appena si risistemava davanti alla tivù – Guarda che splendido esemplare abbiamo qui -.
Non c'era bisogno che glielo dicesse. Chibiusa era già completamente rapita dalla visione di un magnifico destriero che non si poteva ridurre al termine "cavallo". Aveva le ali. E un corno dorato sulla fronte.
La definizione più esatta sarebbe stata "unicorno alato": sapeva che nelle fiabe si parlava di unicorni e cavalli alati, ma non aveva mai sentito che le due cose potessero unirsi in un'unica creatura. Era quanto di più bello avesse mai visto.
- Io di solito preferisco belve che abbiano almeno zanne o artigli – continuò Vesves, tenendo saldamente l'animale per le briglie – Qui ci sono solo quattro zoccoli, ma per te andrà benissimo -.
Chibiusa non poteva essere più d'accordo.
- Che sciocchezza – ribatté Cerecere – Come puoi paragonare l'eleganza di questo animale alla volgarità di una tigre o un orso vestiti da pagliacci? -.
- E guarda che quel corno può far male, secondo me – osservò Junjun.
- A Pallapalla piace! - esclamò quest'ultima, volendo dare a tutti i costi il proprio parere.
Nel frattempo Chibiusa si era avvicinata al cavallo, senza paura, accarezzandone piano le froge delicate e la parte inferiore del muso. Più in alto non arrivava, ma l'animale abbassò il capo per lei, consentendole di toccarlo anche fra gli occhi e all'attaccatura del corno.
Chibiusa era estasiata, e le quattro Amazzoni a dir poco sorprese.
- Caspita, Vesves, sembra che qui qualcuno abbia più talento di te – commentò Cerecere.
- Già – le fece eco Junjun – E dire che finché non gli abbiamo messo le briglie scalciava come un matto! -.
- A Pallapalla faceva paura! -.
Vesves, leggermente infastidita da quei commenti, fece finta di niente, ma Chibiusa domandò:
- A me sembra così mansueto... queste briglie non si potrebbero togliere? Secondo me gli danno fastidio -.
Vesves rispose con un sorrisetto serafico.
- Non dire sciocchezze, Chibiusa: togliergli le briglie significherebbe liberarlo. E la prima regola di un domatore è che un animale non si può liberare, perché non obbedirebbe più -.
- Ma lui... ha degli occhi così tristi! -.
- È prigioniero, piccola. Come dovrebbe sentirsi? - le fece notare Cerecere.
Chibiusa non era convinta. Fino a quel momento l'idea di imparare a domare un animale l'aveva entusiasmata moltissimo, ma ad un tratto la faceva sentire terribilmente meschina. Quel cavallo la stava guardando, spingendo il muso contro la sua guancia, chiedendole silenziosamente aiuto. Non voleva che rimanesse prigioniero.
- Io... non voglio più domarlo. Voglio che lo liberiate -.
Vesves, che ancora stringeva in mano le briglie, non rispose subito. Scambiò uno sguardo con le altre, che da interrogativo divenne d'intesa.
- La libertà ha un prezzo, Chibiusa – le disse poi, e tutte e quattro le sorrisero sornione, chiedendole: - Giochi con noi? -.


Quando quella mattina la dottoressa Mizuno entrò nel proprio ufficio trattenne un pesante sospiro, anche se l'infermiera al banco le aveva già detto che erano arrivati.
- Buongiorno, dottoressa – la salutarono cortesemente.
- Buongiorno, agenti – rispose educatamente Ami. Stavano solo facendo il loro lavoro, esattamente come lei.
- Credo non ci sia bisogno di dirle perché siamo qui – esordì il più anziano dei due.
No, infatti. Già l'ultima volta le avevano detto che si sarebbero ripresentati dopo un po' di tempo; tempo che tuttavia non era stato ancora sufficiente.
- Mi rincresce dover dire di essere ancora contraria a qualunque domanda vogliate fare alla mia paziente -.
- Non possiamo rimandare ancora: il referto medico è incontestabile, e le prove inoppugnabili – le rispose il più giovane, facendo sfoggio di termini che Ami conosceva molto meglio di lui, dalle radici fino a tutti i loro derivati.
- In effetti, dottoressa, comprendiamo che non ci sia struttura migliore in cui la bambina possa trovarsi – ammise il più anziano, porgendole dei documenti – Ma la scientifica parla chiaro: è stata lei ad aprire il gas, e nessun altro -.
Ad Ami sembrò di aver inghiottito una massa di carne cruda e amara, tanto fu orribile la sensazione di incredula impotenza mentre leggeva i documenti che le erano stati consegnati. Il referto parlava chiaro per davvero: sulle manopole del fornello non erano state trovate altre impronte oltre a quelle dei familiari, e risultava che la bambina aveva stranamente toccato tutte e sei le manopole. Il referto le definiva recenti e omogenee, come se avesse sistematicamente aperto il gas in un momento di perfetta lucidità.
Il giorno dopo i genitori- identificati come i coniugi Mamoru e Usagi Chiba- erano stati ritrovati morti in camera da letto; probabilmente erano spirati nel sonno, senza accorgersi di nulla. Invece la figlia, sulla carta Usagi Chiba, per quanto in condizioni critiche era riuscita a salvarsi.
Sembrava assurdo che una bambina di quell'età potesse aver davvero aperto il gas, deliberatamente e per chissà quale motivo, ma gli strani discorsi che aveva fatto non appena si era ripresa avevano indotto i medici a farla ricoverare in quella struttura. Ritenevano che si trovasse in stato di shock, ma Ami aveva presto capito che le cose non erano così semplici. Non lo erano mai state.
Chibiusa aveva probabilmente ucciso i propri genitori, e al momento forse nemmeno lei sapeva perché.


In realtà Chibiusa sapeva perché; ciò che non aveva immaginato era che il suo gesto potesse avere delle conseguenze simili.
Quando aveva accettato di giocare con loro la prima volta, Junjun le aveva promesso di insegnarle i trucchi dei mangiafuoco; ma aveva anche detto che c'era bisogno di combustibile, per ottenere la quantità di fuoco necessaria.
Dal primo momento in cui Chibiusa aveva riaperto gli occhi, all'ospedale, il peso della propria colpa era stato più forte del dolore; e aveva cercato in qualche modo di espiarlo, decidendo di non dormire più. Punendosi da sola, implacabile come il peggiore dei carcerieri.
Ma adesso c'era da salvare quel cavallo. Quell'unicorno. Quel pegaso. Poteva sembrare una scelta difficile, ma non lo fu: Chibiusa voleva liberarlo, e per riuscirci avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Anche giocare di nuovo.


Era riuscita a strappare una settimana in più: non era niente, in realtà, ma avrebbe almeno potuto preparare Chibiusa al fatto che la polizia le avrebbe fatto delle domande.
Diretta verso la sua stanza, per una volta decise di entrare senza bussare, e quando aprì la porta quel tanto che bastava per guardare dentro, represse a stento un "Oh!" di sorpresa.
Chibiusa stava dormendo.
Aveva quasi del surreale vederla finalmente con gli occhi chiusi, serenamente abbandonata sul letto. I folti capelli le incorniciavano il viso, che nel sonno non mostrava più quella durezza adulta di cui Ami continuava a ricercare l'origine. Una bambina addormentata, nient'altro. Immersa nel proprio mondo dei sogni, quel mondo in cui Ami stava costantemente cercando di entrare.
Si era addormentata sopra al copriletto, perciò Ami aprì silenziosamente l'armadio e ne tirò fuori una coperta, che usò per coprire Chibiusa.
Le fece una leggera carezza sui capelli, chiedendosi se una bambina di quell'età potesse davvero crescere senza genitori. Sapeva alla perfezione ciò che diceva la psicologia al riguardo, ma come essere umano le sembrava una cosa quasi impossibile. Quella bambina addormentata era più indifesa di un coniglietto, così raggomitolata nella sua coperta, mentre quasi sorrideva nel sonno.
... possibile? Possibile che fosse stata davvero lei, ad aprire il gas quella notte? E perché?
Ami sospirò piano, sentendosi come sempre una specie di mostro che vivisezionava sentimenti e ricordi. Ma in fondo era il suo lavoro, e mantenere un certo distacco era necessario per non venire schiacciati dall'interiorità di un altro essere umano.
E in fondo il fatto che Chibiusa stesse dormendo così profondamente era già un passo avanti.
Stava per uscire, quando un particolare sulla scrivania attirò la sua attenzione; si avvicinò al quaderno già aperto e sfogliò alcune pagine. Si soffermò su un disegno fatto a matita, che osservò a lungo: rappresentava un cavallo, ma non un cavallo qualsiasi. Aveva le ali e un corno sulla fronte: era un animale che non esisteva nemmeno nelle leggende o nelle favole, perché Ami non aveva mai letto di una creatura che unisse in sé pegaso e unicorno. Spostò lo sguardo su Chibiusa, mentre la mente andava a quando aveva mostrato alla bambina quelle immagini sul circo, e lei era rimasta colpita dalla foto di un cavallo.
Un cavallo che aveva probabilmente rielaborato con la fantasia, o forse... forse...
Richiuse il quaderno e uscì dalla stanza in punta di piedi. Aveva qualcosa da cercare.


Quel giorno la dottoressa Mizuno era stata parecchio impegnata: aveva avuto due riunioni e un consulto improvviso per un paziente che aveva tentato il suicidio. Mentre sbocconcellava un panino, all'ora di pranzo, era riuscita a fare qualche ricerca col suo portatile, ma l'assoluta mancanza di un attimo libero le aveva impedito di tornare nella stanza di Chibiusa e parlare un po' con lei.
Ma aveva trovato qualcosa di interessante, e il giorno dopo avrebbero fatto una bella chiacchierata, ne era sicura.
Quella sera il cielo era limpido e si riusciva a scorgere qualche stella, malgrado le forti luci della città. Ami sistemò computer e scartoffie sul sedile accanto a quello del guidatore e chiuse la portiera, crogiolandosi nel pensiero che di lì a poco si sarebbe trovata nella sua vasca a bagno, a mollo nell'acqua calda.
Chiuse la portiera e girò la chiave nel cruscotto, premendo il pedale della frizione. Accese i fanali e partì, sospirando di sollievo nel trovare poco traffico per strada.

Quando Chibiusa si svegliò, non fu sorpresa nel trovare una coperta a tenerle caldo: lo sapeva già. E non fece alcuna fatica ad individuare ciò che Pallapalla le aveva detto di cercare, ossia un capello che doveva trovarsi sul tessuto della coperta.
Era più corto, più scuro e più liscio dei suoi... non poteva sbagliarsi. Lo raccolse con attenzione, tenendolo tra i polpastrelli di pollice e indice, e si alzò dal letto. Si guardò velocemente intorno, e quando lo sguardo le cadde su una piccola scatola di latta rettangolare decise che sarebbe andata bene. La svuotò delle ultime tre caramelle, infilandosele direttamente in bocca, e andò in bagno.
Mise il capello nella scatolina, attenta a non farlo cadere nel lavandino, e aprì il rubinetto.
Era stata Pallapalla a suggerire questo gioco, lei che oltre a saper camminare in equilibrio su qualsiasi cosa si divertiva a giocare con delle bamboline come se fossero state i personaggi di chissà quale telenovela. Pallapalla, per certi versi, sembrava più piccola e più ingenua di lei: per cui quello che le aveva detto di fare non poteva essere pericoloso, giusto?
Fu con questa convinzione che Chibiusa mise la scatola con il capello sotto il getto d'acqua, riempiendola fino all'orlo.

Ami aprì d'istinto la bocca, ma nemmeno una particella d'aria trovò la strada fino ai polmoni.
Annaspò, stringendo convulsamente le mani sul volante, mentre si ritrovava assurdamente a pensare che era come se nella macchina non ci fosse più ossigeno. Era come se invece dell'aria stesse mandando giù qualcos'altro, qualcosa che le riempiva inesorabilmente gola e polmoni e le impediva di respirare.
Ormai stava cominciando a sentirsi venir meno, e in un ultimo momento di lucidità allungò la mano verso il pulsante che azionava il finestrino, chiedendosi inconsciamente se aprirlo sarebbe servito a qualcosa.
Le dita stavano ormai per premerlo, quando due enormi luci attirarono il suo sguardo già appannato e prossimo alla perdita dei sensi: due luci che si facevano sempre più grandi, mentre nell'abitacolo lei stava soffocando e al suo cervello non arrivava più aria.
Sentì che i sensi cominciavano a mancarle, e non fece in tempo a vedere cosa fossero quelle due grandi luci sempre più vicine.
Due luci che si rivelarono i potenti fari di un camion.


Appunti della dottoressa Mizuno
Il fulcro stava nel corno, più che nelle ali: l'unicorno era una creatura mitica del Medioevo occidentale, che viveva nei boschi e secondo i bestiari poteva essere ammansito solo da una vergine, simbolo della purezza. Solitamente veniva preferita una bambina, l'unica che potesse avvicinarlo.
Secondo altre leggende più tarde, l'unicorno è il custode del mondo dei sogni, colui che vi accompagna le persone addormentate; e guarda caso a disegnarlo su un quaderno era stata una bambina che soffriva di onirofobia. Possibile che fosse solo una coincidenza?
Ami pensava che potesse essere una buona idea partire da questa figura per cercare di aprire uno spiraglio nella mente di Chibiusa. Partire dal custode dei sogni per arrivare a quelli che le facevano tanta paura. E magari risolvere il mistero del gas, chi lo sa.
 

Il giorno dopo tutto il personale della struttura era semplicemente sconvolto: nessuno riusciva a capire come la dottoressa Mizuno, così precisa e attenta in ogni cosa, potesse aver invaso la corsia opposta ed essere inesorabilmente finita contro un camion.
L'unica spiegazione possibile era che fosse stata colta da un malore improvviso, ma le infermiere e tutti i medici erano comunque increduli. L'atmosfera quella mattina era quasi surreale, e i colleghi della dottoressa Mizuno a dir poco disorientati da quella morte assurda. Per quel giorno, sembrava che le uniche ad aver mantenuto una certa padronanza di sé fossero le infermiere più anziane: infatti fu a una di loro che una collega più giovane si rivolse, dopo essere stata nella stanza di Chibiusa.
- Non gliel'ho detto – ammise.
La donna più anziana aggrottò le sopracciglia.
- È bene farlo al più presto, però. Non importa se è solo una bambina: deve sapere. Era estremamente affezionata alla dottoressa, e dopo quello che ha passato... povera piccola... -.
- No, questo lo so benissimo anch'io – la interruppe l'altra – Non gliel'ho detto semplicemente perché l'ho trovata addormentata nel suo letto: viste le ultime settimane, non ho di certo voluto svegliarla -.
L'altra infermiera annuì, sorpresa ma sollevata che la bambina avesse finalmente ricominciato a dormire.
- E poi sembrava così serena... - continuò la più giovane – Non capita spesso, in questo lavoro, di vedere un bambino che sorrida nel sonno -.


Onirofobia 2



Questa storia si è classificata prima al primo turno del contest “Narrami o Musa...” di wolverina91.
Da contest, la fic doveva essere drammatica e vi andavano inseriti un omicidio e una parola scelta da una lista fornitaci dalla giudice: io ho inserito “libertà” e “scelta”.
È una storia un po' particolare, un omaggio a dei personaggi che amo molto, come Chibiusa e il Quartetto delle Amazzoni. Utilizza qualche elemento della quarta serie di “Sailor Moon”- il sogno, il circo- ma un po' “al rovescio”.
È arrivata invece seconda a parimerito al contest “La paura fa 90” di NonnaPapera: la fobia che ho scelto è per l'appunto l'onirofobia, la paura dei sogni e di sognare. Direi perfetto per la quarta serie di “Sailor Moon”!

Gli “appunti della dottoressa Mizuno” non ho voluto metterli necessariamente in prima persona, perché indicano semplicemente un momento incentrato su Ami e sui suoi pensieri, nel quale fa il punto della situazione.

Ho cominciato inoltre a pubblicare una cross-over con i personaggi di "Sailor Moon", "Cardcaptor Sakura" e "Naruto": "Il Filo Nero".
Dateci un'occhiata, mi raccomando! ^^

Ah, un'altra cosa: vorrei fare un po' di pubblicità ad un piccolo sondaggio che ho lanciato nel forum:
“Quale serie di Sailor Moon preferite?”
Dite la vostra, mi raccomando! ^^


   
 
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