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Autore: h y p e r m y t h    19/11/2010    0 recensioni
Le giornate di merda iniziano sempre con un barlume di positività.
Mi sono ispirata ad un articolo letto tempo fa sul cosiddetto "Bristol Hum", il "ronzio di Bristol", che ha tormentato la città dal 1979. Ora sembra che abbiano risolto il problema catalogandolo come fattore psicologico degenerato in isteria di massa, ma questo rumore a bassa frequenza potrebbe essere qualcosa di molto più oscuro. {Song: Hide and Seek by Imogen Heap}
Genere: Drammatico, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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f r e q u e n c y

 

Le giornate di merda iniziano sempre con un barlume di positività.
“Buon giorno Bristol! Oggi è il 6 ottobre e fuori sembra che niente possa rovinare quella che si prospetta essere una gran bella giornata di sole, quindi cacciate fuori i vostri skate e andate a farvi un bel giro nel parco! Uffa, vorrei raggiun…”
Click.
E come se non bastasse, il ronzio continuava. Berenice lo sentiva da più di una settimana, cupo e insistente, provenire da un punto imprecisato sopra la sua testa, senza che lei potesse fare alcunché per farlo tacere; da giorni faticava a prendere sonno, costretta ad attendere orari indecenti prima di potersi concedere una sana dormita.
Si scostò svogliatamente i lunghi capelli neri dalla faccia, nascondendosi ai sottili raggi di luce che fendevano l’oscurità battendo su quel copriletto ormai sfilacciato dagli anni, illuminando una sottile coltre di povere. Osservò il pulviscolo volteggiare nell’aria fino a che non sentì la bussata poco convinta tipica del fratello maggiore.
“Nice, vado in bagno”
“Bene”

Ascoltando i passi strascicati lungo il corridoio, Berenice constatò che Aaron doveva essere rientrato molto tardi quella sera, e non avendolo sentito arrivare, era sicura che avrebbe passato dei guai con papà. Non che ci fosse niente di strano in questo.

Aveva cominciato a percepirlo a scuola, durante il compito di fisica. Il grave ronzio era iniziato piano, tanto da farle credere che si trattasse di un cellulare malauguratamente lasciato in vibrazione per ricevere le risposte al test, eppure nessuno si era irrigidito nel sentirlo, anzi, sembrava che l'unica ad essersene accorta fosse proprio lei. Dandosi dell’idiota aveva continuato imperterrita a segnare risposte a caso nelle caselle, rimuginando sul fatto che la sera prima il suo studio era stato interrotto da una delle solite litigate tra Aaron e papà. Stavolta aveva impiegato più di un’ora per separarli, ma non era riuscita a far nulla per impedire che il fratello si rifugiasse in camera con il labbro gonfio e sanguinante; quindi il suo apprendimento della fisica si era fermato al primo capitolo, su cui ovviamente la professoressa aveva pensato bene di assegnare una sola domanda tra le quaranta del test.
Ma il problema vero e proprio si presentò solo al suono della campanella: il ronzio non aveva accennato a fermarsi, aumentando anzi di volume fino a riempirle le orecchie. A nulla erano valsi i tentativi di scacciarlo, per cui Berenice si era infilata le cuffie da DJ e con la musica al massimo aveva preso la prima traversa, quella che passava davanti alla cattedrale, per anticipare il ritorno a casa.
Non sentì la macchina arrivare contromano alla sua destra.
 
Facendo leva sulla gamba sana si alzò faticosamente dal letto, infilandosi gli occhiali per poi afferrare una stampella, mentre una smorfia di dolore le contraeva il pallido viso triangolare. Trascinandosi sulla moquette verde scuro si diresse verso la scrivania strabordante di carta e trucioli di gomma, impugnò la spazzola e cominciò a pettinarsi il groviglio notturno di nodi, riflettendo su cos’avrebbe potuto inventarsi di nuovo per giustificare il mancato svolgimento dei compiti. Non poteva certo raccontare della crisi epilettica del padre, di Aaron che era uscito di casa lasciandole il genitore in crisi, dell’autoambulanza arrivata in ritardo. Era fin troppo inverosimile, quasi banale.
Berenice sì vestì con calma, concentrandosi sul ronzio, mentre di sotto le bestemmie cominciavano.
 
Finita la scuola, Berenice s’infilò nuovamente nel vicolo dov'era avvenuto l’incidente; non sapeva perché, ma aveva la sensazione di doverlo fare. La cattedrale di Bristol non le era mai piaciuta, per cui si premuniva di passarci davanti il meno possibile, ma scorrendo distrattamente con lo sguardo i turisti, sentì un brivido freddo correrle lungo la schiena.
“B…ice…v…ni…a…noi…!”
L’incedere delle stampelle s’interruppe, lasciando ondeggiare solo il jack delle cuffie: alla ragazza era improvvisamente parso che il ronzio si fosse mutato in qualcosa di più forte e comprensibile.
“…vieni…d…oi…!”
Il cielo azzurro divenne grigio come il ferro e Berenice si accorse di essere improvvisamente sola in quella strada, la pungente sensazione di gelo si fece opprimente: le campane rintoccarono cupe e la piazza deserta fu spazzata da un vento freddo. Si sentì osservata.
Non era la prima volta che vedeva la donna velata: al mercato, in biblioteca, dalla finestra, le capitava di scorgerla anche più volte al giorno. Impassibile, silenziosa, interamente coperta da un lungo burqa scuro, scompariva ogni volta che Berenice le gettava un’occhiata più attenta. E adesso era lì.
“Non so chi lei sia, ma la pregherei di smetterla di seguirmi” disse la ragazza, intimorita.
Per tutta risposta, l'altra cominciò lentamente a piegarsi verso terra, afferrando con calma l’orlo del lungo abito nero ed infine rialzandosi al rallentatore.
“E questa che fa?! Si spoglia?!”pensò allarmata Berenice, arretrando di un passo. Un rantolo strozzato uscì dalla sua gola quando si accorse che, al posto della biancheria intima, la donna era cinta da un busto di candelotti di dinamite. Tolto il burqa, rivelò un viso ovale molto grazioso, se solo la parte destra non fosse stata orribilmente sfigurata da quello che sembrava acido. Era impossibile definire la sua espressione, ma la sua guancia sinistra era bagnata di lacrime.
“No, cosa fai! Fermati, è una bomba!” gridò Berenice, combattuta tra il desiderio di salvarla e quello impellente di fuggire.
La donna la guardò intensamente, poi scosse la testa.
E la lucina sul contatore diventò rossa.
Berenice urlò ed istintivamente si coprì gli occhi, ma non accadde nulla: scostando le mani dal viso, vide invece un uomo sulla quarantina, in giacca e cravatta, attraversare il pulviscolo dorato dove prima c’era la donna-kamikaze.
“Ma allora non vuoi proprio capirlo, Berenice” disse lo sconosciuto con un sorriso mesto.
“Che cosa dovrei capire?”
“Non è difficile, piccola. Abbiamo tentato di dirtelo, ma tu non volevi ascoltarci…non è troppo tardi, però. Vieni con noi, Berenice”
“Con voi dove? Chi siete?” domandò la ragazza, confusa.
Le campane rintoccarono ancora. Dal fondo della strada, la ragazza intravide una lunga processione di persone interamente vestita a lutto, trasportando delle bare. Una di queste era bianca.
“Vieni con noi, sei stata qui troppo a lungo”
Berenice si voltò: la voce apparteneva a una donna sulla cinquantina, con un cappellino in testa ed un dalmata al guinzaglio. Sorrideva, e in quel sorriso brillava la pietà.
“Non c’è più bisogno di te qui, figliola” disse un vecchio dal naso arrossato e i lunghi baffi spioventi, mentre strizzava gli occhietti acquosi dietro ai piccoli occhiali.
“Chi siete? Cosa volete da me?” gridò Berenice, indietreggiando ancora.
Una stampella urtò qualcosa e il pianto di un bambino spezzò il pesante silenzio.
“Ecco, te svegliato Sasha! Adesso io anni per riaddormentare lui!” esclamò una donna bionda che spingeva una carrozzina, prendendo in braccio il piccolo per poterlo cullare.
Il corteo funebre si avvicinò e lo sguardo di Berenice fu attratto da due figure perse tra la folla: una aveva la sua stessa camminata leggermente curva, l’altra una pettinatura decisamente stramba. Entrambe piangevano a dirotto.
“Aaron?! Papà?!”
La ragazza si fece strada tra la piccola folla raccoltasi attorno a lei per correre dalla sua famiglia, ma l’uomo in giacca e cravatta l’afferrò per le spalle e la trascinò indietro.
“Non farlo! Se ti avvicini ancora di più, non potrai mai lasciare questo mondo!”
Smettendo di lottare, Berenice si afflosciò tra la braccia dell’uomo le cui parole l’avevano come dilaniata dentro, sebbene ancora non capisse cosa stava accadendo.
“Tu sei morta, Berenice”
“Non è possibile”
“Non prendermi in giro!” strillò la ragazza, divincolandosi per guardarlo in faccia con gli occhi pieni di lacrime: non poteva essere morta! Chi avrebbe badato a papà e impedito ad Aaron di imbottirsi di droga con i mafiosi del quartiere, chi avrebbe portato i fiori sulla tomba della madre, chi avrebbe sognato di combattere il tumore che l’aveva uccisa?
Ogni sogno, incubo, opportunità, erano svanite in un lampo.
“Sei morta il giorno stesso dell’incidente. Quella macchina contromano apparteneva ad un certo Ghasaan Makeeda e a sua moglie Reema” disse la donna con il cane, senza più sorridere. Berenice si irrigidì, e l’uomo riprese pronto la parola:
“Si sono fatti esplodere quando hanno visto abbastanza folla attorno a loro – ti hanno investita in pieno – e noi siamo solo cinque dei trentotto morti. Eppure tu sei rimasta qui, hai vissuto la tua vita per una settimana…ma in realtà nessuno ti ha visto, sentito o parlato. Tu non esisti più”
Berenice si coprì gli occhi con le mani, il respiro corto e accelerato dal panico crescente.
“Calma. Aaron ogni mattina passa sempre dalla mia porta per, la signora Anderson mi detesta come al solito e Claire…Claire…”
La ragazza aprì gli occhi, realizzando improvvisamente ogni cosa: Claire, la sua migliore amica, non le rivolgeva più la parola da una settimana. La prof di fisica non le aveva urlato contro. E Aaron non era entrato per svegliarla, aveva solo bussato.
Tutto tornava: il compito in classe mai ridato, il bibliotecario silenzioso, la commessa dallo sguardo assente al supermercato…in realtà lei non aveva fatto che girare, girare, girare, senza mai essere vista o sentita da nessuno.
In fondo alla strada, sotto ad un albero ormai secco riapparve la donna dal volto sfigurato, le spalle scosse dai singhiozzi: nessuno sarebbe venuto a prendere i suoi resti per dare loro una sepoltura. Di lei e del marito non c’era più nulla.
Guardò il corteo, il volto sfigurato dalla disperazione di Aaron e di suo padre.
Guardò i visi seri delle altre vittime.
E si rese conto di contemplare l’inferno.

  
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