Capitolo
8 – Miserable at Best
Caddi
in depressione.
Passai
la settimana seguente a
piangere, non andai a scuola, non vidi nessuno, non risposi alle
telefonate.
Stavo
tutto il tempo a letto, con
il cuscino in grembo, a fissare la parete con uno sguardo vacuo.
Una
settimana dopo, decisi che per
il mio bene, dovevo alzarmi dal letto e uscire. Quel giorno camminai
per non so
quanto tempo, senza una meta, fino a quando si fece buio.
La mattina seguente mi alzai
presto e ripresi
la mia vecchia routine, solo per il gusto di farlo.
Ero
sempre, costantemente pallida,
i miei capelli erano spenti, e oramai avevo anche smesso di truccarmi
perché
piangevo talmente tanto che puntualmente il trucco si scioglieva
facendomi
assomigliare ancora di più a uno zombie in calze a rete.
Dormivo poco e male, e
nel mio sonno non c’era l’ombra di un sogno.
Mi
sentivo come se mi avessero
strappato l’anima.
Andavo
a scuola, ma non mi impegnavo.
Me ne stavo seduta al banco completamente assente.
Le
ragazze della mia classe parlavano
solo del ballo di fine anno che la scuola stava organizzando. Per me
erano
sempre state delle caccole fastidiose, ma in quel momento
più che mai. Le
ignoravo e basta, proprio come loro avevano sempre fatto con me.
L’unica
che sembrava preoccupata
per il mio malumore, oltre alla mia migliore amica Valeria che
però non
frequentava la mia stessa classe, era Tomata, la mia compagna di banco.
Quella
ragazza era un’altra delle
poche persone che mi capivano veramente, probabilmente
perché anche lei veniva
reputata strana.
Magra
e non molto alta,
decisamente poco atletica, nascondeva la pelle chiarissima del viso
sotto una
foresta di capelli mori e ricci, e gli occhi castano scuri sotto una
lunga
frangetta. Nel complesso assomigliava più a un barboncino
che a una 14enne.
Nessuno
conosceva il suo vero
nome, ma veniva chiamata Tomata perché in qualsiasi cosa
mangiasse c’era la
presenza di pomodori.
Tomata
era molto simile a me,
tranne per i gusti musicali e per il fatto che fosse lesbica. Era molto
intelligente e introversa, ma con le persone a lei care diventava
un’amica
adorabile, che esprimeva la sua gioia saltellando. Amava stare da sola
e il suo
carattere era talmente complicato che solo io riuscivo a capirlo,
perché era
identico al mio.
Ogni
giorno all’uscita di scuola,
incontravo Lorenzo. Ma oramai mi ero messa l’anima in pace, e
ogni volta che lo
vedevo soffrivo un po’ di meno, anche se il cambiamento era
impercettibile.
Dopo
scuola prendevo sempre il
solito autobus. Arrivata alla fermata tornavo a casa, pranzavo, facevo
i
compiti e mi infilavo in camera mia, da cui uscivo solo quando dovevo
andare a
danza.
Perfino
mia madre non sapeva più
che fare. Era disperata: ogni volta che mi vedeva o vagavo per casa
bianca come
un fantasma, oppure stavo sdraiata sul letto, con il cuscino in grembo
a
fissare il muro con lo stesso sguardo vacuo di sempre, ad ascoltare una
sola
canzone, sempre la stessa. “Miserable at Best” dei
Mayday Parade.
Anche
se non era esattamente il
mio genere –quella canzone era TROPPO deprimente per i miei
gusti- io non ci facevo
proprio caso. La ascoltavo solo perché sapevo che fosse
terribilmente triste e
che mi aiutasse a deprimermi più di quanto non lo fossi
già.
Ora
che ci ripenso, in quel
periodo ero parecchio masochista.