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Autore: Francine    27/06/2003    2 recensioni
Che ci faceva lì?
Ma, dov’era
?
Forse al Santuario? Ma da quando in qua ad Atene c’è necessità di coprirsi tanto?, pensò sgranando gli occhi di colpo, E poi quando mai Mask mi ha portata con sé?
Fece per alzarsi di scatto, quando un lancinante dolore al fianco le mozzò il respiro nei polmoni e la costrinse ad accasciarsi sul pavimento, un braccio posato sul letto.
Si toccò istintivamente la parte, notando la punta delle dita sporca di sangue.

Che cosa?, si chiese allibita, mentre la stanza attorno a lei cominciò a girarle vorticosamente intorno e a scurirsi.
Il narciso, bianco nel nero puro della stanza, si allontanava piano piano, svanendo all’orizzonte.
Rimase qualche secondo a fissare l'oscurità; sbatté le palpebre, per sincerarsi di avere gli occhi aperti.
Era nel buio più profondo e silenzioso.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio, Scorpion Milo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Un, deux, trois' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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PIOGGIA

 
E piove sui nostri volti
Silvani,
piove su le nostre mani 
ignude,
su i nostri vestimenti
eggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione. 
(Gabriele D’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1903)



La pioggia cadeva fitta e scrosciante sui vetri dei negozi e sulle finestre delle case.
Il nero pannello del cielo era stracciato ad intervalli regolari dai fulmini, che illuminavano quel triste sabato pomeriggio di fine Settembre.
Per le strade non girava neppure un cane: i soli passanti erano quei poveri diavoli che, sorpresi dal fortunale senza ombrello, ceravano riparo in qualche negozio; i più coraggiosi arrischiavano ad arrivare a casa, correndo sotto balconi e tapparelle lasciate aperte.
Nella gelateria "Trinacria", di proprietà di don Nicolino Galluzzo, non c’era anima viva. I soli esseri umani presenti in quel luogo, abituale ritrovo dei ragazzi del paese, erano il proprietario, don Nicolino, suo figlio Luigino e i tre commessi.
L’unico ragazzo dello staff era un giovanotto un po’ gobbo, alto e magro come un chiodo, gli occhiali perennemente calati sul naso: stava sull’attenti nella sua divisa celeste, con il grembiule bianco ornato da una passamaneria a righine bianche e blu.
Le due ragazze stavano sparecchiando i tavoli e rassettando il locale: non che ce ne fosse un effettivo bisogno, dato che nessuno vi aveva messo piede dalle tre del pomeriggio, allo scoppio del temporale, ma lo facevano per ammazzare il tempo. 
I tavoli, dal piano in colori vivaci, erano stati perfettamente lucidati, mentre le sedie, ricoperte di plastica multicolore, avevano ricevuto una bella spolverata e stavano per essere impilate su di essi. Il cartello appeso alla porta, che recitava come in quell’esercizio si parlassero ben cinque lingue, ondeggiava alle folate di vento, mentre le grosse pale del ventilatore erano state fermate poco prima. La temperatura si era abbassata, e anche di parecchio, fatto piuttosto insolito per quel luogo e per quella stagione.
La radio trasmetteva canzoni allegre, in perfetta opposizione con quel tempo da lupi, che aveva rovinato i programmi di don Nicolino e degli altri commercianti. Il padrone si portò sull’uscio del suo negozio: dall’altra parte della strada vide il droghiere nella medesima posizione e scambiò con lui un paio d’occhiate, più eloquenti di mille parole.

Quindi, scrollate le spalle per l’ennesima volta, si voltò verso i ragazzi e disse loro: «Picciotti, se qua non smette ce ne andiamo tutti a casa!».
La proposta fu accolta con una smorfia da Luigino, mentre i tre ragazzi manifestarono la loro completa approvazione.
«
Giustissimo!», fece Carmela, la commessa à la page, con il vezzo d’indossare vistosi cerchi rosa fluo come orecchini. «Tanto, a restare aperti ci rimette solo di luce, don Nicolino…»
Il ragazzo e l’altra commessa annuirono alle parole di Carmela: il padrone scosse il capo e guadagnò il centro della stanza.

«Picciotti, se continua così, la stagione è bella che finita!», costatò il vecchio negoziante con una punta d’amarezza.

La radio ruppe il silenzio in cui era caduto il negozio regalando ai presenti una canzone quanto mai azzeccata.

L’estate sta finendo,
e un anno se ne va…
Sto diventando grande,
lo sai che non mi va…
In spiaggia gli ombrelloni,
non ce ne sono più…

 

La ragazza correva come una disperata sotto lo scroscio d’acqua imponente che aveva deciso di infierire sulla città. Dal mare le arrivavano gli odori di sabbia bagnata e di vegetazione umida: aromi muschiati le inebriavano le narici mentre costeggiava il parco pubblico.
Aveva un buon odore, la pioggia. Odore marino, carico di sale, che poteva essere percepito anche in bocca, tanto era forte. La rena, bagnata e pesante, trasmetteva l’odore del mare all’interno della città, incuneandolo nel vento, nei vicoli, negli androni dei palazzi, nelle case. L’estate, la calda e assolata estate siciliana era ormai finita; avrebbe continuato a fare caldo, certo, ma ormai il tempo s’avviava inesorabile verso l’autunno.
Non che l’autunno mi dispiaccia, pensava la ragazza scavalcando pozzanghere e riparandosi sotto i balconi dei palazzi.  Ma l’estate che se ne va lascia l’amaro in bocca, di cose non dette, occasioni sprecate… Come se non dovesse tornare mai più! Eppure, tra altri dieci mesi sarà di nuovo il mio compleanno, poi tornerà Agosto, e assieme a lui i bagnanti, e poi di nuovo Settembre…
Mentre cercava riparo sotto un balcone ampio, sentì un rumore soffocato provenire da un cassonetto posto di rimpetto a lei.
«Che cos’è?», si chiese la ragazza dirigendosi verso il rumore. Accatastata ad un lato del cassonetto, c'era una cassetta della frutta, ricoperta alla bell’e meglio con un vecchio pullover rosso: scostò il panno e trovò due micini infreddoliti, che miagolavano a pieni polmoni.
Poverini!!, pensò, provando una fitta al cuore nel vedere come quei due adorabili gattini fossero stati abbandonati: senza pensarci su, li prese e li mise nelle tasche interne dalla sua giacca di jeans. I due micetti protestarono per il trasferimento, ma la ragazza li premette contro il proprio corpo, cercando di rassicurarli. Esaminò la scatola per vedere se i due sopravvissuti avessero altri fratellini a far loro compagnia, ma non trovò nessun altro.
Tese l’orecchio per provare a sentire altri miagolii. Niente.
Si rialzò, chiuse la giacca jeans e corse il più veloce possibile verso casa.


«Sembri la bambina della pubblicità della pasta!», le disse il vecchio Tonio quando vide il prezioso carico che la ragazza aveva salvato dalle acque.
«Che cosa avrei dovuto fare, zio?», protestò lei, «Lasciarli forse in balia dellla pioggia? Sarebbero certamente morti di fame!»concluse passandosi un asciugamano di spugna sui capelli castani.
Zio Tonio prese i gattini e li asciugò, frizionando il loro pelo con un morbido telo da spiaggia cinigliato; si diresse in bagno, prese l’asciugacapelli e lo passò sui gattini.
Intanto la ragazza si era premurata di mettere a bollire un po’ di latte per i due affamati, che reclamavano da mangiare miagolando a pieni polmoni. Scaldò un po’ di latte, sentì l’effettivo calore provandolo sull’avambraccio e lo mise in una ciotolina di vetro, che portò allo zio Tonio.
I gattini, affamati e deboli, si gettarono con tutta la testa nella ciotolina, bevendo voracemente quel latte caldo.
Zio Tonio sorrise.
«Vatti a fare una bella doccia calda, prima di prendere una bella polmonite!», le disse. «Fra un po’ è ora di cena!»
«Ok, vado!», rispose la ragazza, staccandosi a malincuore da quel quadretto tenerissimo.
«
E asciugati bene i capelli!», le ricordò l’uomo, brontolando.
«M
a sì, ma sì…», rispose lei sorridendo, avviandosi verso la porta del bagno.

Il getto della doccia riscaldava il corpo intirizzito della ragazza, mentre il profumo del bagnoschiuma al mughetto aveva riempito la stanza. Amava insaponarsi per bene e fare una montagna di schiuma con il sapone! L’unico suo cruccio era quello di non avere la vasca da bagno, e quindi, di non poter assaporare un rilassante bagno serale, come quando era piccola.
Per il resto, la vita con "zio Tonio" era una pacchia!
Non aveva alcun legame di sangue con lui: era stato l’unico amico del suo maestro, ed il perché era facilmente intuibile! Entrambi schivi e testardi, non amavano la compagnia di altri esseri viventi, uomini o donne che fossero.
Misantropi, pensò, sciacquando la schiuma dal suo corpo.
Eppure, sebbene zio Tonio fosse un tipo all’apparenza burbero, l’aveva aiutata quando era andata a cercarlo. Si era letteralmente materializzata nella casa disabitata del suo maestro, sulla spiaggia a sud di Siracusa, verso Pachino. Non avendo più forze, era caduta svenuta sul polveroso pavimento della casupola: sarebbe sicuramente morta, se zio Tonio, trovandosi a passare da quelle parti, non avesse voluto passare a salutarla, trovandola svenuta a terra.
L’aveva curata, medicata e rifocillata; poi, quando aveva riacquistato forze sufficienti per muoversi, zio Tonio le aveva praticamente ordinato di seguirlo.
«
Non è posto sicuro, questo, per te! Quindi, picciotta, vieni con me senza fare tante storie.»
Non aveva voluto sapere cosa le era successo, o contro chi aveva combattuto: Tonio sapeva che chiunque avesse lottato contro di lei, semmai fosse ancora vivo, sarebbe venuto fin lì a cercarla. Si erano trasferiti da Siracusa a Palermo.
«
Ci si nasconde meglio in una grande città dove nessuno ti conosce, piuttosto che in un buco di paese dove sanno tutto di tutti!», le aveva detto Tonio, prima di partire. «E anche il tuo nome dovrà adeguarsi! D’ora in poi ti chiamerai Rosalia!»
Non fa una grinza, aveva pensato lei decidendosi a seguirlo, timorosa di ricevere visite non propriamente gradite.
La sua paura più grande non era tanto quella di ricevere la visita di un nemico scampato, quanto quella dei compagni che aveva tradito: poco importa che avesse deciso di sacrificare la propria vita per rimediare al suo danno. Aveva tradito e doveva pagare il fio!

Uscì dalla doccia, si avvolse in un telo da bagno blu e tamponò i capelli con un asciugamano di lino. Dalla cucina le arrivava l’odore di una zuppa di pesce cotta con tutti i crismi.
Prese l’asciugacapelli e diresse il getto d’aria calda alla base del collo.


Dopo cena, la ragazza salì al primo piano della casetta dal tetto verde che condivideva con lo zio Tonio.
L’accolse il disordine assoluto che aveva lasciato uscendo. Sul letto trovò i vestiti che aveva smesso tornando da scuola, lo zainetto era accasciato sul tavolino di legno scuro che fungeva da scrivania e l’armadio, lasciato aperto come al solito, era diventato il rifugio dei due gattini, che vi erano sgattaiolati dentro, addormentandosi su un maglioncino giallo sole.
«
E adesso?», pensò la ragazza, terrorizzata al pensiero che i gattini potessero fare i loro bisognini sulla sua biancheria.
Si chinò per spostarli, ma quando vide quei musetti rosa, non ebbe cuore di disturbarli e li lasciò dov’erano.
Speriamo non facciano danni!, pensò accarezzando il pelo rossiccio di uno dei gattini: al contatto con quella morbida pelliccia, e sentendo il ronfare di quelle due creaturine, la ragazza provò un senso di relax e sentì di colpo tutta la stanchezza della settimana.
Dovrò dar loro un nome, pensò, mettendosi a letto.
Fissò il soffitto e le stelline fluorescenti che riproducevano la volta celeste, chiedendosi quale nome sarebbe calzato a pennello ai suoi gattini.
Uno era un micio nero come il carbone, con due occhioni blu mare: era silenzioso, ma veloce e preciso nei movimenti. L’altro, un gattino tigrato color ruggine, aveva gli occhi verdi ed una maestosità nell’incedere che strideva con la goffaggine propria dei cuccioli.
Il pensiero volò a due ragazzi con le stesse caratteristiche dei gattini.
In un primo momento sorrise, chiedendosi che faccia avrebbero fatto due valorosi eroi se avessero saputo che i loro nomi erano stati affibbiati a due gatti! Poi, si chiese perché mai avesse pensato proprio a loro.
Non trovando risposta alla domanda che si era fatta, fu colta dall’ansia: e se, contrariamente alle sue aspettative, la stavano cercando perché erano preoccupati per lei?
Sospirò, stringendo forte il lenzuolo bianco che usava per coprirsi.
Non farti illusioni! Non c’è più nessuno che si preoccupa per te!, si disse, voltandosi sul lato destro ed addormentandosi a poco a poco.


Il giorno successivo, la pioggia aveva lasciato posto ad una splendida giornata di sole.
La ragazza si alzò e si preparò per andare a coprire il turno mattutino in gelateria.
Entrò in bagno, pensando che l’unica noia del turno mattutino era costituita dal doversi alzare presto la domenica mattina; per il resto, era una gran pacchia! Gli unici avventori della domenica mattina acquistavano gelati da asporto, da portare al posto delle classiche paste. Spesso avanzava del gelato, così don Nicolino le permetteva di portarselo via, sotto lo sguardo fulminante di Luigino, che, tirchio com’era, avrebbe preferito farsi cavare un occhio, piuttosto che regalare qualcosa!
Si sciacquò la faccia, si pettinò i capelli in un’alta coda di cavallo e passò un velo di lucidalabbra rosa sulla bocca.
Uscì dal bagno, prese la divisa rosa dall’armadio e si vestì.
I gattini dormivano ancora beatamente: avevano fatto i loro bisogni, ma, non si sa per intervento di chi, avevano deciso di uscire dall’armadio e di farli per terra.
Sollevata dal non dover buttare un maglioncino di cotone nuovo, la ragazza prese l’occorrente per pulire e disinfettò il pavimento.
Guardò il suo orologio in gomma gialla: erano le nove meno un quarto.
«Farò tardi, se non mi spiccio!», disse prendendo la borsa sotto braccio ed uscendo dalla stanza.
Trovò Tonio in cucina.
«
Il tuo caffè…», le disse indicando la tazzina bianca posta sul tavolo.
«
Grazie!», fece lei bevendolo tutto d’un fiato ed uscendo di corsa.
«C
i vediamo a pranzo!», disse facendo capolino dalla porta della cucina. «Spero di portare del gelato!»
«
Vai, o farai tardi!», l’esortò Tonio senza smettere di leggere il giornale.
Fece il percorso correndo a perdifiato, ma ormai era tardi! Don Nicolino le avrebbe fatto una bella ramanzina!
Se solo potessi usare il mio potere!, pensò la ragazza.
Si bloccò di colpo. Se l’avesse fatto, l’avrebbero sicuramente localizzata e allora avrebbe vanificato tutto il tempo passato a contenere il proprio cosmo. Riprese a correre, pregando che quella mattina don Nicolino si alzasse più tardi del solito.

 

Quella mattina don Nicolino era particolarmente di buon umore: sperava, infatti, che il sole attirasse più clienti del solito, dati i magri affari di ieri. Non sgridò la ragazza, quando arrivò con due minuti di ritardo, ma si mise alla cassa in attesa di nuovi clienti. Carmela aveva già lucidato il vetro del banco-frigo e aveva acceso la radio.
«Porta quelle sedie fuori, per favore»,  le disse Carmela non appena questa tornò dal retrobottega. La ragazza ubbidì, prendendo le sedie in plastica colorata e disponendole attorno ai tavolini all’esterno.
Vide il suo riflesso nel vetro della porta d’ingresso.  Sembro una bomboniera! Indossava dei pantaloncini rosa, una casacca rosa ed un grembiule bianco, ornato con una passamaneria a quadretti bianca e rosa.
Rientrò, riattaccando il cartello con su scritto quante lingue si parlassero in quella gelateria e prese il suo posto dietro al bancone dei gelati.

La mattinata volò tra un’ordinazione e l’altra; alle tredici, don Nicolino, visto scemare il nugolo dei fedeli usciti dalla messa, decise che era ora di rincasare.
«Senti, Rosalia, prima di andare prendimi la vaschetta del gelato alla vaniglia!», le disse Carmela, che girò sui tacchi e sparì nel retro bottega. Chissà perché spedisce sempre me a prendere le vaschette di gelato?!, pensò tornando in negozio e fissando la vaschetta al suo posto.
«
Una coppetta piccola…», fece una voce al di là del vetro.
La ragazza alzò lentamente lo sguardo, vedendo prima un paio di pantaloni di pelle nera, poi una camicia di cotone bianca adagiata su un fisico scultoreo, quindi una mano maschile ben curata, con le unghie forse un po’ lunghe, porgerle lo scontrino fiscale.
Questa voce mi è stranamente familiare, pensò la ragazza pochi istanti prima di alzare lo sguardo verso il viso del cliente.

«Kalimera, Françoise…»

Per poco non le venne un infarto!
Milo di Scorpio le stava sorridendo dall’altra parte del vetro.

 

 

   
 
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