Castaway
Capitolo
Primo.
Sono
morta innumerevoli volte.
Venti
circa, o forse è alla ventesima che ho smesso di tenere il
conto.
Ho una
gran buona memoria, ma non perfetta. Molto spesso confondo i ricordi.
Le
epoche, le età, le persone… Si mescolano, come
granelli di sabbia che scivolano
in una clessidra.
I volti
dei miei genitori sono opachi, sbiaditi, lontani. La mia prima casa non
esiste
più.
Ciò che
mi resta è solo la capacità di adattamento.
È necessaria, per continuare.
Così mi
ritrovo per la stessa strada, ad intervalli regolari di 100 o
più anni, con il
vento che mi scompiglia i capelli sulle spalle, una gonna corta ed un
cappotto
pesante slacciato.
Ho
assistito ad uno scontro tra gladiatori; Mi sono inginocchiata ai piedi
di
Filippo II; Ho conosciuto il piccolo Alessandro Magno; ho viaggiato al
fianco
di Cristoforo Colombo; Ho navigato sotto la guida di Bartolomeu il
Portoghese
nel mar dei Caraibi; la regina Maria Antonietta era davvero bella come
dicono;
ed io non ho mai visto nessuna stella cadente illuminarmi il cammino.
Eppure
sono ancora qui, e sarò ancora qui molte altre volte.
Ora vi
chiederete: come è possibile che sia morta innumerevoli
volte?
Ma io vi
risponderò che la morte non è un cuore che smette
di battere, una mente senza
pensieri o sogni, né un corpo accasciato a terra o disteso su un letto.
La morte
è un oscuro oblio di insicurezza e paura. La morte
è solitudine.
E per
quanto la gente non veda altro che una ventenne in me, nei miei occhi
ci sono
tutte le ere di questo mondo.
Mi siedo
in un bar, al tavolino accanto alla finestra. Sorseggio una tazza
enorme di
caffè. Le mani mi tremano per il troppo freddo, ed i capelli
sono umidi per la
pioggia appena presa.
Il
bustino rosato che indosso – ci sono troppo affezionata per
poterlo abbandonare
al primo cambio di moda, anche se è dal 700 su per
giù che lo posseggo – mi
stringe sul seno.
“Cristo
Margaret, che giornata orribile per un incontro!” La voce non
è burbera,
nonostante sia scocciata.
Mr. Smith
– nome d’arte – si siede di fronte a me,
richiamando una cameriera con uno
scatto rapido della mano. Il suo respiro veloce ed il sapore della
menta del
dentifricio per un attimo mi schifano, così non incrocio il
suo sguardo fino a
che non mi sono abituata.
“E’ da un
bel po’ che non passi da queste parti” brontola
amichevolmente, togliendosi il
cappotto.
“Ventitre
anni!” dico piatta, stringendo le labbra tra i denti per un
attimo.
Lui mi
fissa, dubbioso. Non lo vedo, non ancora, ma so già cosa sta
pensando.
“Alcuni
vecchi compagni di classe vivono ancora qui, sì. Tuttavia
non abbastanza vicini
a questo quartiere, né desiderosi di passarci per un
caffè alle 6 di domenica
mattina, con la pioggia!” Preciso, portando finalmente gli
occhi su di lui.
Mi
sorride tranquillo, come sempre. Ha questa dote, lui. Non riesco mai a
comprenderlo del tutto.
“Una
città tranquilla, ma ancora mi sfugge questo tuo
attaccamento ad un posto come
questo”.
“Non è
per la città che torno”.
Lui non
cambia espressione, ma incrocia le braccia sul tavolo.
“E
dunque, cosa posso fare per te?” Chiede cortese, nascondendo
molto bene
l’occhiata che ha lanciato verso un signore seduto poco
distante.
“Tiene a
freno le tue pistole, è solo un vecchio
sordo…” Sussurro.
“In ogni
caso, mi serve solo un documento, niente di che”. Attendo in
silenzio che lui
estragga dalla tasca il taccuino blu solito e che afferri la penna.
“Patente,
carta d’identità…?” elenca.
“Credo
che la carta d’identità andrà
bene”
“Nome?”
“Posso
tenere il mio”
“E’
rischioso… sei già stata qui pochi anni fa.
Qualcuno potrebbe riconoscerti, se
non dal viso dal nome appunto”.
“Allora
inventane uno tu, è indifferente”.
Annuisce
mesto, scarabocchiando qualcosa.
“Devo
inventarmi anche compleanno, città di provenienza ed il
resto?”
“No, il
compleanno lascia il mio… cambia l’anno,
ovvio”.
Annuisce
di nuovo.
Poi alza
gli occhi neri su di me.
“Tutto
qui? Mi hai fatto alzare alle 5 per una carta
d’identità?”
“No, ti
ho fatto alzare alle 5 perché è un orario
tranquillo”
Non
risponde, ma si infila di nuovo il cappotto pesante, e stringe appena
la
cravatta.
“Domani
sarà pronto”. Celere, come sempre.
“Abiti
ancora in quell’appartamento?”
“Ti
aspetto per le due di pomeriggio”
“E’ un
orario rischioso…”
“Attenta
allora”.
Improvvisamente
mi sembra indispettito, eppure lancia sul tavolo soldi sufficienti
anche per il
mio caffè.
Sento le
sue pistole tintinnare lievemente contro il suo petto, nascoste sotto
gli
indumenti.
“Ciao bimba”.
E si allontana, silenzioso come è molto bravo ad essere.
Mr. Smith
non è un brav’uomo, ma è ottimo nel suo
lavoro.
Per
questo probabilmente il suo appartamento è assai diverso
dalle topaie dei suoi
“colleghi”.
Uomini di
guardia, prostitute sorvegliate e pulite, locali all’ultima
moda. Ovviamente,
tutto abbastanza triste se non lo si frequenta di notte.
Mi accoglie
in terrazza, sempre col cappotto nero e il completo della stessa tinta.
Gli
occhiali scuri per ripararsi da un sole così pallido da non
meritare tale
titolo.
“Bimba,
sei in perfetto orario”. Con un gesto
della mano manda via una giovane donna e due uomini armati.
L’odore
della polvere da sparo mi nausea, ma non cambio espressione.
Mi invita
a sedermi e mi porge un pacchetto marrone di piccole dimensioni.
E io
ricambio con un plico di banconote nuove.
“C’è
anche la patente, io non ti avevo chiesto…”
“Non te
la farò pagare, Margaret! È un regalo di
bentornato, sperando tu possa fermarti
da me e non tornare a dormire in quella stanza presa in affitto anche
dai
cani”. Spiega allegro.
“Oh non
fare quella faccia. So benissimo che sai che ti ho fatto
seguire”.
Già, lo
sapevo.
“Allora,
resti a far compagnia ad un vecchio amico?”
“Non mi
pare tu abbia bisogno di compagnia”
“Che frase fatta…” Ma non aggiunge
altro, attendendo che un’altra giovanetta in
biancheria intima porti un vassoio di tè caldo.
“Fai un
bagno caldo, mangia qualcosa, cambiati… poi ne riparliamo
con calma” si
affaccia al bordo della terrazza, fissando con orgoglio il paesaggio
sotto di
lui.
Non mi
sembra ci sia molto di cui riparlare,
ma
un bagno caldo e un pasto gratis fanno sempre comodo. Così
seguo la ragazza
come se non conoscessi la strada per il bagno, e resto zitta.
Quando
cammino sola per la strada mi sento parte di qualcosa.
Dell’universo
probabilmente.
Seguo il
flusso di persone e dei loro pensieri, mi ci lascio andare dentro.
Qualcuno
soffre per un amore, qualcuno per un’amicizia, qualcun altro
per una scomparsa.
C’è anche chi crede di essere felice ogni tanto.
È raro, ma capita.
È la mela
marcia del sistema.
Non ho
mai avuto legami duraturi. I sentimenti rimangono per il tempo di una
vita, poi
sfioriscono lentamente.
Chi ha
conosciuto il mio segreto o è scappato o ha finto di non
capirlo.
Mr. Smith
però è sempre rimasto. Mi dispiacerà,
il giorno in cui anche il suo corpo cadrà
per mano del destino.
Terrò
d’occhio la sua tomba, per portargli fiori freschi. In fondo,
lui è sempre
stato gentile con me.
E forse,
tornerò per partecipare al suo funerale. Un omaggio che
concedo a tutti a dire
il vero. Ci sono periodi della mia vita in cui, per alcuni mesi, non
faccio
altro che presiedere ai funerali.
È una
buona cosa, che muoiano tutti insieme. Mi risparmiano viaggi di andata
e
ritorno inutili e il dolore lo si percepisce una volta sola,
semplicemente.
È
veramente una cosa buona.
Stringo
il piccolo coltello sulla coscia, agganciato in maniera sicura. Sul
fianco
sistemo la mia solita pistola bianca.
Raccolgo
i capelli con una coda, scostando la lunga frangia
all’indietro. Sanno di
pesca, il bagnoschiuma. Per qualche attimo
l’intensità del profumo mi impedisce
di sentirne altri.
La
giovane ragazza mi chiede se rivoglio i miei vecchi abiti o preferisco
qualcosa
di più “fresco” – sinonimo
nella loro lingua di “pulito” – .
Mi lascio
convincere solo per gli stivali, i miei sono logori.
Ma la
gonna corta nera, il mio vecchio corsetto rosa, ed il cappotto non
posso
lasciarli andare.
Mr. Smith
mi aspetta con il solito sorriso e gli occhiali scuri, le gambe
accavallate e
le braccia aperte.
“Grazie”
Sento di doverlo dire.
Lui alza
le spalle e io mi siedo su una poltrona fin troppo grande.
“Lo sai
vero che questo non mi convincerà a trasferirmi da
te?”
“Lo
sospettavo, ma ci conosciamo da parecchio e volevo solo essere
gentile”.
Sorrido
anch’io.
“Ti
conosco da quando era un marmocchio con la fissa del mafioso”.
“Bei
tempi, quelli. Bei tempi…”
“Tornano.
Prima o poi si ritorna all’inizio, sempre”.
“Peccato
che io non li rivedrò”.
“Per gli
uomini ci sono le stagioni giuste. Tu eri destinato a fiorire in
questa, non
rimpiangere quelle passate, non serve a nulla”.
Alza di
nuovo le spalle, insoddisfatto.
“Resti
per cena?” mi chiede sereno, sfoggiando la solita
strafottenza di chi non vuole
un rifiuto.
“Mr.
Smith, ho vissuto molto più a lungo di quello che
appare… cosa vuoi sapere?”
Non dubito della sua buona fede, tuttavia lo conosco abbastanza per
capire che
vuole qualcosa da me.
Tace
qualche tempo, portandosi alle labbra una sigaretta e aspirando diverse
volte.
“Ogni
tanto ti invidio. Tutti ti invidiano in effetti, anche se hanno paura.
L’immortalità…”
Aspira di
nuovo.
“Non farò
moralismi, né discorsi intrisi di depressione”
chiarisce.
“Stai
morendo!” Le parole mi escono rapide, accompagnate da un
pensiero ovvio che
tengo per me.
Tutti gli
uomini dicono le stesse
cose arrivati a questo punto.
Lui
sorride ancora, tranquillo.
“Il mio
dottore non si pronuncia nemmeno più…”
ammette.
“Così
quando ho avuto la tua chiamata, ho pensato che avrei potuto chiederti
il
segreto, il come. Ho pensato che fosse un segno ecco. Ma poi, ieri in
quel bar,
non ce l’ho fatta. Il fatto è che non mi
interessa”.
Lo
guardo mentre si
toglie gli occhiali e i
sui occhi neri fissano sereni la sigaretta tra le dita.
Ecco il
suo lato insolito. Anche ora, a due passi dal sonno perenne, non riesco
a
capirlo. Mi è sembrato scontato, qualche secondo fa. Ma ora
non lo è più.
Ecco Mr.
Smith, l’enigma.
“Però c’è
una cosa che fremo dalla voglia di chiederti, Maggie. A prescindere
dalla
situazione attuale…”
Mi
guarda, pronunciando quel soprannome con affetto. Un affetto che non
ricordo
nemmeno che senso abbia.
“Perché
questa città, quello stupido buco per cani?
Perché sei così ossessionata da
questo luogo?!”
E
attende.
“Perché
pensi che te lo dirò?”
“Perché
sono un povero moribondo…” annuisce convinto,
scoccando una rapida occhiata
senza fini verso la mia pistola.
“Questo
genere di cosa non mi interessano” Mento spudoratamente, o
forse nemmeno
troppo.
“Maggie…”
mi chiama, con voce così bassa da farmi venire un brivido.
“Ci sono
cresciuta, in quella casa per cani”. Sputo con naturalezza,
sfiorando con le
punta delle dita la mia arma sul fianco.
C’è un
momento della giornata in cui tutto è sempre uguale, non
importa l’anno, non
importa il giorno.
Quel
momento cambia sempre orario. Ogni tanto è la sera, altre
volte i minuti appena
dopo mezzogiorno.
Non
saprei dire con precisione quale sia, ma c’è. Lo
percepisco.
C’è il
solito uguale profumo, lo stesso identico tempore anche se fa freddo, e
le
stesse chiassose espressioni dei passanti.
Così,
quando passavo per queste strade tempi addietro, mi piaceva fermarmi ad
aspettare che la sensazione passasse.
Nessuno se
ne accorgeva. Nessuno realmente nota una persona in una strada
affollata, a
meno che non la stia tenendo d’occhio da prima.
I miei
piedi si immobilizzavano, e le mie mani salivano sul mio volto per
togliermi i
capelli da davanti e permettermi di gustare quella sensazione della
durata di
un battito di ciglia.
Poi
finiva, se ne andava. E ricominciavo a camminare.
In cuor
mio, mi piaceva l’idea dell’inaspettato.
Quando
vivi per così tanto tempo, c’è ben poco
che ti stupisce.
Fu in uno
di quei momenti che incontrai Madame Brunette.
Era una
vecchia singolare.
Portava
un vecchio scialle viola di lana grezza, che si sarebbe portata fin
nella
tomba; un’acconciatura d’altri tempi con una
parrucca grigia; vestiti neri
comprati in negozi di terza categoria per pochi penny e
l’odore acre
dell’alcool, anche se lei – come ebbi modo di
conoscere – non beveva affatto.
Madame
Brunette mi aveva squadrata per bene ed infine, arrivandomi vicina con
il suo
bastone di legno massiccio, mi aveva semplicemente chiesto quanti anni
avessi.
In un
secondo rammentai le parole di una donna. Mi aveva chiamato
“lurida sedicenne”,
così quella fu l’età che mi attribuii.
“Sei
vergine?”
Chiese
infine.
“No”
Lei
grugnì piegando le labbra nel dubbio, ma poi si arrese.
“Tanto
meglio… Vuoi due pasti caldi e un tetto sicuro?”
E io,
seppur non avessi
bisogno di tutta
quella cura per me, acconsentii. Ero curiosa, molto curiosa di sapere
se quella
donna potesse offrirmi qualcosa al di fuori di cibo e un letto.
Scoprii
in seguito che non aveva creduto nemmeno per un minuto che quella fosse
la mia
vera età.
Così come
realizzai poi che io avevo, per lei, l’aria di una povera
anima abbandonata da
Dio.
Fu
quello, per quanto insolito per una donna della sua tempra, ad
impietosirla.
Quando
varcai la soglia del “Castaway” intorno a me vi era
un silenzio spaventoso.
“Le mie
ragazze dormono. Fai piano!” mi ammonì lei,
indicandomi una sedia ed una
poltroncina logora di fronte ad un camino acceso, in una stanza
adiacente.
Ovviamente
a me spettava la prima.
Quel posto
puzzava di urina e sperma, ma stranamente il mio olfatto lo
percepì con alcuni
minuti di ritardo.
Fu il
rosso delle pareti, della moquette e delle tende a stordirmi. Un rosso
così
forte e macabro. Nemmeno il sangue ha quella colorazione sconvolgente.
Sembravo
calata in uno strano incubo, quello che cercavo
disperatamente di lasciare dietro di
me ogni qual volta camminavo per la strada senza voltarmi indietro.
Al tempo
vivevo a caso, senza interessarmi ad affittare un appartamento od una
stanza,
nonostante avessi le possibilità per farlo.
I miei
capelli lunghi lentamente erano diventati neri come il terriccio
bagnato dei
bordi strada. Le mie dita tagliuzzate e dure; le mie labbra piegate
all’ingiù e
livide.
Quando
Madame Brunette mi ripulì, lo specchio mi offrì
una visione così diversa di me
da spaventarmi.
Fu lei a
darmi questo nome, Margaret Polchet. Così mi chiamavano.
Avrebbe
dovuto suonare alla francese, ma con scarsi risultati.
In ogni
caso, su quella vecchia sedia lei mi spiegò le prime regole
base:
“Niente concorrenza. Disponibilità solo
finché si sta qui dentro, intesi?
Nessuno ti porterà fuori di qui, non senza il mio consenso
per lo meno. I tuoi
guadagni serali verranno dati per l’80 per certo a me. Io
provvederò al tuo
cibo e al tuo letto. Persino i cosmetici di cui avrai bisogno me li
accollerò
io. Per il restante 20 vedi di farci quel che ti pare!”.
Aveva tossito forte,
allungando le mani verso il fuoco e lasciando ricadere lo scialle sullo
schienale della sua poltrona.
“Nessuna
romanticheria o preferenza. Chi toccherà a te
dovrà uscire soddisfatto da qui,
anche se è un vecchio o un barbone. Ah e a
proposito… prima ti mostreranno i
soldi, poi potranno permettersi di scegliere. Ovviamente ci sono molti
illustri
gentiluomini assai noti qui, ma c’è tempo, avrai
modo di conoscerli”. Mi fissò
dubbiosa, senza l’ombra di imbarazzo.
“Hai
capito cosa dovrai fare, vero?” chiese infine, poggiando i
gomiti sui braccioli
ed alzando il mento in attesa.
“Un
bordello…” mi uscì lentamente, mentre i
miei occhi cadevano incuranti sugli
oggetti attorno.
“No no mia
cara. Questo è Castaway! Il
Bordello”.
Note:
Dunque...
poche righe per ringraziare di cuore NonnaPapera sia per
il contest splendido che ha indetto, sia per avermi piazzato in seconda
posizione! Ne sono onorata.
Complimenti a tutte le
altre partecipanti ovviamente e un grazie anche in anticipo a chi
vorrà leggere e commentare!
La storia è
di tre capitoli, spero abbiate la pazienza di seguirli tutti...
Il giudizio lo posterò nel finale.
Baci, Meli_mao!