Storie originali > Fantasy
Ricorda la storia  |      
Autore: Harriet    26/11/2010    3 recensioni
Tutta la gente bella pensa di conoscere l'eroe della città, ma in realtà solo un mezzo nomade dimenticato da tutti può dire di sapere davvero chi fosse.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

(Scritta nel settembre 2010, e non è una nozione inutile, perché di sicuro certe notizie di questa estate c'entrano qualcosa, in questa storia. Seconda classificata a un contest che proponeva temi a estrazione. Questa storia si ispira all'immagine di due amanti abbracciati in un campo e a una citazione da "La guerra di Piero" di Fabrizio De Andrè: "Dormi sepolto in un campo di grano / Non è la rosa, non è il tulipano / Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi / Ma solo mille papaveri rossi." Ho cercato di interpretare in modo meno "classico" possibile entrambi i temi.)




Libero di partire


Tutti pensano che il nome del quartiere di Kedwan significhi qualcosa nella lingua comune, qualcosa di molto bello o molto ovvio, come il nome di una collina esistita qualche migliaio di anni prima, o il cognome di una famiglia nobiliare estinta da secoli. Del resto è così in quasi tutta Tower City, che è una meravigliosa coperta fatta di toppe e stracci cuciti insieme a forza nel corso del tempo, ciascuno con il suo nome solitamente molto antico e poco comprensibile.
Ci vuole un niva, per sapere che Kedwan in realtà una volta era Kzeva-an, un posto dove si coltiva il grano, nella lingua dei nomadi Niva dell'Est. E questa è la miglior dimostrazione esistente del fatto che loro abitavano nel luogo dove cui ora sorge Tower City da tanto tempo, così tanto tempo da appiccicare senza scampo un nome a un frammento di terra. Non importa che il nome sia stato preso e trasformato al punto di confonderlo con i suoni della lingua comune. Un nomade niva lo sa, lo sente ed è consapevole di essere a casa sua, sua di diritto, nonostante quello che dicono tutti gli altri.
L'uomo affacciato alla balaustra della via sopraelevata di Ferian, con lo sguardo rivolto in basso, sulla porta d'accesso al quartiere di Kedwan, un tempo avrebbe potuto scegliere se essere un nomade o un "tutti gli altri". Ha deciso che era un niva, e quindi indossa un'ampia camicia bianca, con gli orli non cuciti e una decorazione di filo argentato inutile e splendida attorno ai bottoni, pantaloni scuri con molte tasche, e una quantità di bracciali e cavigliere. E' scalzo. Alle orecchie porta due gocce di vetro celeste. I capelli neri sono lunghi quasi fino alle spalle, e un ciuffo imbrigliato da un nastro blu gli scende fino a metà schiena. L'uomo è piuttosto alto, ha poca carne sulle ossa ma ha la muscolatura di una persona abituata a muoversi, correre, lavorare. Dicevamo che l'uomo avrebbe potuto scegliere di non restare tra i nomadi: lo testimoniano la sua pelle, troppo scura per un nativo di Tower City, troppo chiara per un niva, e gli occhi grandi e blu che guardano spaesati il viavai mattutino di Kedwan. Non è bello ma possiede qualcosa di indefinito che lo rende interessante allo sguardo altrui; forse è una sorta di fascino dello straniero mista al sollievo della familiarità che spesso si trova nei mezzosangue.
Gli occhi blu scrutano la vita di coloro che possono proclamarsi con orgoglio veri figli di Tower City. E pensa, da qualche parte nelle retrovie della sua anima, che lui in realtà conosce la città come nessun altro. Meglio di tutte quelle sagome che passano sotto di lui, a piedi, sulle biciclette, sui piccoli mezzi volanti che sfrecciano ai lati della strada. Meglio dell'uomo vestito di verde col cilindro grigio in testa e una valigia con sopra inciso il simbolo dei Chimici Reali. Meglio della donna in rosa, seguita da una ragazzina che le arranca dietro reggendole un ombrellino di trina bianca sulla testa, anche se il sole non si è ancora presentato. Meglio del vetturino appollaiato sul sellino della sua bicicletta, che invita una signora anziana a salire sulla portantina attaccata alla bici, facendo grandi gesti, come per prometterle che la porterà ovunque, perché la città è il suo dominio. Dall'alto, il mezzo nomade li guarda tutti e sa che nessuno conosce Tower City come lui.

L'uomo non è vecchio, però potrebbe raccontarvi un bel po' di cose. Si è sempre sentito così, gravato dal peso di troppi eventi, voci, immagini, fin da piccolo. Ma non si è mai sentito prematuramente vecchio, quello no, e in fondo pensa che non si sentirà vecchio nemmeno quando avrà i capelli grigi. Sempre che ci arrivi.
Quando era piccolo viveva vicino al Ponte di Weyn, in una piccola comunità di niva pacifica come le acque del torrentello che scorreva sotto il ponte. Nessuno dei due, la gente e il fiume, creava alcun problema. Però il torrente era stato bonificato e i niva cacciati. No, non cacciati: dichiarati liberi di partire. Splendida menzogna per dire che Tower City voleva liberarsi di qualche migliaio di nomadi. Una notte, circa un mese dopo il proclama di quel provvedimento, i grandi portali di Orian erano stati aperti, e i nomadi erano stati spinti su quattro navi, troppo piccole per tutta quella gente, perché il Fiume li accompagnasse lontano, fuori dalla città, fuori dalla preoccupazione della Regina e del suo parlamento.
Lui c'era. Aveva sette anni. Nel caos della folla, tra le grida della guardia cittadina che incalzava ad andare avanti, andare avanti, sua madre - che non era una niva - si era lasciata sfuggire la piccola mano dalle sue. Nel processo di uscita dalla città morirono più di ottanta persone, e in seguito lui seppe che anche i suoi genitori erano tra quelli. Di quella notte potrebbe raccontarvi una manciata di immagini, ma basterebbe per farvi capire tutto.
Libero di partire, dunque, alla fine era rimasto. Una coppia di nomadi l'aveva preso con sé. Erano buoni, e completamente pazzi. Erano artisti. Dipingevano sulle strade e sui muri. Gli avevano insegnato qualcosa, anche se la sua mano poco ferma era proprio l'opposto del talento. Erano vissuti a Narmere, un altro quartiere abitato principalmente da nomadi - ed era stato allora che lui aveva cominciato a chiedersi come mai tutti ancora li identificassero come nomadi. I niva, per esempio, non si muovevano più da moltissimo tempo. Amavano troppo Tower City per andarsene. Erano creature libere, ma a volte l'amore imprigiona dolcemente anche la più selvaggia delle libertà.

Da Weyn a Narmere: estremo Ovest, estremo Est della città. La conosce meglio di tutti, lui, Tower City. E conosce anche il Sud, certo. Perché a Sud c'è Glessen, un ghetto dove vengono scaricati i criminali che non entrano nelle prigioni, cacciati nelle fabbriche di quel posto senza sorveglianza e senza freno. Una meta paradisiaca per chi ha qualcosa da nascondere. Quando il governo decise che i nomadi dovevano lasciare Narmere e trasferirsi a Glessen, lui aveva quattordici anni. Lì nel giro di poco perse il resto delle persone di cui gli interessava.

Del Nord può vantare la conoscenza di una prigione. Ci sono sette prigioni, a Tower City. Neanche una in cui finiscano le persone giuste. E' quello che pensa lui, che ha scontato un anno di prigione per aver cercato di derubare una signora. In realtà il suo era solo un diversivo per permettere a un amico nei guai di sparire. Ha sempre avuto questo strano senso del sacrificio di sé: pensa davvero che sia meglio che le cose cadano addosso a lui, perché tanto lui ha le spalle abbastanza resistenti per reggere tutti i pesi del mondo.

Aveva diciassette anni, quando uscì dalla prigione e trovò fuori un uomo dall'aria forestiera e interessante, che prometteva grandi ricompense a chi fosse divenuto suo assistente. Se un uomo come quello cerca aiutanti fuori da un carcere, nasconde qualcosa. Ma lui non aveva di meglio da fare, e aveva accettato. Così era arrivato al centro di Tower City, a Raina, un quartiere popolare, vicinissimo al baratro della Curva, un buco oscuro ignorato da tutti e popolato da ciò che non è voluto altrove. E senza neppure sapere come, si era ritrovato a essere l'assistente di un alchimista folle.
Se sollevasse le maniche della camicia, vedreste macchie chiare e segni come di bruciature sulla pelle. E' il risultato di sette anni in mezzo ai composti alchemici, alle fiamme magiche e alle sostanze chimiche. Se si togliesse la camicia probabilmente riconoscereste anche altri segni, addosso a quella creatura con la capacità straordinaria di sopravvivere ovunque. Di sicuro individuereste le tracce del fuoco che distrusse la casa dell'alchimista.
Il fuoco l'aveva acceso lui. L'aveva evocato lui. Qualcosa si impara, a guardare un alchimista. L'alchimista, invece, era già morto, per colpa della sua follia. Lui non ha mai ucciso nessuno e probabilmente mai lo farà. La vita gli ha riservato molti guai, ma gli ha usato la misericordia di non doverlo mettere in condizione di strappare una vita. Ne morirebbe lui stesso. Non è un'anima violenta. Ha più innocenza di quel che lui stesso crede. Ha il candore misterioso che alcuni riescono a conservare attraverso tutte le cose. Ha una specie di speranza capricciosa che si porta sempre dietro, come una compagna di viaggio che punzecchia e deride, ma alla fine conforta, quando le notti si fanno più fredde.

Est, Ovest, Sud, Nord e poi il cuore pulsante della città. Lui c'è stato. La conosce benissimo. E' rimasto a Raina, dopo il fuoco dell'alchimista. Una sera, vagabondando, è entrato nella bottega di un artigiano, un fabbricante di cose inutili, ma bellissime. Gli ha detto che c'era stato tanti anni fa, quando era bambino, con sua madre. L'uomo ha risposto che se lo ricordava. Perché la donna era bianca e bionda e con gli occhi blu, ma il bambino era chiaramente mezzo nomade, e quella sì, che era una cosa strana.
E lui aveva pianto un po', allora. Non si è mai vergognato di piangere davanti a tutti. Ha sempre avuto cose più importanti di cui preoccuparsi che delle sue lacrime.
Vuoi restare?
Perché un fabbricante di cose belle avrebbe dovuto offrirgli di restare?
Non l'ha mai capito. Ma è rimasto. E' ancora lì. Lavora molto, dorme poche ore e si alza all'alba, per girare la città prima che il lavoro ricominci. L'uomo lo sa, ma non gli domanda mai dove vada. Fa parte del suo mondo segreto.

E' febbraio e l'inverno è ancora nel pieno delle sue forze. Quando saranno passate circa quattro stagioni, al prossimo solstizio invernale, compirà ventotto anni. Non è vecchio. Non si sente vecchio. Non dimentica niente, ma pensa ancora che ci siano cose da vedere, da scoprire, cose buone da afferrare. E' ancora libero di partire, ma non lo farebbe mai: ama Tower City, perché è anche sua, è soprattutto sua, e quel senso di possesso è una delle cose che lo fanno sentire importante nel mondo.
Kedwan va riempiendosi di vita sempre più veloce e colorata con ogni minuto che passa. Il sole finge di volersi mostrare e poi si rintana oltre il grigio del cielo. L'Orologio della Luna, da qualche parte alle sue spalle, batte otto colpi. Lui pensa che quel posto fitto di case belle e di gente bella un tempo era un campo di grano, e si sente fiero perché è l'unico a conoscere quella verità. E si immagina quelle belle persone che corrono corrono tra le spighe gialle. Perché lui sa com'è fatta, una spiga di grano. Quelle belle persone probabilmente lo ignorano: mangiano il pane e non sanno da dove viene. Tower City è così grande che si può benissimo trascorrevi un'intera esistenza, senza mai uscire e scoprire il mondo là fuori, le colonie cittadine, i campi, le foreste.
Nemmeno lui è mai uscito, però ha letto tanti libri. Conosce persone che coltivano piante in soffitta e in cantina. Ha visto un germoglio di grano. Se potesse, crescerebbe qualche piantina anche lui. Gli piacciono come poche altre cose al mondo.
Continua a guardare Kedwan: vede il quartiere oltre l'enorme porta che gli fa da ingresso, e scorge anche le mura bianche del Weyragh, il Palazzo Memoriale.
Weyragh è un'altra parola nomade, pensa, con un sorriso fiero.
Wekraj, un fosso o un pozzo. Normale che ce ne fosse uno, in un posto dedicato alla coltivazione del grano.
Il Palazzo Memoriale è una strana costruzione a forma di fiore, che abbraccia una piccola piazza, con al centro una fontana. Emette acqua che un gioco di elementi chimici colora di tinture diverse, facendola passare attraverso le centoventi finestrelle dei tre pinnacoli che la compongono. La fontana è la tomba di un Eroe, un Grande Uomo, un Esempio per la comunità.
E a quel punto lui ride, e un'ombra di disprezzo macchia l'espressione seria e dolce del suo viso.
Marnard Grayth. Un generale della Regina. Uno degli uomini che ha dedicato la propria vita alla città. Tower City ama molto rendere omaggio ai suoi eroi, solo che sceglie sempre quelli che mettono d'accordo tutti. Quelli così lontani dalla gente che non si può obiettare loro niente, perché non li si conosce davvero, e si prende per buono ciò che ci viene raccontato.
Però lui lo aveva conosciuto davvero, Marnard Grayth. Di persona. E sapeva per certo che il Palazzo Memoriale e la fontana gli avrebbero fatto schifo.
Abbandona la sua postazione di osservatore, lasciandosi alle spalle la balaustra e andando in cerca della scalinata di cristallo che lo condurrà giù, a Kedwan. Ha qualcosa di importante da fare.
Proprio oggi. Un anno dopo la costruzione del Palazzo e della fontana. L'anniversario della morte di Marnard Grayth, avvenuta cinque anni prima.
In fondo alla scalinata si ferma a osservare le porte del Palazzo Memoriale: le intravede già, oltre l'ingresso di Kedwan, e vede le file di gente che vi entrano. Tutti a commemorare l'eroe.
Anche lui, in fondo, va a commemorare l'eroe.
Via via che si avvicina può udire il suono potente di un inno solenne, suonato da un'orchestra di fiati, nella piazza del Palazzo Memoriale. La musica è dolce all'inizio, poi diventa dolciastra e infine stucchevole, inascoltabile, come un discorso pomposo che non finisce mai e ti fa odiare ciò per cui prima nutrivi ammirazione. Quella musica è proprio il contrario di Marnard Grayth.

Una cosa che nessuno sa di Marnard Grayth era che amava molto girare i quartieri meno sfarzosi della città, vestito da persona comune. Negli anni sereni di Narmere, quando lui viveva con la sua famiglia adottiva di pittori pazzi, Marnard Grayth si era fatto vedere da quelle parti e aveva pagato perché gli dipingessero le scene di un poema epico sulle mura di una casa abbandonata. Lui aveva dodici anni e aveva aiutato sua madre a mischiare i colori. Marnard Grayth gli aveva raccontato la storia del poema, con calma, non come se fosse stato un obbligo o una cortesia, ma col tono di chi ci tiene davvero a farti partecipe di una cosa che ama.
L'aveva rivisto quando era in prigione. Marnard Grayth passava dalle celle, per interrogare un prigioniero, e l'aveva riconosciuto. Si era fermato, aveva voluto sapere cos'era successo. Le guardie avevano risposto che era tutto come sempre, solo un nomade ladro, niente di strano, niente a cui dare troppa importanza. Ma il generale aveva risposto che ogni persona ha importanza. Quando il prigioniero era stato rilasciato, una delle guardie si era lasciata scappare che qualcuno dall'alto aveva messo una buona parola per quel banale ladruncolo, chissà perché.
Perché una decina di anni fa ho fatto un bell'azzurro per dipingere la veste di Dama Laylar.
Aveva incrociato di nuovo la strada di Marnard nei suoi giorni con l'alchimista. Era stato il generale a trovare lui, che dormiva fuori al freddo perché era terrorizzato da uno degli eccessi di rabbia e violenza dell'alchimista. Marnard gli si era seduto accanto e l'aveva fatto parlare, e lui aveva finito per raccontargli tutta la sua storia.
Mi ricorderò sempre di quella sera, a Narmere, aveva detto Marnard, alla fine del racconto. Eravate felici, voi. Rendevate felice anche me. E il disegno sul muro era meraviglioso. Il Cavaliere dell'Erica e Dama Laylar finalmente riuniti nel Campo Alla Fine Della Terra. La mia storia preferita. Le storie mi hanno mantenuto umano a corte, sai?
E lui aveva annuito con un sorriso, perché lo sapeva, sì: le storie mantengono umani, a volte.
Mi sono rimasti pochi amici, ormai. E ti considero uno di questi. Eppure non so neanche il tuo nome. Non lo ricordo, purtroppo. Se vorrai ridirmelo, cercherò di conservarlo fino alla fine, questa volta.
E lui aveva capito che Marnard Grayth era alla fine.
Mi chiamo Yevet, aveva risposto.
Yevet, eh? Va bene. Yevet. Se potessi esprimere un desiderio, vorrei rivedere quel disegno. O che qualcuno lo disegnasse sulla mia tomba. Quella sì, che sarebbe una splendida lapide. Per tutta la vita mi sono sentito come il Cavaliere dell'Erica. Mantenere viva l'anima di Tower City è come una guerra, una guerra terribile. Anche la mia, di anima, è sempre stata in gioco. Ma ora le battaglie sono concluse e la mia Dama mi aspetta dall'altra parte. Mi auguro che niente di tutto quel che ho fatto sia stato inutile.
A quel punto aveva posato il suo mantello sulle spalle di Yevet, scosse da brividi di freddo e da quel che rimaneva del pianto.
Niente è inutile, aveva risposto Yevet, senza sapere bene cosa stesse dicendo.
Grazie, ragazzo. Grazie di tutto.
Grazie di cosa?

Marnard Grayth si era alzato, aveva sorriso ed era andato via. Non si erano visti mai più.

E Yevet era rimasto con un desiderio tra le mani. Per il suo popolo, dimenticare il desiderio di un morente era un peccato indicibile. Ma finalmente sa come ottemperare al suo dovere, finalmente può far tacere la sua coscienza e la voce del fantasma di Marnard Grayth, nella sua mente. E' il momento, è il giorno, sa cosa fare.
Passa la porta del luogo del grano, passò la soglia del Palazzo Memoriale, l'antico pozzo. Si ritrova tra le persone belle di Tower City, assemblate intorno alla fontana, mentre un'orchestra ridondante sputa fuori dai suoi ottoni una cascata di note che non sono Marnard Grayth proprio per niente.
E nel momento in cui c'è silenzio, perché un funzionario reale affacciato a una delle finestre interne del Palazzo comincia il suo discorso commemorativo, allora Yevet si china a terra, ignorato da tutti, e comincia a cantare una canzone che è davvero Marnard Grayth, e con un gessetto azzurro disegna per terra quell'immagine di tanti anni fa: nella distesa brulla di un campo, il cavaliere che stringe la sua dama, baciandola sulla bocca e sollevandola da terra, nella danza delle dei nastri della veste di lei. Il gesso è trattato con un composto alchemico: non svanirà, rimarrà fino alla fine dei tempi, e la cosa lo rende particolarmente soddisfatto di sé.
Disegna e canta per tutto il tempo del discorso, e poi di altri discorsi, applausi, grida e frasi gonfie di parole e grondanti di retorica senza senso, mentre il gessetto si consuma tra le sue mani e il disegno si completa, meravigliosa magia azzurra sul bianco sterile del pavimento.
Quando l'orchestra riprende a suonare, Yevet smette di cantare e si alza in piedi. Ha finito. A terra c'è il suo regalo per Marnard Grayth, che dorme sotto la fontana. Tutt'intorno, nell'aria, c'è ancora la sua canzone, un inno all'anima segreta dell'eroe di Tower City.
Ed è felice, sa di aver esaudito il desiderio che gli era stato affidato, sa di aver reso molti favori a un amico, e potrebbe anche morire in quel momento, perché la felicità è rara, e berne una sorsata inebriante come quella è un dono da non disprezzare.
La folla comincia a muoversi e disperdersi, lui si lascia trasportare. Ora che ha finito lo coglie un brivido di timore e vuole sbrigarsi a lasciare le persone belle a cui non appartiene.
Un grido, appena udibile nel clamore della folla, tra gli acuti dell'orchestra. Qualcuno ha visto il disegno. Qualcuno ha visto il nomade. Due cose fuori posto devono essere per forza collegate Avrebbero fatto quell'equazione comunque, ma questa volta ci hanno indovinato. Il mare gli si chiude davanti e non c'è via d'uscita. Gli domandano chi sia e cosa abbia fatto, qualcuno strilla che è magia, che è una maledizione degli zingari.
Mani che afferrano le sue braccia, bloccano le sue spalle. Il Palazzo Memoriale è un fiore e la sua corolla piena di veleno gli si stringe intorno.
- Che cos'hai fatto?
- Chi ti ha mandato?
- Cos'è quel disegno? E' magia? E' una diavoleria di voi zingari?
Cerca di liberarsi dalla loro stretta, dà uno strattone più forte e avverte dolore al braccio sinistro: una delle mani che lo stringe, carica di anelli, gli ha strappato la manica e ha aperto una ferita sulla pelle. Lui la ignora e tenta ancora di guadagnare la libertà, ma la mano insiste e la ferita si allarga: un dono di fiori rossi cade sull'azzurro del disegno offeso e calpestato. Yevet si incanta per un istante su quelle macchie, col pensiero che Marnard Grayth non sarebbe felice di vedere la sua tomba omaggiata dalla morte di qualcuno che ha chiamato amico. E per questo non può morire lì.
Per questo, e perché Tower City è sua, gli eroi della città sono suoi, tutto è suo e lui vive per tenere insieme i segreti cittadini, per aprire le porte a chi ha bisogno di una via di fuga, per accogliere chi si sente minacciato dalla città troppo grande, per raccontare storie che trattengano nei cuori un po' di umanità.
E allora non può morire, e quindi grida e lotta, e riesce miracolosamente a sfuggire alla presa dei suoi assalitori.
La sorpresa non dura più di tre secondi: gli corrono appresso di nuovo. Ma lui li ha sfruttati bene, quei tre secondi, ed è già lontano. S'infila tra la gente ignara che non ha capito cos'è accaduto e corre, passa la prima porta, poi la seconda, ed è via da Kedwan, in una strada nella quale non possono prenderlo, perché Tower City lui la conosce meglio di tutti. Anche se un tempo lo avevano dichiarato libero di partire, lui è certo che non approfitterà mai di quella libertà: lui è la città, non c'è altro posto dove potrebbe esistere. E senza più paura rallenta la corsa e attraversa le vie della sua città con una canzone sulle labbra.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Harriet