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Autore: BigMistake    29/11/2010    1 recensioni
Dal prologo:«Sapete Colas, mia madre mi diceva sempre di aver paura dei vivi non dei morti!» le labbra truccate si distorsero in un sorriso sadico. «Non temo i fantasmi!»
Ispirato al musical cinematografico del 2004: Mentre si consuma il dramma del Fantasma dell'Opera la Parigi del 1870 sta cambiando. Gli ideali della Rivoluzione sembrano essersi dispersi, i ceti medi vanno via via scomparendo mentre la borghesia ed i nobili si preoccupano solo delle proprie tasche. Gli assetti della società mutano in maniera drastica, vecchie fazioni amiche si trovano su fronti diammetralmente opposti. La Guerra incombe sulla Francia con la sua scia di morti innocenti e corpi straziati, viziando il giudizio del popolo sull'Imperatore e decretandone il declino. Nell'ombra i vecchi giochi di potere e politica continuano a muovere i fili dei propri burattini. Questo è lo scenario mentre l'Opera Garnier è al rogo. Qualcuno osserva la scena, attende risposte da tempo. Ci sono mostri mascherati da Angeli, Angeli caduti che cercano di rialzarsi, ali strappate... Ed al Fantasma dell'Opera non resterà che adeguarsi al mondo che l'aveva rifiutato ...
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christine Daaé, Erik/The Phantom, Madame Giry, Nuovo personaggio, Raoul De Chagny
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lumière Noire - Deux anges tombés'
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CHAPITRE NEUF: Mensonges.             

 

 «Almeno hanno avuto il buongusto di separarsi per qualche ora.» evidentemente anche Philippe non saltava dalla gioia per un eventuale presenza di Christine. Sibilava tra i denti come se trattenesse un commento meno cordiale di quello pronunciato. «Non basta lo scalpore del loro matrimonio, le voci che si propagano a macchia d’olio infamando il nostro nome, devono dare spettacolo rimanendo attaccati come due parti indistinte di uno stesso arto. Devo subire abbastanza il declino della Francia, non voglio sentire anche il peso dello scivolare del nostro nome!»

Il sicario avrebbe colto quel debole riferimento, incamerato come suo e tenuto da parte per riferirlo nel rapporto che ogni settimana veniva inviato ai vertici.

Ma c’era un qualcosa che stava mutando, quello stesso qualcosa che la spinse ad ingoiare quel grumo di sabbia raschiando la gola.

«Philippe …» e quello era limone sulle ferite appena inferte: il cercare di placare il conte della sua collera nei confronti del fratello e della sua futura cognata. «Sono solo due giovani innamorati: lascia che la gente mormori di ciò che non comprende, pensa alla felicità di tuo fratello! Non vorresti lo stesso per te, per noi?» Con quella domanda lo stava ponendo di fronte ad un bivio, visto dal suo sguardo vacuo perso nella contemplazione di ciò che gli era stato appena sottoposto: se lei non fosse stata una donna benestante, qualcuno con una posizione sociale molto buona e che le garantiva un futuro, l'avrebbe attratto così tanto? O meglio avrebbe provato anche solo a frequentarla?

Eppure oltre alla sensazione di essere tremendamente in errore, sentiva un’altra cosa ribollire alla bocca dello stomaco.

Lava pronta ad eruttare con la forza delle peggiori calamità.

Difendere lui, di conseguenza difendere lei, faceva parte della compassionevole Constance. Ma Malice ,che conviveva con il dolore di un uomo lacerato, un uomo ferito ed innamorato che chiedeva soltanto un po’ di comprensione, un uomo che aveva rinunciato al suo delirio da affascinante sognatore per permettere loro un magnifico futuro, sentiva solo e soltanto la voglia di raccogliere la semina di cotanto disprezzo costringendo sè stessa ad indurre in  rassegnazione i  conte a cui non rimaneva altro, perché in fondo l’affetto per la sua famiglia era l’unico appiglio che in quegl’anni lo aveva guidato e reso ancor più forte.

Si era alzato, sospirando e sorreggendo i bottoni che chiudevano la sua giacca.

Un modo per stemperare sé stesso, il suo disaccordo nei confronti del nuovo atteggiamento scondiserato del fratello che si faceva strada tra i tavoli agilmente e con un sorriso, chissà quanto sincero, stampato ad arte sulla faccia.

O forse no. Non le era concesso giudicare, anche se non riusciva ad esimersi dal farlo chi era riuscito a distruggere il genio che ogni notte animava la sua casa con le sue mani.

«Raoul, è un piacere rivederti, fratello mio!»era davvero un piacere. Non aveva mai visto gli occhi del conte trasformarsi in tal maniera. Lo osservava come un padre orgoglioso scruta il figlio, l’occhio clinico di chi vuole soltanto assicurarsi ogni bene per la persona che ha davanti. Ogni astio, incomprensione o diatriba nata dal ciarlare della società si era oscurata sotto l’ombra dell’affetto che provava. In fondo quello era lo stesso ragazzino che lo seguiva in ogni impresa con la giusta ammirazione e spirito di emulazione che possedeva, lo stesso che difendeva dai soprusi dei suoi amici, lo stesso che a dodici anni, alla morte dei loro genitori, si era nascosto in un angolo per non farsi vedere piangere da lui. Era sempre lo stesso, indipendente ed orgoglioso, che combatteva solitario nelle sue battaglie grazie anche a Philippe e che si sapeva difendere dalle maldicenze, l'ignoranza, persino dai mostri orrendi delle storie spaventose raccontate sotto le lenzuola nella notte.

Era sempre Raoul.

Quando sono stata guardata così l’ultima volta?

«Anch’io sono felice di rivederti.» si tratteneva, avrebbe voluto slanciarsi in un abbraccio magari, esternare davvero ciò che provava per il fratello maggiore per cui nutriva un profondo rispetto e la deferenza dovuta alla figura che l’aveva cresciuto. Stringeva la sua mano come ad un perfetto estraneo con l’unica differenza di una pacca amichevole sulla spalla contraria. Niente di più e niente di meno. La delusione si era dipinta sul suo volto in un sorriso mesto, le labbra contratte in una smorfia deliberatamente forzata fin quando non s’avvide della donna ancora seduta accanto al fratello.

Le voci che giravano quindi avevano un fondamento.

Philippe quindi stava corteggiando una donna, anche se dai suoi scambi epistolari non era emerso molto più che un nome e qualche piccolo aneddoto.

Ed in effetti, Raoul, non credeva che ci fosse descrizione adatta a quella signorina.

Elegante, certamente, raffinata altresì. Tratti delicati, tipici del rinascimento italiano e due gemme incastonate nel viso a farle da cornice. «Voi dovete essere Constance, ho sentito così parlare di voi che mi sembra di conoscervi.» le aveva preso la mano protesa e sfioratele il dorso con le labbra, l’aveva rilasciata immediatamente.

Una notevole differenza con l’insistenza nel trattenerla di Philippe, tipica di un uomo dagl’occhi presi da tutt’altro.

«Potrei dire lo stesso di voi, visconte, nonché della vostra adorabile fidanzata, non è venuta con voi?» lo chiese lo stesso, gentile e cortese anche se sapeva di aver contrariato il suo conte. La curiosità di rivederla, affrontarla viso a viso scalpitava nel suo petto in maniera insana. Voleva constatare se le sue rimembranze le rendevano giustizia.

La ricordava anche se la notte del Don Jaun aveva avuto risvolti decisamente confusionari.

Era bella.

Strappata da un quadro preraffaellita e catapultata nella sporcizia di Parigi.

Bella e pura come un angelo scolpito nell’avorio.

Era bella, infinitamente bella, tanto che, agl’albori del mondo, avrebbe pagato a caro prezzo l’invidia di qualche divinità pagana.

Si era chiesta come Erik fosse giunto a provare una ossessione così distruttiva per quella che per lei era poco più che una bambina, come un uomo potesse trovare un desiderio logorante a tal punto da radere al suolo tutto quello che aveva posseduto. La risposta l’aveva davanti lampante, scolpita tra i tratti delicati del suo volto in maturazione e la pelle ancora non scalfita dal tempo. Una ninfa, una musa, un Angelo.

Ciò che ho perso il diritto di essere.

I pugni stretti, la calma sull’orlo del disastro, un tremore funesto che le infiammò l’animo dall’interno in una combustione fatta di livore. Un genio usurato da una bella bambina, lo spreco di una mente così affascinate da farle perdere il senso delle cose e la rabbia scaturita dalla consapevolezza che non avrebbe mai provocato tale devozione in nessuno.

Come aveva potuto rifiutare un simile venerazione? Quale donna non si sarebbe sentita lusingata da una tale dimostrazione di amore e dedizione? Quale ingrata creatura non rende omaggio a chi con cura l’ha fatta fiorire dall’intricato boccio dei suoi petali?

Per cosa?

Per un bel viso, danari sonanti?

E lei? Era questo che voleva?

Non voleva diventare il fulgido astro che Erik le avrebbe permesso di divenire? Risplendere di una luce propria sulle note potenti delle composizioni più famose, piuttosto che rimanere nell’ombra, divenendo esclusivamente il pallido riflesso di un nome occlusivo e di un titolo nobiliare?

Perché una creatura incattivita dall’odio e dalla crudeltà umana, non può amare? In nome di cosa? Del buon senso?

Il buon senso non ha mai avuto ragione: Lucia nella sua vita aveva riscontrato come esso e l’infelicità camminassero l’uno di fianco all’altra, spalleggiandosi da bravi amici quali fossero. Era pieno di uomini e donne incastrati nel buon senso, nella ragionevolezza, una vita priva di rischi che li costringevano ad un anonimato della propria esistenza.

Quanto avrebbe voluto avvicinarsi sufficientemente per afferrare il suo pugnale nascosto e sfregiarle il bel viso, legata poi e sballottata di paese in paese mostrandola con epiteti sprezzanti all’inneggio della sua nuova deformità. Come voleva dimostrare cosa aveva provato Erik a divenire soltanto il misero oggetto delle burla e della pura, cruda inettitudine del genere umano.

Cosa mi sta facendo realmente ribbollire il sangue? Cosa? Il suo disprezzo o che lui si sia umiliato a tal punto?

Prostrato ad un amore univoco, un amore che io non avrò mai. Si può amare un oggetto? 

«I preparativi per il matrimonio la stanno impegnando molto ed io non posso aiutarla, questa faccenda del teatro occupa praticamente tutto il mio tempo.» rispose accomodandosi dalla parte opposta del tavolo ridestandola dai suoi voli pindarici.

«Certo capisco!» le era uscito un tono più sommesso. La conversazione tra i due fratelli era passata in cavalleria mentre nella sua testa giaceva il languore dell’acredine.

Erik.

Il suo nome batteva contro la grancassa situata fra le sue sinapsi.

Rivedeva il suo volto sfigurato dalle lacrime, l’impietosa fine dell’uomo austero e spaventoso che aveva terrorizzato Parigi. Il suo potere divenuto il grigio pallore di una vecchia fotografia sbiadita, quando ancora si doveva restare in posa per ore, con strumenti di tortura a sorreggere il capo del malcapitato di turno.

Fin tanto che un particolare attirò il suo udito.

Il cucchiaino divenuto il pennello della poltiglia ormai liquida dall’agre sapore siciliano, le scivolò attirando il silenzio in quel fiume logorroico di confidenze dal guanto di seta tintinnando come una campanella di servizio.

La giovane Christine, da quando il Teatro era stato distrutto non aveva più una dimora.

Soggiornava in un albergo, dando fondo ai risparmi suoi e di suo padre proprio perché non voleva pesare sulle spalle di nessuno. Aveva persino rifiutato l’aiuto di Madame Giry, comprovata oltremodo dal triste destino dell'Opera Garnier, e di certo non poteva soggiornare nella residenza del visconte a Parigi, visto già quanto difficile era la situazione e le insistenti voci che pendevano sulle loro teste.

L’amante del Fantasma. Additavano così alla sua futura moglie.

«Constance? Vi sentite bene?»  un cavaliere senza macchia e senza paura è così che si comporta.

Nemmeno Raoul poteva nascondere la sua soddisfazione, nonostante l’argomento che stavano affrontando lo inquietava: quel tipo di atteggiamento l’aveva visto riservato a lui o alle loro sorelle, mai verso qualcun altro. Certo, le donne sapeva come lusingarle, ma quella premura quel tenero modo di rivolgersi a lei era qualcosa di più.

«Credo ci sia una soluzione, che servirà anche ad acquietare molte delle voci attorno alla bella Christine …»

 

 

La testa ciondolava pesantemente sulla mantella, le labbra che si contorcevano alla moltitudine di pensieri che si affastellavano con prepotenza.

Non può essere. Non io, sarebbe da stupida, sarebbe la prima volta.

 Il viaggio di ritorno da Parigi stava fornendo la giusta solitudine per riflettere. A casa l’attendeva un resoconto nei minimi particolari di ciò che era avvenuto al Café, eppure non riusciva ad articolare bene tutti gli avvenimenti. Si abbattevano alla rinfusa senza un apparente ordine cronologico, l’uno contro l’altro con particolari tutti insignificanti ai suoi occhi. Occhi che sentivano la pesantezza di una giornata troppo lunga e la stanchezza pendere come una spada di Damocle sulle palpebre.

Malice dormiva pochissimo, non perché non ne fosse bisognosa.

Tutt’altro.

Lei amava molto dormire, affondare la testa sul cuscino perdendo conoscenza e svegliarsi la mattina seguente come se la notte fosse volata via tra le ali di gioie e speranze rivelate attraverso i sogni nostalgici di una vita passata.

Ma la sua di notte non veniva animata da leggiadri sogni.

Erano incubi.

Da quando era stata incarcerata a Roma, il suo sonno veniva tormentato da incubi di ogni genere tutti macchiati dello stesso odore. Ogni persona ricorda cose diverse nel sogno: c’è chi ricorda un volto, chi un oggetto, chi dei suoni, melodie, fantasmi ed è vero che nessuno riesce a percepire con l’olfatto certe sensazioni.

Lei si svegliava con l’odore di ruggine a bruciarle le narici, scalciando nel vuoto e senza alcun suono ad articolarne il terrore. Un nodo che racchiudeva tutte le sue paure nate con l’oscurità colei che in realtà l’aiutava più di tutti nei suoi infidi giochi di potere.

E si svegliava sempre, nel buio ventre della notte, accaldata, affaticata con le gambe intorpidite segno d’un intensa attività che non includeva il piacere né suo, né di nessun altro.

Gli incubi avevano sempre un volto, anzi due. Si alternavano con la regolarità di due personaggi su di un copione teatrale ed entrambi avevano il viso trasfigurato dall’aspetto crudele del Demonio.

Questa la ragione per cui obbligava la sua mente a non addormentarsi dopo uno dei suoi intimi incontri di lavoro, almeno evitava di cadere nello stato più profondo eludendo i cancelli dei sogni e rimanendo in un costante dormiveglia che non  le permetteva il giusto riposo.

Il paesaggio al di fuori scorreva veloce, come le immagine nella lanterna magica del vecchio medico che le impartiva lezioni di anatomia anni orsono. Sulla strada battuta la carrozza percepiva ogni deformità del terreno, sobbalzando gravemente ad ogni dosso o avvallamento. Gli alberi che ne rasentavano il ciglio frustavano le proprie fronde in movimento, quasi lei fosse perfettamente immobile al centro dell’universo ed il mondo le vorticasse attorno.

Forse era così.

Da sempre aveva sentito che ogni cosa le correva affianco, le sfuggivano di mano.

Si sentiva la spettatrice inerme della propria vita, una pozza che bisognava scavare troppo a fondo per ritrovarvi l’acqua: in troppi vi avevano attinto, in troppi avevano fagocitato quanto più possibile, spremendo le riserve naturali che lentamente si stavano esaurendo.

Una battuta d’arresto ai suoi pensieri.

I cavalli incitati a fermarsi e le ruote che smettevano di cigolare sotto lo sforzo per percorrere quelle vie.

La porticina dove giaceva uno splendente stemma della finta casata a cui apparteneva dischiusa dal cocchiere che, con la cortesia tipica delle buone maniere, le annunciava di essere arrivati. La sua mano pronta rivolta alla propria padrona la quale l’afferrò con delicatezza.

Fittizio proprio come i disegni su vetro di una lanterna magica.

Strano, si aspettava di veder Colas precipitarsi come un avvoltoio sulla propria preda, carico di domande ed aspettative.

Il deserto invece che l’accolse quasi la fece sospirare mentre la propria carrozza si allontanava verso le stalle liberando la visuale ad altro.

«Abbiamo visite …»

Conosceva molto bene quel tipo di visite: nella sua vita aveva visto avvicendarsi i vari messi con a frequenza con cui una ballerina si cambia abito di scena. La Sûreté non era incline a perdonare i tentativi di tradimento e spesso, molto spesso, gli avidi non sanno resistere alle promesse di qualche fuga di notizie.

Entrando venne accolta dalla solerte madame Bonnet, sempre algida ed impettita nei suoi vestiti con l’odore del lutto e la sua severa crocchia ancorata alla nuca. Le prese il cappello ed il soprabito prima ancora che lei potesse proferire parola.

Si sfilò i guanti, tirando una ad una le dita di stoffa con un lento conto alla rovescia e l'interrogativo su quella carrozza fuori dalla sua dimora.

Gli occhi puntati in quelli della donna, chiedendo muta, severa chi ci fosse nella sua casa.

«Un distinto signore ha chiesto di vostro fratello, madamoiselle.» le rispose come se fosse realmente avvenuta quella domanda.

«Dov’è Baptiste?» chiese allora porgendo i suoi guanti alla governante.

«È con monsieur Masquet a tirar di spada, l’ospite ha detto di non disturbarlo e che avrebbe atteso.»

Prima o poi sarebbe accaduto.

Colas era una persona invidiosa, gelosa e incapace di ragionare quando si trattava di dimostrare le sue capacità.

Erik, invece, narcisistico e vanesio nel suo profondo, raccoglieva ogni sorta di sfida.

A lei non rimaneva che vedersela con  il visitatore, o l’osservatore qual dir si voglia.

«Lo accoglierò io, quindi se non vi spiace …»

«Attende nello studio di vostro fratello madamoiselle. Volete che serva il thè?»

«No, non desidero che si trattenga più del dovuto. Potete continuare le vostre faccende, madame.»

Congedò quindi madame Bonnet, invitandola ulteriormente a non disturbare il suo amatissimo fratello. Anzi a tacere la sua presenza finché le fosse possibile. La governante non volle ulteriori spiegazioni, con un lieve inchino del capo tornò ad occuparsi della casa come il suo dovere le dettava. Avevano molto in comune le due donne: entrambe ligie, discrete osservatrici che conoscevano il proprio posto e cercavano di rispettarlo, anche se Malice faceva fatica in tal senso.

Madame Bonnet, in segreto, ammirava l’altra, anche se le sue stranezza le lasciavano un profondo senso d’inquietudine. Le veniva da giustificarla comunque, era pur sempre una ragazza che aveva perso i genitori e tirata su da un fratello che, di certo, non spiccava per la sua perspicacia.

 

Per Malice il già saperlo privo di sorveglianza nello studio di Colas, dove la maggior parte dei rapporti e degli scambi epistolari avveniva nella più completa segretezza, era fonte di disagio. Inoltre La Sûreté era tendente a non mandare corrieri con leggerezza, ma lui era lì e non per recapitare un messaggio a loro.

E se Colas avesse saputo.

Allora avrebbe avuto la mano in pugno.

Non devo essere avventata.

Come immaginava.

L’uomo, vestito distintamente proprio come aveva preannunciato la governate, era in piedi, dalla parte sbagliata della scrivania, che sbirciava uno dei registi messi sulla scenografia del vigneto.

Il viso aguzzo, tratti sottili ed affilati resi ancor più infidi da un paio di occhialini portati sulla punta del naso. Una calvizia precoce a diradarne la chioma rossiccia, nascosta da un sapiente riporto impomatato da chissà quale grasso. Il cilindro appoggiato sulla poltroncina come se non attendesse altro che andare via il prima possibile. Lo aveva già visto, in altre occasioni, forse uno dei pochi messi a resistere tanto a lungo, e non sembrava essersi accorto della nuova presenza nella stanza.

Bene.

«Devo dire che non attendevamo visite così presto monsieur La Mouche »

La Mouche, la mosca. Chiamato così per le sue capacità di onnipresenza, come il suo aspetto di piccolo uomo subdolo, una mosca appunto. Era questo il suo secondo nome, l’unico a conoscenza di Malice. D’altronde, nel momento in cui si faceva parte di un’organizzazione ombra di sé stessa conoscere i nomi reali diventava una rarità.

Sobbalzò colto alla sprovvista, un bambino trovato con le mani nella marmellata, nel pieno del suo furto d'informazioni.

Un gesto di noto nervosismo.

Si sistemò gli occhiali sorridendo, agitato per divagare al suo atto poco gentile nei confronti di due colleghi e tamponando la fronte con un fazzoletto dispiegato dal taschino con forti colpi fendenti.

Che grande segugio!

Non era quello il suo compito, d’altronde.

Oppure sì?

«Non vi avevo sentito, madamoiselle Malice!» aveva già superato lo scrittoio, ballonzolando nel suo completo forse un po’ troppo stretto. Ora che non era chino sui fogli poteva vedere i poveri bottoni del panciotto strizzarsi nelle asole, pronti a saltare.

Un’arma impropria, che avrebbe potuto cavarle un occhio.

Come al solito Colas le lasciava il lavoro sporco.

«Lo vedo monsieur …» disse sollevando solo un sopracciglio in segno di perplessità. Non sapeva se esserne lusingata o offesa. O si fidavano a tal punto di loro di mandare il più viscido ed infingardo dei messi magari a congratularsi del proprio lavoro, oppure li ritenevano talmente incapaci che persino lui poteva presentarsi di fronte ad un’efferata assassina per recapitarle un messaggio.

Ma vi era la terza opzione: e se non fosse stato così sprovveduto come lasciava credere?

L’unico modo per scoprire le radici di un albero è scavare. Ci sono pochi modi per scavare nella mente di un uomo.

E spesso la strada veniva spianata da un buon cognac, proprio quello che Colas teneva nel mobile dietro la scrivania.

Gli passò accanto scrutandolo ancora.

La temeva.

Le bastava sentire il cambio dell’aria per capire quando un uomo iniziava ad averne seriamente paura. Lo vedeva nei suoi piccoli occhi nascosti dalle lenti e dai ripetuti battiti di ciglia per irrorarli, lo vedeva dal suo pomo d’Adamo abbassarsi e risollevarsi con una lentezza innaturale, come se il boccone fosse eccessivamente grosso.

E questo escludeva la seconda opzione, ma non la terza.

Si era voltata, con grande maestria, esibendo i due bicchieri appena sporcati dal liquido ambrato sorretti dalle sue dita sottili sotto la corolla del tulipano. Ne porse uno all’uomo che cedette dopo appena pochi istanti di esitazione.

Come poter dire di no ad una bella donna dallo sguardo seducente ed enigmatico, che ti porge della pura ambrosia?

«Allora, quale notizia portate monsieur La Mouche? La Commune è scoppiata e noi non serviamo più a nulla?» proferì girandosi nuovamente, la voce carezzevole e morbida così come la curva sinuosa delle sue spalle mentre sfilava la giacca che le copriva il busto con l'aiuto di una sola mano.

Ancora il rumore di un corpo estraneo che penetra nella gola con forza come lava incandescente. Doveva sentirla incombere come la regina oscura della sua volontà, doveva temerla e desiderarla, doveva stordirlo ottenendo da lui ciò che di sua spontanea volontà non avrebbe detto.  Gli occhi di lui puntati ovunque, in ogni parte fagocitando con la foga di un maiale nel suo porcile ogni particolare che poteva cogliere. La vita stretta contro le stecche d’osso, i fianchi armoniosi fino agl’amabili seni dove sentì il suo sguardo indugiare e poi calarsi in quel segno violaceo che trasudava morte sul candido telo steso sul suo collo.

Un domanda si disegnò sul volto dell’uomo, in una matura ruga della fronte.

«No, siete ancora molto utili qui madamoiselle Malice, voi soprattutto. Sapete come state a cuore a tutti noi, nevvero?»

Lo schiocco della lingua sul palato, eloquente come un dissenso urlato. Era utile, punto. Odiava l’idolatria di velli d’oro solo per ingraziarsi le sue capacità.

«So che non ne siete convinta, ma è così. Monsieur Vidocq chiede di voi in continuazione …»

«Immagino come chiede di me, La Mousche …» lo scetticismo sempre più calcato, nonostante si stese sulla chaise longue come Paolina Borghese nella statua del Canova e non era così lontana con la sua pelle pallida e lucida come il marmo, se non fosse stato per i drappi scuri dell’abito che pendevano come tristi sipari dal bordo della poltrona e la coppa tra le sue mani. «Allora a cosa devo credere oggi? All’istinto paterno che guida i nostri vertici oppure siete qui per una vera ragione?»

«Ammetto che sembrate tornata quella di un tempo madamoiselle, la vicinanza con monsieur le Fantôme deve giovarvi alquanto.» La terza opzione si palesò oltremodo, cacciando via ogni dubbio di maschera innocua: ammiccava il piccolo uomo grassoccio, le labbra increspate in un sorrisetto di scherno e le spalle buttate allo schienale della poltroncina dove si era andato a sedere. Molto più sicuro di quello che aveva dato a vedere mentre poggiava il calice sulle sue labbra senza nemmeno assaporare il liquido che vi era contenuto. L'alcool non è amico dell'intelligenza, il fingere di bere lo rendeva molto meno sciocco del suo infido aspetto.«Un po’ meno per Balayeur …»

Colas, piccola conferma di ciò che aveva avvertito già da qualche giorno.

A Malice non spettavano i rapporti e tutte le noie burocratiche a cui erano sottoposti gli agenti ed era il suo compagno a compilare la lettera che a cadenza regolare veniva spedita. Un modo per assicurarsi che le coperture reggevano, un modo per assicurarsi che erano vivi ancora. In quelle lettere stillate seguendo un codice preciso, vi era tutto ciò che accadeva, raccontato nei minimi dettagli.

Sicuramente una di queste riportava come la presenza di Erik avesse condizionato l’atteggiamento del loro sicario preferito.

«Quindi siete qui solo per accertarvi che sia … o meglio, che noi siamo, ancora efficienti giusto La Mouche

«No, non esattamente.» rispose indugiando sull’ultima parola con indecifrabile inclinazione, come se cercasse di lasciarle intuire un qualcosa senza esporsi più di quanto stesse facendo. Quando poi si guardò dietro la schiena in un atto istintivo di protezione, come per assicurarsi di non essere ascoltato, un brivido freddo intercorse lungo la spina dorsale. «Sono qui per consegnare al nostro Balayeur un messaggio.»

«Come avete potuto accertarvi è molto occupato a giocare con il suo nuovo amico …»

L’invito silente della mano di Malice protratta con il palmo verso l’alto, non lasciava spazio a molti dubbi. Eppure l’uomo l’osservò per attimi infiniti, insicuro sul da farsi. I piccoli occhi che saettavano dal palmo al suo viso, con una rapidità quasi convulsa e le palpebre tremarono quando la sua di mano andò al taschino interno della giacca dopo aver posato definitivamente il bicchiere su di un piano.

Eccola.

Lo stemma dei Saint-Simon scolpito nella ceralacca rossa cozzava contro il giallo paglierino della carta ed il suo profumo d’inchiostro, acre e delizioso, l’investì con la forza di un vento del nord quando la sventolò contro la mancina soppesandone il contenuto.

«Mi spiace, ma mi hanno ordinato di consegnarla solo ed esclusivamente al vostro caro fratello … » come punto da milioni di spilli si alzò dalla sedia, colto da un’improvvisa fretta che lasciava intendere quanto si stavano avventurando su di un terreno accidentato. «Credo che tornerò quando avrà smesso di giocare, madamoiselle se non vi spiace …»

«No, affatto monsieur! Conoscete la strada …» aveva intrapreso due passi incespicando da solo con poca disinvoltura, asciugando ancora la fronte imperlata di sudore. Tornava anche lui nella sua parte? Venne interrotto quando quasi aveva raggiunto l’uscio dello studio. «Spero che il vostro soggiorno a Parigi sia di alto gradimento: per il nostro Balayeur  il gioco non finisce mai!»

«Adieu madamoiselle … »Annuì rivolto con la testa verso quella magnifica donna. Una mantide religiosa con le sue zampe giunte in preghiera, la sua forza divoratrice e la sua imperiale postura. Una vera regina con un potere sconfinato, se preso con le giuste precauzioni.

Non si può rinchiudere un insetto in un barattolo di vetro e poi pretendere che sopravviva.

Era questo che le stavano facendo, questo il tiro che le stavano giocando con poca astuzia. Tutto solo per tenerla ancora vincolata  a Vidocq, alla Sûreté.

La Mouche non aveva ritirato la lettera al sicuro nel suo taschino e sembrava non averne alcuna intenzione. Conosceva il suo contenuto, si vedeva dal suo volto contrito e dalle labbra appena accennate ed arricciate sotto il prominente naso. Lui sapeva cosa vi era all’interno. 

Non dovremmo ingannarci fra di noi.

Mosse il primo passo verso l’uscita ed ancora non aveva toccato terra.

L’occhio pronto ed attento della mantide venne catturato da quell’oggetto che si opponeva strenuamente alla sua caduca esistenza, dondolando stancamente fino a placarsi al suolo.

Non poteva essergli caduta, non involontariamente.

Era un invito a leggerne il contenuto?

 

 Vi era uno spiazzo davanti alle stalle.

Due lavoranti si occupavano dei cavalli, mai come quel giorno si erano affrettati a concludere le loro faccende lasciando così deserto un buon raggio, un posto piano privo di grandi irregolarità del terreno ed ombroso, ideale per duellanti dalle armi bianche.

Stridii, schiocchi, clangori metallici riempivano il silenzio che era calato tra loro.

Non una battuta se non il cantare delle loro lame, fischiando melodie disarmoniche nel fendere l’aria sotto l’ottenebrata proiezione delle fronde rigogliose della grande quercia che sorgeva imponente di contro all’entrata.

Ed era lì che Malice, vestita con i suoi abiti orientali e le sue gambe fasciate da pantaloni, che aveva preso ad osservarli, posata con la spalla contro la corteccia. Si era preparata e voleva essere libera di muoversi al meglio.

Doveva essere alle spalle dell’omuncolo, con il sangue a pulsare con la forza devastatrice di un uragano: i grandi occhi iniettati di livore dal basso rivelavano una nuova rabbia, una nuova fiamma ardente che aveva preso a divampare in lei da quando quelle parole scorrevano nella sua testa. Aveva letto e riletto la stessa frase così tante volte che le pareva essere scavata. I lembi della carta stretti troppo a lungo tra le sue dita esili avevano ceduto ed una crepa intensa che correva frenetica per tutta la lunghezza.

La pantomima era iniziata.

Tre lenti battiti, i palmi delle mani che cozzavano sotto un sorriso sadico per elogiare una bravura a cui non aveva fatto nemmeno caso.

Colas vide solo gli occhi di Erik prolungarsi dietro di lui, bloccati in un respiro a mezz’aria.

«Bravi, Bravi, Bravi!» lo aveva detto come dopo la grande scena di uno spettacolo, un elogio dedicato a tutti i più grandi artisti nella lingua musicale del Dolce Stil Novo. «Mi chiedo se ci sia posto anche per me? Che dite Colas, avete abbastanza fegato per misurare le vostre capacità con una piccola donna?»

Un attimo perché Colas aprisse le braccia in un tacito invito a farsi avanti. Un gesto plateale di superiorità, un ghigno che non aveva nulla di terrificante in confronto al volto trasfigurato e furioso dalle delicate fattezze.

Lo stesso attimo necessario ad Erik per comprendere ed indietreggiare prima di essere travolto.

Una furia dalle movenze leggere, battiti di ali di mille farfalle che si avventano suòl campo, contro l'esterrefatto uomo che approcciava solo di difendersi agl’attacchi violenti di Malice quasi senza risultato.

Affondi, montanti, piccoli salti. Volteggiavano al ritmo incalzante di una musica inesistente ad altre orecchie.

L’aveva vista combattere nel suo teatro al buio, l’aveva vista riuscire a tenergli testa con una coreografia letale come lo stesso veleno che le scorreva nelle vene. Ma niente in confronto a quegli scambi che stavano avvenendo.

Una danza elegante, pose e peso bilanciati sugl’arti. La forza mascherata nella grazia di un corpo formato di donna, che poteva ingannare. Il balugino della lama dai sapori lontani che si risvegliava al tocco indiscreto dei piccoli raggi.

Cercava gli affondi, non risparmiava colpi su colpi senza emettere null’altro che gemiti frustrati per non essersi saziata della carne dell’omuncolo.

Può un pugnale avere la meglio sulla spada?

 Può il piccolo Davide sconfiggere Golia? Può una ragazzina denigrare a tal punto Santa Madre Chiesa? Può una dolce fanciulla uccidere un monsignore?

Erik non aveva visto niente di più bello.

Forse solo lei, vero Erik?

Un Angelo di morte a cui ora non pesava di aver le ali strappate. La libertà del volo non le serviva, voleva essere lì in quel momento, in quel luogo.

Le orbite vuote incise nell’acciaio caddero alla vista di quell’Angelo nero, crudele e vendicatore.

Il tempo parve fermarsi all’improvviso.

Colas cadde e rovinò a terra ed il falco pronto fu su di lui.

La minaccia di una lama affilata contro la gola sembrò fargli perdere la spavalderia con cui aveva sfidato Erik in quel pomeriggio primaverile.

«Siete un maledetto bastardo!» la croce dal collo dell’Angelo, il suo amore sconfinato per Dio, era la condanna che lo stava minacciando.

«Questo lo sapevate …» lo scosse lasciando che gli morisse fra le labbra il fremito per la paura di un errore.

«Quando avevate intenzione di dirmelo? Non meritavo nemmeno di saperlo?»

«Non capisco …» Il freddo acciaio del Maestro Murai di Nara premeva sulla giugulare con insistenza fin tanto che i primi capillari esplosero da sotto gli strati di pelle.

Un graffio, un segno, l’odore di sangue con nessun disgusto e solo la voglia di sentirne di più.

«È finito il tempo delle menzogne e delle buone maniere, Colas. Dovete prestare più attenzione alla vostra corrispondenza. Avanti parlate!»

Un tiepido sussurro, una confidenza che sarebbe sfuggita a chiunque.

Erik scoprì in quel preciso istante che anche un Fantasma si può sorprendere e può rimanere attonito, fisso ad ammirare lo sguardo vuoto della Morte.

L’Angelo vendicatore aveva appena dispiegato le ali di pece, non più mozzi moncherini di ciò che era stato. Lei era pronta ad uccidere e fremeva nel farlo, voleva vedere il sangue scorrere a fiumi, stillare come una fontana dai putti alati.

La macabra bellezza di un quadro che ritraeva il virgineo viso ossuto della Mietitrice d'Anime, la letale litania di un requiem che scorreva nelle loro vene, la potenza creativa di una mente che stava vedendo note su note.

L’elegia di fagotti e violini, viole, violoncelli, il gretto suono di ottavini, contralti, flauti, soprani e tenori che si alternavano in botte e risposte che minacciavano con brividi di terrore lo spettatore inerme.

Componeva nonostante non potesse appuntare quello che nella sua testa prendeva vita.

Solo un'altra era stata capace di provocare in lui una tale improvvisa ispirazione.

La tua musa, il tuo Angelo della Musica.

E lei? Cos'è ora? Non è forse un Angelo? Lo strascico del Dio punitivo dell'Antico Testamento.

Un Angelo di Morte ... 

Ogni respiro, ogni cosa trasudava violenza da quella minuta arma umana.

Il Kogai, piccola arma di fortuna che si cela facilmente, metafora di quello che è questa donna. Affascinante analogia.

Si traduceva tutto in una musica grave e spietata come i sibili che dalle bocche dei due contendenti parevano echi di una  lotta fra Diavolo e Acquasanta.

«Cos’altro avete letto nella corrispondenza? Un ordine scomodo, forse il primo a cui non vorrete adempiere? Oppure di come vi sono riuscito a prendere in giro nonstante io sia semplicemente il vostro servo? Ho gabbato l'acuta puttana dei potenti, ma ...» si avvicinò per farsi sentire esclusivamente da lei, che le premeva sempre con meno forza. « ... non la puttana di chi dovrà liberarsi prima o poi, di chi in realtà vorrebbe!»

Un attimo, il silenzio infinitesimale di quell’istante, una distrazione che le stava costando caro, il movimento veloce delle gambe, l’Angelo chiuse le ali su di sé per proteggersi da cotanto veleno.

Una spinta e Malice perse le forze scivolando sulla terra battuta assieme al suo pugnale ormai troppo lontano per essere afferrato.

Ma quando Colas riprese la sua spada il suo fendente venne bloccato a mezz’aria prima che la potesse colpire. Il teschio lo guardava terrificante da sopra le sue dita chiuse in una morsa ferrea. Aveva agito d’istinto, non si riconosceva nemmeno. Eppure Erik aveva seguito senza esitare lo strano impulso a difenderla, a farle da scudo sorprendendo tutti persino sé stesso.

Perché il nero Angelo che aveva visto prima, la fiera selvaggia che s’avventava con la forza che solo l’istinto e la rabbia può donare era sparita sotto la fragile rugiada che era comparsa sulle sue gote. Brillavano turgide e consistenti come cristalli, sotto un pianto nascosto dal muro di capelli che le era calato sul viso.

Stava piangendo di nuovo, debole e stanca di una vita costruita sulle fandonie di un gruppo di pazzi esaltati a cui apparteneva.

Le stava arrivando, dritto al cuore mai come allora: il vero significato di solitudine.

C’è chi è solo e chi si sente solo. Non è vero Erik? È questo quello che si prova ad essere uno spettro, un fantasma?

«Toglietevi di mezzo Fantasma, non è una cosa che vi riguarda!» l’epiteto ridondante riprese su di un’altra voce, ma la risposta che si aspettava non risiedeva in un’altra voce fatale e suadente come quella del Demonio, capace di portare alla stessa follia del proprio baratro.

 Era solo lo stridere di spade, di una nuova minaccia dipinta in occhi grigi come il gelido cielo dell’inverno in cui il verde splendente si disperdeva nella sua valle.

Cosa poteva fare allora se non scappare da quel luogo?

Cosa poteva fare Lucia ora che gridava prepotentemente di uscire allo scoperto?

L’Angelo Nero avrebbe voluto il Paradiso ed invece era solo in un posto ancor più orribile dell’Inferno.

Era nella vita reale. Era nel mondo. Era alla mercé della crudeltà altrui.

Cosa restava all’Angelo Nero  se non le piume scure dei brandelli delle sue ali?

Cosa le restava se non la protezione di un altro Angelo maledetto da Dio?

Note dell'autrice: Che faticaccia!!! Non so che ne è uscito fuori, ma è stato veramente complicato scrivere questo capitolo perchè introduce a quello in cui finalmente sapremo di più sul passato di Malice anche se ci sono indizi sparsi ovunque. Ovviamente è collegato al messaggio che ha letto la piccinina mia. Raoul ha fatto una breve apparizone, un invito del fratello visto che si trovava a Parigi e di sicuro non si sarebbe fatto sfuggire una tale opportunità. Avrei voluto metterci anche Christine, ma in realtà non aveva molto senso avremo modo di vederla non temete. Come ho già detto non esistono ruoli centrali oltre a quello di Malice ed Erik, gli altri sono semplicemente il contorno. Se non si è capito amo fare l'introspezione ^^ ghghgh!

C'è una precisazione tecnica: ho citato Vidocq. E' realmente esistito ed era stato il primo capo della Sureté anche se precedente  di qualche anno al periodo storico che stiamo trattando. Però mi sembrava carino citarlo quindi licenza poetica a gogò!!!^^

Bhè non c'è molto altro da dire! ^^

Ah sì per chiunque voglia dirmi una cosina adesso ho l'opportunità di rispondervi nell'immediato e non dovete aspettare il nuovo capitolo quindi spero di poter usufruire del bellissimo lavoro e delle migliorie che stanno apponendo al sito!!!^^ Vi prego!!!

Con questo volevo comunque ringraziare tutti! e vi mando un bacio fantasmoso tutto per voi che ve lo meritate pure se leggete in silenzio!

Serva vostra.

Malice!

   
 
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