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Autore: Morea    30/11/2010    12 recensioni
Essere incompresi dal mondo è una sorte difficile, come ritiene Gilderoy Allock. E Gladys Gudgeon, sua indomita fan, crederà a torto di condividere lo stesso destino, in nome di un amore che la spingerà ad annullarsi totalmente, prima tra le pedine di Non-ti-scordar-di-me.
Storia classificatasi seconda su tredici al contest "We are in love with a Dandy!" di Mabra e vincitrice del Premio Ghost.
Genere: Commedia, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Incompresi



Prompt: Non vi è alcuna ragione per cui un uomo debba mostrare la sua vita al mondo. Il mondo non capisce.





La prima volta che Gilderoy Allock bussò alla mia porta, pensai che doveva essere o fortemente stupido, o straordinariamente sicuro di sé.

I suoi genitori l'avevano spedito a chiedere ai miei un po' di Polvere Volante, ma la cosa buffa è che lui pretendeva di ottenerla semplicemente sbattendo i suoi occhioni azzurri e ravvivando di tanto in tanto i suoi splendenti riccioli biondi. Si ostinava addirittura a non parlare, come se io, alla veneranda età di sette anni, potessi avere conoscenze di Legilimanzia superiori a quelle di Voi-sapete-chi in persona.

- Beh? - esordii scocciata.

Gilderoy pareva non capire. Doveva essere abituato ad ottenere tutto ciò che voleva semplicemente ammiccando, a casa Allock, e, col senno di poi, la cosa non mi stupisce particolarmente. Lo guardai in cagnesco, decisa a non dargli spago, finché non si fosse abbassato a produrre una frase di senso compiuto usurando la sua preziosissima lingua per qualche secondo.

- Salve, signorina, mi chiedevo se potevo avere un po' di Polvere Volante. -

Pensai subito che fosse uscito da uno dei libri di fiabe che mi leggeva sempre mia madre. Primo, 'signorina' era una forma di cortesia talmente aulica per me che ero soltanto una bambina, da sembrarmi nientemeno che un'offesa bella e buona. E quel 'mi chiedevo se...' era talmente pomposo e ridondante da meritarsi in pieno la smorfia schifata che gli riservai. Non capivo proprio come e perché un bambino dovesse parlare in quel modo: era già tanto se io mi ricordavo di infilare dappertutto i 'per favore' che a Londra sembravano più vitali della frase vera e propria.

- Sì – grugnii in risposta. Dopotutto, la mamma mi aveva sempre raccomandato di essere educata con gli ospiti. Poco importava se dieci secondi dopo avrei costretto l'ospite ad evaporare, magari infilandolo a forza nel camino e lanciandogli addosso la stessa Polvere Volante che era venuto a chiedere in prestito.

- Mammaaaaa! - urlai nervosamente, non appena sia io che Gilderoy varcammo la porta.

Non era un segreto per me, che mia madre stravedesse per quella sottospecie di putto alato dai boccoli dorati e le iridi color del cielo. Andava spesso dagli Allock, a conversare amabilmente con la Signora Chantal, dalle amabili origini francesi, e, quando tornava a casa, tutta quell'amabilità aveva contagiato anche lei, tanto che si esprimeva con gergo poetico e raffinato e rinunciava a sgridare me e mio fratello Ernest per non sciupare irreparabilmente la sua loquela.

Oh, a proposito di Ernest: mia madre e la Signora Allock avevano una grande passione comune, ed era quella per Oscar Wilde. Se quella della prima si fermava all'ammirazione del suo stile letterario e delle sue opere, anche se battezzando mio fratello con quel nome tremendo si era effettivamente comportata come un'esaltata fangirl, quella di Chantal Blanchard in Allock rasentava la follia più pura. Aveva sempre sognato di ritrovarsi un piccolo Wilde scorrazzante per casa, e Gilderoy non aveva tradito le sue attese: girava per il quartiere con abiti firmati, modi da damerino ed una disarmante scioltezza ed armonia con tutto ciò che lo circondava, tanto che anche il lilla dei suoi vestiti preferiti riusciva a non stonare né nel verde dei giardini pubblici, né di fronte al grigiore freddo ed asettico delle più disparate costruzioni. Ed era inutile dire che anche Rose Wilkinson in Gudgeon auspicava per me la stessa eleganza ed il medesimo savoir faire.

Mi aveva chiamato col nome di un fiore, forse certa che così facendo avrebbe instillato in me femminilità e grazia, mi aveva educato a parlar bene e ad essere sempre rispettosa di amici e parenti, aveva tentato di insegnarmi a prendermi cura del mio abbigliamento e dei miei capelli, sperando di far di me una vera Mademoiselle – amabile francesismo che aveva chiaramente iniziato ad utilizzare nel salotto di Madame Allock. Il risultato che aveva ottenuto era ovviamente l'opposto: mi comportavo da maschiaccio, passando le giornate a giocare a nascondino e, di conseguenza, a sbucciarmi ginocchia e tritare gonne, pantaloni e calze, conoscevo diverse parolacce e non esitavo ad usarle con i miei amici, e, soprattutto, concepivo i vestiti come un mero strumento per ripararsi dal freddo ed i capelli come un accessorio donatoci da Madre Natura in un eccesso di gentilezza, tanto che ogni mercoledì e sabato lottavo per sfuggire alla tortura dello shampoo e del pettine con le unghie e con i denti.

- Oooooooh! Gilderoy caro! - Eccola, la voce amabile di Mamma Rose in visibilio.

- Buongiorno Signora Gudgeon, la vedo più bella che mai, oggi. - Il mio sguardo oscillò tra la boccuccia fiorita che aveva partorito quelle stupidaggini e mia madre, che quel giorno indossava una vecchia vestaglia, dato che non aspettava visite. Effettivamente, il concetto di 'più bella che mai' non le si addiceva proprio in quell'assolato martedì estivo, in cui non aveva ancora avuto il tempo di sistemare l'acconciatura a colpi di bacchetta. - Mi chiedevo se potevate prestarci un po' di Polvere Volante, ve la renderemo il più presto possibile. - Se avesse aggiunto 'distinti saluti' o formule simili, sarebbe potuta benissimo passare per una richiesta formale. Vidi mia madre andare in brodo di giuggiole, lusingata dal sentirsi rivolgere la parola con un'educazione ed una fioritura di versi che in casa nostra poteva aspettarsi solo nei suoi sogni più rosei.

- Ma certo, caro. Te ne prendo subito un po'. -

Mi lanciai sul divano, dimenticandomi di invitare anche l'ospite. Non mi era andata giù tutta quella gentilezza nei confronti di quel pivello, dopo che a me poco prima del suo arrivo aveva risposto 'Prenditeli da sola!' alla mia richiesta di portarmi su in camera gli scacchi magici.

- Dovresti vestirti meglio, sai, cara. -

Mi alzai di scatto, scoccando un'occhiata di fuoco a quell'essere che aveva osato parlarmi in quel modo.

- Prego? -

- Non dovresti nascondere la tua femminilità in quel modo, cara. -

Quanti anni sono passati da quel giorno, trentacinque? Forse di più? Ecco, ancora saprei riproporre benissimo la faccia sgomenta che gli rivolsi all'epoca. Lui aveva nove anni, io sette: a quell'età io consideravo i maschi alla stregua di Schiopodi Sparacoda, ed allo stesso modo i miei amici guardavano me e le altre femmine come se fossimo una versione di Manticora ancora più letale di quella autentica. Ed invece, no, Gilderoy Allock veniva a parlarmi di femminilità. Non seppi neanche come replicare a quella battuta, e per fortuna mamma Rose decise di tornare in salotto in quell'esatto momento.

- Ecco caro, spero che ti basti, anche noi siamo rimasti un po' a corto di Polvere. -

Gilderoy le rivolse uno sguardo a dir poco stucchevole, dopodiché ringraziò entrambe con un inchino. Notai che gli occhi di mia madre ricordavano vagamente dei diamanti, da quanto brillavano, e con stizza notai anche che non aveva mai guardato me, il gladiolo più avvizzito del quartiere, in quel modo.

- Gladys cara, accompagna Gilderoy alla porta. -

- Lo sa, dov'è – risposi brusca, prima che mia madre mi puntasse la bacchetta addosso, al che non potei fare a meno di ubbidire ciecamente.

Guidai Non-ti-scordar-di-me (questo era il fiore che descriveva meglio i suoi occhi, a detta di mia madre) fino all'ingresso di casa, dove si voltò e mi posò una mano sulla spalla.

- Gladys cara. - Mi trattenni a fatica dall'impulso di prenderlo a pugni: da quando in qua gli avevo dato il permesso di chiamarmi Gladys cara? - Non servirà a niente nasconderti dietro una tuta sdrucita e dei capelli crespi. - Mi ricordò in maniera impressionante i modi di Chantal Allock, ed ipotizzai che la frase l'avesse presa pari pari da lei. Non era umanamente possibile che un bambino di nove anni si preoccupasse altrimenti della cura dei capelli crespi e conoscesse parole come 'sdrucita'. - Anche se è il tuo vero carattere... il mondo non capisce. -

Ecco, lì rividi in lui un bambino di poco più grande di me. L'ultima frase era sconnessa ed insensata, e l'intonazione che le aveva dato mi ricordava il pathos ridicolo di una recita di fine anno. Lo guardai a lungo con aria interrogativa, aspettandomi che aggiungesse qualcos'altro, ma sembrava più che mai deciso a concludere lì il nostro breve dialogo. Mi dette un bacio sulla guancia, che provai a scartavetrare con frequenti e decise carezze, e che più tardi tentai di disinfettare a dovere con acqua e sapone.

- Au revoir, ma chérie. - Si congedò con questa breve frase, che mi lasciò perplessa ed indignata sull'uscio di casa. Almeno, che parlasse in modo comprensibile! Ma forse, l'aveva fatto apposta a parlarmi in una lingua che non conoscevo: dopotutto, per qualche strano motivo, il mondo non mi capiva. Non vedevo perché io avrei dovuto capire lui.

Fu con quest'assurda consapevolezza, che gli sbattei la porta in faccia.

Da quel giorno, Gilderoy Allock divenne il mio migliore amico.



***

Mi resi conto di non essere più in grado di sostenere lo sguardo di Gilderoy Allock l'estate precedente al mio primo anno di scuola, quando Non-ti-scordar-di-me scese dall'Hogwarts Express più alto, più smilzo, e con una voce più profonda di quella che aveva usato mille volte per dirmi che ero irrimediabilmente sciatta.

Fummo io e Madame Allock ad accoglierlo al Binario Nove e Tre Quarti, e di quel giorno ricordo che Chantal si portò una mano alla bocca, meravigliata dal piccolo grande Oscar che era sceso dal treno, e che io arrossii in modo imbarazzante, fino ad omologarmi al colore della camicia di raso rosso che mia madre aveva insistito per comprarmi e vedermi addosso, perché con quella sembravo una vera e propria Mademoiselle. In realtà, era da tempo che non facevo più le bizze quando si trattava di rendermi abbastanza presentabile: permettevo sempre più spesso a mia madre di acconciarmi i capelli in morbidi boccoli mori, e cedevo quasi volentieri alla sua fissazione per le gonne, trasformandomi finalmente nel profumato gladiolo che aveva sempre sognato. Quello che non le ho mai detto, e che mai le dirò, è che lo facevo solo ed esclusivamente per lui. Avevo solo undici anni, ma data la fila di ammiratrici che si allungava sempre di più - e che Gilderoy non si premurava certo di sfoltire – pronta a bussare alla porta del mio amico, avevo già deciso che sarei stata io ad impormi su tutte le altre, perché io e Non-ti-scordar-di-me eravamo chiaramente fatti l'uno per l'altra.

Purtroppo per me, non avevo fatto i conti con un'intera serra. Gilderoy intratteneva rapporti epistolari con una certa Violet, una certa Pansy, una certa Daisy, e perfino una certa Daffodil di due anni più grande di lui, e, a quanto pare, la più agguerrita tra le sue pretendenti. Gilderoy mi confessò più volte che quella giunchiglia gli faceva quasi paura, tanto gli stava addosso, ma che non era certo disposto a lasciarsela scappare, perché era pur sempre una fan in più. Fu proprio in quell'estate che mi resi conto di quanto si fosse innamorato di se stesso, e di quanto gli insegnamenti di Basil Hallward avessero trovato terreno fertile nella sua persona. Nove mesi prima era partito un damerino per Hogwarts, ora ne tornava un dandy, che, dovunque andasse, affascinava il mondo*. E a me, che ero la sua migliore amica, toccava ascoltare tutti i suoi vaneggiamenti, e mai una volta che tentai di farlo smettere. Amavo sentirlo parlare, anche se tutto quello che usciva dalla sua bocca accresceva la mia gelosia di bambina cotta a puntino per lui, amavo osservare le sue fossette che fremevano mentre muoveva le labbra, amavo specchiarmi nelle sue iridi chiare che, quell'estate, sembravano in qualche modo felici di vedermi finalmente vestita da donna.

Rimasi però delusa quando Gilderoy si rifiutò di giocare con me. Non ci furono partite di SparaSchiocco, o di Scacchi Magici, e nemmeno una misera sfida alle Babbanissime Carte. Quando Gilderoy non doveva fare i compiti, era impegnato a scrivere lettere per le sue amiche, quando non doveva scrivere lettere, preferiva rifugiarsi a Diagon Alley, dove negozi di abiti ed accessori lo tenevano occupato per giornate intere, e quando non era neanche a Diagon Alley... si chiudeva in camera, e non mi permetteva neppure di entrare. Un giorno riuscii a sbirciare cosa faceva in quei pomeriggi di reclusione: scriveva, ma niente che avesse a vedere con le lettere per i suoi fiori. Scriveva con una lunga e variopinta piuma di pavone qualcosa che assomigliava vagamente ad un diario. Non appena scoprì che lo stavo spiando da dietro l'uscio socchiuso, mi sbatté fuori di casa e non mi parlò per una settimana.

Sette giorni dopo, bussò alla mia porta. In mano, i cioccolatini alla nocciola per cui andavo matta. Se fosse stato possibile farmi innamorare ancora più di lui, aveva appena trovato il modo per riuscirci.

- Mi dirai mai cosa stavi scrivendo? - gli chiesi dopo qualche giorno.

- No – rispose seccamente, ed in quel momento mi sentii una delle sue tante fans. Io che per lui avevo iniziato a concepire l'esistenza del pettine, io che per lui avevo imparato qualche parola di francese, non mi sarei fatta trattare a pesci in faccia da quello pseudo Dorian Gray. Gli voltai le spalle, cominciando a marciare verso casa. Possibile che non capisse? Certo, io ero più piccola, ma... ero pur sempre la sua migliore amica innamorata di lui, un po' di rispetto!

- Gladys, non fare così! - mi urlò dietro con il suo solito tono di voce che, chissà come, mi ricordava sempre un tripudio di arpe e violini. Non lo feci esattamente apposta, ma le mie membra si irrigidirono all'istante, obbligandomi a fermarmi. Se il mio corpo infingardo era disposto a tradirmi così malamente, altrettanto non poteva fare la mia lingua, che non riuscivo a tenere al suo posto sin dalla tenera età.

- Che cosa vuoi? - sbraitai, guardandolo di traverso.

Non doveva essere più abituato a sentirsi rispondere male; in effetti, credo di essere stata l'unica in tutta la sua vita ad offenderlo in ogni modo possibile quando eravamo entrambi bambini. Chantal Allock non aveva mai dovuto urlare una sola volta all'indirizzo del figlio, tanto lui la venerava da non riuscire a farle neppure un minimo torto, per non parlare dei Professori a scuola. A quanto ne sapevo, si faceva benvolere dagli uomini applicandosi nelle loro materie e mostrando sempre un comportamento ineccepibile, mentre si faceva adorare dalle donne cominciando ad adularle alla prima ora, per finire all'ora di cena, in Sala Grande, dove era l'unico a profondersi in tante moine e gentilezze, da non negare il saluto neppure ad Argus Gazza.

- Niente – mi rispose scocciato, passandosi la mano tra i capelli dorati. In quel preciso momento mi ricordò François Lefevbre, Cercatore della Nazionale Canadese, che in camera mia ammiccava da ogni angolo. Avevo attaccato poster ovunque - nell'armadio, sul comò, sulle pareti – tanto che mio padre ormai si rifiutava di mettere piede nella mia stanza, che reputava degna di una traditrice della patria.

- Il tuo comportamento, comunque, non fa che confermare la mia tesi – sentenziò gonfiando il petto, e modulando il tono della voce, che rese boriosa e stentorea. - Non vi è alcuna ragione per cui un uomo debba mostrare la sua vita al mondo. Il mondo non capisce. -

Mi lasciò lì, in mezzo al vialetto, con un'espressione da pesce lesso sul volto ed il cuore che batteva all'impazzata. Non avevo più ripensato alle parole che mi aveva rivolto quattro anni prima, ma in quel pomeriggio d'agosto riesplosero nei miei ricordi con tutta la loro forza. Tornai con la mente al piccolo insopportabile Gilderoy, analizzai di nuovo quelle poche frasi che mi aveva rivolto prima che lo spedissi fuori di casa... ed arrivai alla conclusione più dolce. Al di là del fatto che avevamo litigato, che ero arrabbiata con lui, e che non ci saremmo parlati minimo per un'altra settimana, era piuttosto chiaro che io e Gilderoy avevamo qualcosa in comune: entrambi eravamo stranamente incompresi dal mondo che ci circondava. E da che mondo è mondo, avere qualcosa in comune era sempre stato considerato il primo passo per una duratura e felice vita insieme.

Quella notte mi addormentai con il sorriso sulle labbra, più che certa dell'armistizio che io e Gilderoy avremmo stipulato il giorno successivo. Dopotutto sapevo come prenderlo, bastavano un paio di complimenti, e Non-ti-scordar-di-me si scioglieva come una Cioccorana al sole. Rivolsi un ultimo sguardo ad uno dei ventisette Lefevbre appesi al muro, sospirando emozionata. Poi, gli occhi di Gilderoy si sovrapposero ai suoi, e le sue vesti lavanda e blu oltremare presero il posto della divisa bianca e rossa del Canada, ed un biondo Morfeo prese a cullarmi tra le sue soavi braccia.



***

Nei miei primi cinque anni ad Hogwarts, fui testimone del successo inarrestabile di Gilderoy Allock. Riusciva a dispensare consigli sul vestire sia ai ragazzi che alle ragazze, aveva fondato una decina di Club diversi che avevano come temi principali l'essere alla moda ed il seguire il galateo, e soprattutto, faceva incetta di cuori semplicemente schioccando le dita.

Si allontanava sempre più da me, senza che avessi la forza di affrontarlo e di chiedergli il perché mi faceva tutto questo. Mi era chiaro: Hogwarts era ormai il suo Regno, e una matricola come me non era nient'altro che un numero sulla pergamena che sanciva l'appartenenza al suo fan-club. Certe volte avevo il sospetto che non mi salutasse di proposito, che si vergognasse di me, perché ero più piccola e meno carina di molte altre ragazze, ma questo non faceva che accrescere la mia ossessione per lui: quella che era nata come un'innocente cotta, si trasformava anno dopo anno in un amore malato e unidirezionale. Non sopportavo di dover spartire il mio migliore amico con tutti quegli studenti, e soprattutto odiavo l'essere trattata come una nullità: il mio primo giorno del primo anno l'avevo trascorso vantandomi di essere amica di Gilderoy, aspettando che venisse a salutarmi o che almeno mi rivolgesse un cenno della mano dal suo tavolo di Corvonero, ed invece, Non-ti-scordar-di-me non mi aveva guardato neppure di striscio, e le mie nuove compagne Tassorosso sghignazzavano, prendendomi in giro.

Fino al mio quarto anno, mi ostinai ad inseguire l'illusione di ricostruire con lui quel rapporto che vagheggiavo sin da bambina, ma all'inizio del quinto, decisi di catturare la sua attenzione nell'unico modo che concepiva, e che aveva sempre sortito il suo effetto. L'avrei riempito di complimenti.

Il primo ottobre, io, Gladys Gudgeon, ottenni la presidenza del fan-club, candidandomi a quel ruolo e truccando le elezioni indette per sostituire degnamente l'ormai diplomata Penelope Knightsbridge. Se non potevo essere la padrona di casa, sarei stata volentieri la prima delle sguattere.

Organizzavo incontri, uscite ad Hogsmeade, gruppi di studio, qualunque cosa mi permettesse di affiancarlo anche per un'ora alla settimana, un'ora che durava il tempo di un respiro, ma che per me era come un'infinita boccata d'aria, grazie alla sua presenza inebriante e totalizzante. Cominciai a spedirgli messaggi in Dormitorio, con i pretesti più disparati: fingevo di aver bisogno del suo aiuto per decidere come sistemarmi i capelli la mattina, oppure insistevo affinché mi desse ripetizioni di Incantesimi trattenendosi dopo la fine di qualche lezione – e spesso dovevo percorrere di corsa scalinate su scalinate per non ritardare, visto che avevamo orari differenti -, o addirittura mi limitavo semplicemente a dargli il buongiorno o la buonanotte, o ancora a riempirlo di apprezzamenti sulla sua persona e sul suo stile. Mi feci spedire da casa tutte le opere di Wilde che avevamo, dato che nella Biblioteca della Scuola era impossibile trovarle, in quanto Babbane, e cominciai a leggerle in ogni ritaglio di tempo libero, che purtroppo era sempre più scarso a causa dell'appressarsi dei temutissimi G.U.F.O. di fine anno.

Ogni occasione era buona per sorprendere Gilderoy con le mie erudite citazioni, e mi scioglievo quando mi rivolgeva uno dei suoi bianchissimi sorrisi, capaci di farmi dimenticare anche il mio stesso nome. Come sospettavo, Il Ritratto di Dorian Gray era il suo libro preferito, ma non disdegnava neppure ascoltare citazioni estratte dalle opere teatrali, o anche qualcuna ricavata dalle poesie. Per quanto, però, mi sforzassi di cercare l'aforisma che mi aveva già ripetuto due volte, quello sul nostro infausto destino di essere sempre incompresi, non riuscivo a trovarlo da nessuna parte. Mi rifiutavo di pensare che non fosse opera di Wilde – in effetti non credevo che Gilderoy, senza considerare i testi scolastici, avesse mai letto altri autori – e mi arresi all'idea di non poterlo stupire con una citazione tratta dallo stesso libro.

Verso marzo del mio quinto anno, mi illusi di aver recuperato la bella amicizia che ci legava: ci vedevamo sempre più spesso grazie alle attività del fan-club, ed ero sempre in prima linea per l'allestimento dell'immensa festa di fine anno che aveva deciso di organizzare per salutare per sempre Hogwarts. Ci dava man forte lo stesso Professor Lumacorno, più che convinto che Gilderoy sarebbe diventato una celebrità: ovviamente non prese mai in considerazione la possibilità di ammettermi al suo Lumaclub, ma non me ne preoccupai, dopotutto ero stata io a decidere di vivere per sempre all'ombra di Non-ti-scordar-di-me.

Non mi resi conto di aver dedicato troppo tempo al mio ruolo di organizzatrice, fino alla settimana precedente ai G.U.F.O., quando una crisi nervosa di prim'ordine mi rese incapace di rispondere civilmente a chiunque mi si avvicinasse. Neanche Gilderoy, alle prese con i M.A.G.O., ebbe il coraggio di disturbarmi, ma ogni sera mi spediva in Dormitorio una piccola pergamena in cui mi augurava la buonanotte e mi invitava a tenere duro, e in ognuna di queste, c'era sempre una firma diversa. Mi divertiva quella particolarità, anche se non sapevo a cosa fosse dovuta.

Le due settimane degli esami volarono via in un battibaleno, sapevo di non aver fatto un granché, ma non mi importava: il principale motivo della mia ansia era soltanto uno, la festa. Quando, dopo essermi vestita, mi riguardai per la ventiquattresima volta allo specchio, pensai che a mia madre sarebbero venuti gli occhi lucidi, se mi avesse vista con quel grazioso vestito azzurro. Certo, non mi avrebbe riservato gli stessi occhioni di diamante che rivolgeva al piccolo Allock, ma si sarebbe sicuramente emozionata nel vedere il suo gladiolo così finemente agghindato. Mi ero addirittura messa un paio di scarpe con i tacchi, un tipo di calzatura che Rose Wilkinson mi aveva sempre raccomandato, in quanto per lei rappresentava l'ideale di trionfo della femminilità, ma me ne pentii amaramente molto presto. Corsi a cercare Amelia Brown, la migliore del nostro anno, pregandola di scovare nei meandri della sua mente un incantesimo per rendere quelle décolletées lievemente vivibili, ma mi rispose che non avrebbe fatto niente per la presidentessa di un fan-club che lei aborriva ancor più di un Accettabile in qualche materia. La odiai con tutta me stessa, senza riuscire a capire perché mai non fosse innamorata di Gilderoy, come tutte, ma mi risposi che una secchiona come lei non poteva aver tempo per l'amore. Non sapevo quanto mi sbagliavo.

Fui la prima ad arrivare nell'Ufficio di Lumacorno, magicamente ingrandito fino a poter contenere un centinaio di persone. Gli elfi domestici avevano già sistemato la sala, disponendo qua e là tavoli rotondi già stracolmi di vassoi argentati contenenti gli antipasti. Mi venne fame solo a guardarli, ma mi ripetei un'infinità di volte il primo comandamento di Rose: “Mai e poi mai essere i primi ad attaccare il buffet.” La vocina sovversiva che parlava nel mio cervello sosteneva anche che, non essendoci nessuno, oltre a me, in quell'Ufficio, il mio furto poteva benissimo passare inosservato: venne però, purtroppo per il mio apparato digerente, messa a tacere da un altro vocione - credo appartenesse alla mia Coscienza – che mi presentava assurdi scenari in cui io, con la bocca impastata da tartine e pasticci, venivo colta in flagrante da Gilderoy in persona che mi sgridava per la mia maleducazione, mi toglieva la presidenza del fan-club, e mi ripudiava come amica e come ammiratrice. Inutile specificare che la mia Coscienza vinse quel tacito duello, lasciando il mio stomaco a gorgogliare e la mia forza di volontà a pavoneggiarsi per la sua strenua resistenza alle tentazioni.

- Gladys cara! -

Sobbalzai, mentre sentivo la lucidità allontanarsi sempre più da me. Io e Gilderoy eravamo nella stessa stanza, da soli, e mi aveva appena chiamato Gladys cara: c'erano tutti gli estremi per una fantasia adolescenziale in piena regola.

- Gilderoy! Ti piace? - chiesi con voce suadente, alludendo all'Ufficio.

- Hai fatto un bellissimo lavoro, mia cara. Sapevo di potermi fidare di te – mi rispose con un sorriso a non so quanti denti, tanto era il biancore sprigionato dalla sua bocca.

- Gilderoy... grazie per i tuoi incoraggiamenti cartacei – sussurrai arrossendo, mentre tiravo fuori da una borsetta le sue pergamene, perfettamente conservate.

- Oh, figurati! Non potevo lasciare le mie fan in balia dell'ansia e della disperazione, non credi? -

Mentre il sorriso più largo di tutti mi rivelava addirittura la perfezione dei suoi denti del giudizio, il mondo pensò bene di crollarmi addosso. - Le tue fan?- sibilai, trattenendo un singhiozzo.

Mi guardò interrogativo, come se avessi detto qualcosa di strano. - Beh, sì... -

- Erano autografi, le tue firme tutte diverse? - Chiusi gli occhi, invocando una pazienza che avevo smarrito già da qualche minuto.

- Sì, mia cara! A proposito, quale ti è piaciuto di più? Sono indeciso tra quello di martedì e quello di giovedì, ero giusto determinato a fare un piccolo sondaggio questa sera... - sussurrò pensieroso, grattandosi la testa.

Gli tirai in faccia tutti i suoi stupidissimi biglietti, mi tolsi quelle dannatissime scarpe, e cominciai a correre verso il Dormitorio. Dovevo togliermelo dalla testa, era solo un idiota, vanesio, cascamorto... - Gladys cara – mormorò con dolcezza.

Era... adorabile. Mi fermai, per l'ennesima volta, ipnotizzata da quel timbro di voce così obnubilante per i miei sensi. - Sì? - domandai con voce strozzata.

- Ti ricordi quando ti arrabbiasti perché non volevo dirti cosa scrivevo? -

- Sì – balbettai. Non ero una nullità per lui, se si ricordava queste particolarità, magari ci teneva a me, almeno un decimo di quanto io tenevo a lui...

- Era un libro, vorrei cercare un editore disposto a pubblicarlo appena uscito da Hogwarts. Pensavo di dedicartelo. -

Se non svenni, fu solo perché non volevo perdermi assolutamente neanche un millisecondo di quel momento. - A me? -

Gilderoy annuì. - Pensavo di riportare la nostra citazione preferita, e di scrivere sotto 'A Gladys.' Che ne pensi? -

- Sarebbe meraviglioso. - Sorrisi. - Come si intitolerà? -

- Il mondo non capisce, è ovvio. Su, vieni, rimettiti quelle graziose scarpe e seguimi dentro. -

Mi porse il braccio, e non capii più nulla.

Non pensai neanche per un istante che avesse tentato quell'escamotage solo perché sarebbe stato indecoroso troncare i rapporti con la presidentessa del fan-club proprio prima di una festa che l'avrebbe consacrato al titolo di studente più amato di tutti i tempi. Non mi chiesi neppure perché mai Gilderoy, non appena diplomato, sparì dal nostro quartiere, senza lasciare alcuna traccia, men che meno il suo 'Il mondo non capisce', con annessa dedica alla sottoscritta. Non volli mai sentirmi usata, fingendo di essere pienamente ripagata dal ricordo della soffice seta non-ti-scordar-di-me della manica che aveva sfiorato il mio braccio l'ultima sera che passai insieme a lui, ad Hogwarts. Il mio ricordo di un Gilderoy in carne ed ossa rimase quello della Scuola: da quel giorno in poi, l'idealizzazione della sua persona fu l'unica sua versione che volli considerare autentica.

Continuai la mia attività di presidentessa del fan-club, stimolando le mie 'seguaci' ad inviare Gufi su Gufi a Gilderoy, ovunque egli fosse: gli anni della Prima Guerra Magica li trascorsi in un limbo di incoscienza, troppo occupata a vivere del suo ricordo per rendermi conto che Voi-sapete-chi era più vicino di quanto pensassi. Qualche fan non avrebbe mai più scritto a Gilderoy, e nemmeno riuscivo a rendermi conto di quanto fosse stupido appigliarsi a degli occhi cerulei per dimenticare quelli iniettati di sangue di Colui che minava la stabilità del mondo intero.

Continuai a scrivergli per nove lunghi anni, vedendo ogni volta i miei Gufi tornare indietro: credo di essere stata l'unica a dimostrare quella costanza nel tempo, e l'unica a non arrendermi mai all'idea che fosse... che non ci fosse più. Dopotutto i suoi viaggi l'avevano portato lontano, poteva essere benissimo scampato alla Guerra, ma... ciò non spiegava perché in quel decennio di pace non si fosse più fatto vivo. Gli Allock si erano trasferiti, non sapevo più a chi chiedere sue notizie... ma ci pensò lui a darmele, ed in un modo che reputai a dir poco perfetto.

Si avvicinava il Natale del 1989, e Diagon Alley era addobbata a festa, mentre gente d'ogni tipo scalpitava per accaparrarsi gli ultimi acquisti. Mi trovavo di fronte al Ghirigoro, e decisi di entrare per regalare un buon libro a mia madre, che da quando Chantal se ne era andata, non sapeva più come trascorrere il tempo libero e divorava pagine su pagine. La mia attenzione fu catturata subito da un volto sorridente, incorniciato da un'aureola dorata, che ammiccava al centro di una copertina azzurra cielo.

Gilderoy Allock aveva pubblicato In vacanza con le streghe.

Lo sfogliai febbrilmente, ma della dedica nei miei confronti non c'era traccia. Ma bastò un occhiolino della sua immagine in copertina, a farmi dimenticare la delusione: Gilderoy era vivo, era ancora più bello, ed era un eroe. Mi dimenticai del libro per mia madre, pagai in fretta e furia quello, e mi Smaterializzai a casa. Lo lessi in due ore, e, dopo averlo fatto, inviai un Gufo a Gilderoy.

Quella lettera fu la prima delle circa millecinquecento che gli inviai nei quattro anni successivi.



***

Vengo a trovare Gilderoy una volta a settimana, da quando ho scoperto cosa gli è accaduto sette anni fa.

A partire dal giugno del 1993, ogni Gufo che inviavo ad Hogwarts od al nuovo recapito domestico dell'ex-insegnante tornava indietro con la solita lettera spedita da me nel becco. Avevo scritto perfino a Silente, per scoprire cosa gli fosse successo, ma aveva parlato di un semplice incidente, facendomi implicitamente capire che l'avrei trovato al San Mungo. Ero venuta infinite volte in Ospedale, quindi, ma all'accettazione fingevano di non avere nessun Gilderoy Allock tra i ricoverati, e, soprattutto, ripetevano che solo i parenti ed altri Guaritori erano ammessi come visitatori, come se una donna che aveva dedicato più di trentacinque anni della sua vita a lui e solamente a lui non gli fosse più affezionata che un suo stesso consanguineo.

C'era un solo rimedio per questo: diventare Guaritrice. L'ultimo sacrificio di una donna folle ed innamorata sarebbe stata la rinuncia ad ogni aspirazione: mi costrinsi ad apprezzare l'arte del far bene agli altri, rinunciando per sempre alla carriera alla Gringott che avevo sempre sognato ed anche intrapreso, sebbene come semplice impiegata.

Lo vidi per la prima volta quando ero ancora una tirocinante: sorrideva, scarabocchiando su dei foglietti colorati, l'aria persa e smarrita, la serenità dipinta sul suo volto. Ma non era più Gilderoy. Mi spiegarono che era stato colpito da un potente Oblivion, e che aveva dunque perso ogni ricordo, sprofondando nella follia più pura: mentalmente alternava una mentalità da bambino a dei comportamenti che aveva sviluppato nel corso dell'età adulta, come lo spazzolarsi continuamente i capelli biondi ed il firmare autografi a chiunque gli si avvicinasse. Mi guardò, mentre prendevo appunti.

- Cara, anche tu firmi autografi? - Notai che gli brillavano gli occhi.

- Sì, Gilderoy, guarda. - Voltai il mio blocco verso di lui, ed il suo sorriso si fece più largo.

La Guaritrice Capo decise che avevamo già visto abbastanza, su al Quarto Piano, e ci invitò a seguirla fuori da quella stanza. Mentre nessuno guardava, estrassi un piccolo fiore dalla tasca del mio camice e lo posai sul comodino.

Quando tornai lì di nascosto, tre giorni dopo, il non-ti-scordar-di-me era ancora lì sopra, tra un vecchio portafoto ed una piuma, ancora fresco grazie al particolare incantesimo con cui l'avevo stregato. Non appena mi vide, lo afferrò, accostandoselo al viso e sfoggiando contemporaneamente la sua brillante ed ancora curata dentatura. Lo baciai dolcemente sulla guancia, prima di tornare a mescolarmi con gli altri tirocinanti.

Qualche mese dopo venni assunta, ed assegnata al terzo piano. Avevo chiesto espressamente di non lavorare al quarto, per non essere ancora troppo dipendente da lui: il mio lavoro cominciava a piacermi, e non volevo distrazioni a minare un ruolo così impegnativo. Volevo vivere, allontanandomi da quell'amore che minava ancora così tanto la mia psiche. Inutile specificare che non avevo mai trovato – ed in verità nemmeno cercato - alcun fidanzato, ritrovandomi zitella e non più giovane, costretta a riversare il mio spirito materno nei confronti dei miei nipotini, figli di mio fratello Ernest. Mia madre scuoteva sempre la testa, ogni volta che ci ritrovavamo per qualche ricorrenza o festività: si era ormai arresa all'idea che non mi avrebbe mai visto accasata e felice, ed ormai non mi preoccupavo neanche più di offrirle qualche speranza.

Speranze di ripresa me le offriva invece Gilderoy, ogni mercoledì alle sei, quando il mio turno terminava e giungeva l'agognato momento dell'appuntamento settimanale con il mio Allock preferito. Passavo inosservata, mescolandomi tra gli altri Guaritori, parlavo con lui, ascoltando ciò che aveva da dirmi su quella strana ammiratrice che gli mandava una lettera tutte le settimane, e, dopo un'ora esatta, me ne andavo in silenzio, nascostamente felice di averlo avuto tutto per me.

Anche oggi, 17 maggio 2000, sono qui, seduta vicino al suo letto, mentre fingo di consultare la sua cartella clinica. C'è dolcezza nei suoi gesti, anche mentre si pavoneggia e rimira il suo volto specchiandosi in un cucchiaino, c'è tenerezza nelle sue parole, mentre sproloquia riguardo al ricciolo fiorito con cui ha decorato la 'G' nella sua firma.

- Gladys cara, guarda come sono bello. -

Vorrei rispondergli che lo so, eccome se lo so.

- Gilderoy, non sei solo bello, tu sei un eroe! -

Mi ritrovo a pensare a quanto sia strana la vita. Ho di fronte a me l'uomo che ha sconfitto Troll, Banshee, Vampiri, lo scrittore che ha narrato le sue imprese epiche facendo innamorare di sé migliaia di donne, il ragazzo che mi ha rubato il cuore per la sua avvenenza ed il suo coraggio ed adesso...

- Gladys cara, devo dirti un segreto – mi bisbiglia nell'orecchio, coprendosi le labbra con la mano.

- Dimmi, Gilderoy, lo sai che puoi dirmi tutto. -

Non sai quanto avrei voluto, che tu mi dicessi sempre tutto.

- Il Vampiro... ma anche la strega... oh sì, e anche il Troll, io... il mondo non capisce, cara. Il mondo non capisce. -

Lo guardo con occhi spalancati: sono io che non riesco proprio a capire.

- Gilderoy, piano, altrimenti non capisco – sorrido conciliante, ma preoccupata. Non ho mai visto sul suo volto quest'espressione. E' confuso, triste e forse anche... si vergogna di qualcosa.

- Non vi è alcuna ragione, no. -

Sempre quella citazione... - Non vi è alcuna ragione per cui un uomo debba mostrare la sua vita al mondo. Il mondo non capisce. Vuoi dire questo, Gilderoy? -

Piano piano annuisce, fino a scuotere la testa sempre più velocemente. - Dovevo farlo! - urla inspiegabilmente. E' disperato. - Il labbro leporino... poi l'armeno era brutto... Oblivion! -

- Chi era brutto? Chi?! -

- I libri possono portare fuori strada.** -

Mi torna in mente chi ha definito brutto: un armeno. In Armenia Gilderoy ha sconfitto dei lupi mannari, ho letto così tante volte tutti i suoi libri che adesso li so tutti a memoria. - Gladys cara, non sarebbe interessato a nessuno! - sbraita, ravvivandosi il ciuffo. - Invece, io, guarda come sono bello. Oblivion! E zac! -

Gilderoy è un impostore. E la consapevolezza mi piomba addosso con il peso di un Troll. E finalmente ho capito cosa intendeva con quella citazione: per lui, non è importante apparire come si è, ma come si piace. Non voglio crederci, lui ha mentito a tutti... e ha mentito a me. Ho creduto per tutto questo tempo in un'illusione, l'illusione che fosse la persona migliore al mondo, un uomo da amare alla follia e per il quale annullarsi. Ed invece... ha sempre finto. Mi domando se sia riuscito a fingere anche da bambino, quando per me era semplicemente un amico. Mi chiedo quanto abbia recitato ad Hogwarts, e fino a che punto si è spinto con quegli... eroi. Eroi brutti, che ha scelto di colpire per il loro aspetto fisico, perché gli eroi brutti non interessano a nessuno. Ma io, mi sono comportata tanto meglio di lui? Mi sono innamorata di lui solo perché era... bello, bellissimo, affascinante. Amelia Brown – e chissà perché penso a lei – aveva ragione.

- Gladys cara, perché piangi? -

Piango perché il mondo aveva capito benissimo, Gilderoy, ero io a non aver capito proprio niente.

Mi alzo lentamente dalla mia sedia, senza neanche salutarlo. Mi chiama, mi invita a tornare indietro, lui... lui ha bisogno di me. Ma non deve importarmi, non più. Dopotutto non era questo che volevo? Volevo che lui mi notasse, che mi considerasse sua pari, che nutrisse verso di me almeno un decimo dell'attaccamento che io avevo nei suoi confronti. Ed ora... ora lui ha bisogno della mia presenza. Presenza che non ci sarà.

Subdola, infima vendetta, raccolta contro un altro Gilderoy.

Ma non mi importa, da oggi sono una donna libera.

...Spero.



***

Registro dei Visitatori del San Mungo.

Ammessi al Quarto Piano, in data Mercoledì 24 maggio 2000, ore 18.

Averton John,

Fry William,

Gudgeon Gladys.







NdA: Nella sua consueta teatralità, Gilderoy Allock teme che il suo genio non venga compreso a dovere dal mondo che lo circonda. Fin da bambino nutre l'assurda convinzione che, per piacere al mondo, si debbano annullare istinti di ribellione e di originalità, adeguandosi a ciò che il pubblico esige, di volta in volta. Sarà con questa convinzione che si costruirà la celebrità che pretende, e sarà questa convinzione a condurlo all'oblio.

* è una citazione da Il Ritratto di Dorian Gray.

** è una citazione da Harry Potter e la Camera dei Segreti










Questa storia si è classificata seconda al contest "We are in love with a Dandy!" di Mabra; ha inoltre vinto il Premio Ghost.

Questo è il Giudizio:

Morea – Incompresi
ORIGINALITA': 10/10
ATTINENZA E COERENZA CON IL TEMA DEL CONTEST: 10/10
GRAMMATICA E LESSICO: 14/15
CARATTERIZZAZIONE DEI PERSONAGGI: 10/10
GRADIMENTO PERSONALE: 10/10
TOTALE: 54/55 

Sebbene siano dieci pagine, ho impiegato pochissimo a leggerle tutte. Hai uno stile che incuriosisce il lettore, è fresco e scorrevole. Tutte caratteristiche che riescono a rendere la lettura più che gradevole. Sono stata costretta a toglierti un punto alla grammatica semplicemente per le virgole: ne hai messe davvero troppe prima delle congiunzioni e, per quanto io non lo ritenga un errore grave, è comunque un fattore che toglie continuità a diverse frasi. Per il resto potrei non parlare dato che ti ho messo il massimo in tutto. Innanzitutto l’originalità sta sia nella scelta dei personaggi di cui parlare, che nell’idea che ha fatto nascere la storia e, soprattutto, nel far emergere il senso della citazione, proprio di un personaggio, attraverso la narrazione di un altro. Il modo in cui hai interpretato la citazione emerge continuamente dalla figura di Gilderoy e della sua mania di apparire e basta, andando così a perdere la sua essenza. Sei riuscita a mandare il messaggio in maniera sottile.
Gladys è caratterizzata benissimo e le sue parole di bambina e donna innamorata riescono a caratterizzare anche gli aspetti negativi di Gilderoy, persino quando lei stessa non li vede.
Infine, concludo col farti i miei complimenti, col dirti che sono davvero contenta di aver letto la tua storia. Spero di leggere presto altro di tuo.
Bravissima. 

Tanto amore per la Giudicia, tanto amore per chi recensirà, preferirà o ricorderà, tanto amore per tutte le mie fedeli compagne di Efp.

E, senza bisogno di dirlo, tanto ODIO per le virgole e la mia incapacità nel seminarle. xD

Fatemi sapere cosa ne pensate, mie care :)


  
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