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Autore: fri rapace    02/12/2010    10 recensioni
Remus, da quando è stato attaccato dal lupo mannaro, non può più giocare con i suoi amici. È sabato e si annoia, ma la sua mamma ha la soluzione giusta per fargli trascorrere un pomeriggio divertente.
La storia si è classificata ottava al concorso "Come madre e figlio" indetto da LyndaWeasley
(gli "altri personaggi" sono la mamma e il papà di Remus)
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Remus Lupin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Un altro genere di battesimo Con il naso incollato alla finestra che dava sulla strada, Remus era così preso da quello che avveniva là fuori da lasciarsi sfuggire la scopa a cui stava a cavalcioni.
“Che c’è, Remus?” gli domandò Silvie.
“Giocano a calcio, mamma,” sospirò, alludendo ai bambini del loro quartiere.
“E la tua scopa?” cercò di distrarlo, nascondendo il dispiacere che provava per lui dietro a un sorriso. L’aveva desiderata tanto, prima dell’orrore che gli era capitato.
John era corso a comprargliela non appena la Guaritrice del San Mungo che lo seguiva aveva affermato che ce l’avrebbe fatta: sarebbe sopravvissuto all’attacco del mostro.
“Cosa ci dovrebbe fare un lupo mannaro con una Freccia d’Argento?” aveva chiesto sottovoce un Guaritore a un collega, notandola in piedi davanti alla finestra.
John, che l’aveva posata lì in modo che il figlio potesse vederla dal suo letto, era scoppiato a piangere.
Apparentemente sordo alle lacrime del padre, alle carezze della madre e persino al dolore, Remus aveva continuato ad osservare il vuoto, lo sguardo perso.
Era stato lontano per molto, molto tempo.
Ed era tornato per caso, una mattina. La scopa era caduta a terra senza un motivo apparente e la luce al di la' del vetro a cui era appoggiata era stata libera di colpirlo dritto in viso.
“Il sole,” aveva sussurrato con una vocina roca, che non gli apparteneva.
Era tornato e Silvie non gli aveva più permesso di lasciarla.
Remus guardò in basso, tra le proprie gambe. “Oh…” mormorò stupito.
Sollevò la Freccia d’Argento e la appoggiò con cura contro la finestra, nascondendo in parte i ragazzi, il sole, la vita che continuava a scorrere lontano da lui, indifferente alla sua assenza.
“Mamma?” chiamò, dopo un lungo silenzio.
“Sì?”
“Io mi annoio…” ammise con un certo sforzo, lasciandosi cadere con il sedere per terra. “Volare con la scopa da solo non è come… ecco…” alzò le spalle, lo sguardo che gli scappava verso quei ragazzi con cui aveva giocato regolarmente fino a un anno prima.
“Ti annoi tantissimo come l’ultima volta?”
“Persino peggio!” le assicurò lui, sdraiandosi sul pavimento, la fronte premuta su una piastrella e le braccia allargate. Sorrideva, per farle capire che stava scherzando: la situazione non era grave come sembrava.
Silvie si sedette a gambe incrociate davanti a lui. Sapeva che non avrebbe mai potuto sostituire i compagni di giochi del figlio, fingere di farsi piccola sarebbe stato come imbrogliarlo e obbligarlo a scegliere tra avere una madre o un’amica. Le due cose non potevano coesistere.
Lei aveva scelto di continuare ad essere una madre e cercava di svolgere il suo compito nel migliore dei modi possibili, sforzandosi di essere obiettiva e di non viziarlo anche se sentiva il dolore del figlio sulla propria pelle. Remus meritava rispetto, non pietà camuffata da facili concessioni e moine.
“Vedo. Sei prostrato dalla noia,” osservò seria.
“Vero?”
“Sì. E cosa vorresti fare?”
Remus aggrottò la fronte ancora incollata alla piastrella, tradendo una certa ansia.
“Se fosse tipo giocare a calcio, andrebbe bene?” si decise a chiedere alla fine, parlando in fretta come velocemente ci si libera di un cerotto, per sentire meno dolore.
Silvie gli accarezzò la schiena, chiedendosi se si sarebbe mai abituata alla sua magrezza.
Poteva sentire le vertebre del suo bambino contro il palmo della mano, tutte in fila sotto la maglietta come biglie sulla spiaggia, in attesa di essere messe in gioco.
Anche Remus aspettava di poter giocare di nuovo.
“Io non sono molto portata per quello sport, dopo due lanci ho già il fiatone,” gli rispose.
Sapeva che intendeva dire che avrebbe voluto correre in strada con gli altri bambini, ma non ebbe cuore di vietarglielo espressamente.
Remus le fece subito un gran sorriso, vedendola triste. “Non fa niente, mamma!”
Non chiese spiegazioni, da quando era stato attaccato dal lupo mannaro aveva imparato che un dubbio spesso era meglio di una verità dolorosa.
I genitori dei ragazzi del quartiere avevano vietato ai figli di frequentarlo da che erano iniziati i problemi a scuola, a causa dei quali erano stati costretti a impedire a Remus di continuare a frequentarla.
John ora era per tutti un padre violento, colpevole delle ferite del figlio, e Remus un bambino da evitare, perché era opinione diffusa che il frutto non cadeva mai troppo lontano dall’albero.
Un’idea la colpì all’improvviso. Tornando dalla spesa, aveva notato dei volantini incollati sui pali della luce, con una proposta interessante su come far trascorrere un sabato pomeriggio divertente a un bambino annoiato, e a una ragionevole distanza dal luogo dove viveva.
“Che ne dici di un battesimo?”
“Vuoi annaffiarmi la testa? Ma non è una cosa da neonati che io ho già fatto?” indagò Remus, perplesso.
“Questo è un altro genere di battesimo, una cosa avventurosa!” lo allettò lei.
Conosceva bene i suoi punti deboli, la sua passione erano le Creature Magiche e considerava l’acquario dove infilava le più piccole per studiarle il bene più prezioso che possedeva.
Anche la scopa che aveva ottenuto in regalo come goffa richiesta di perdono, prima dell’attacco aveva avuto in progetto di usarla per seguire da vicino le migrazioni degli Augurey.
“Oh! Dici avventurosa?” Remus saltò in piedi, estasiato. “E ci saranno delle Creature Magiche rintanate dappertutto e io le troverò, e poi…”
“Ehi, frena, frena!” rise Silvie, godendosi la sua gioia. Aveva dell’incredibile che ne conservasse ancora tanta, dentro quel povero corpicino. “Ci saranno delle creature, ma…”

***

Silvie era riuscita a convincere anche il marito a unirsi a loro. Li seguiva un po’ in disparte, senza riuscire a nascondere il nervosismo.
“Silvie, io non so come comportarmi con i Babbani…” le confessò tormentato, quando il parco dove si stavano recando iniziò a riempire il loro orizzonte. “E se… e se offendessi qualcuno e lui se la prendesse con…” guardò Remus, che faceva la spola tra i genitori e la loro meta, correndo avanti e indietro dando sfogo un’energia insospettabile.
Il rimando a quello che era capitato con il lupo mannaro che aveva insultato, condannando il loro bambino era palese. John si aspettava che quello che aveva involontariamente provocato dovesse succedere di nuovo, e ancora, ancora… non si dava mai pace.
“Con me ti sei sempre comportato piuttosto bene,” scherzò lei, pensando che un po’ di sano umorismo poteva solo fargli bene. Inutile ripetergli per l’ennesima volta che immaginarsi colpevole di altri mille sbagli analoghi non solo non avrebbe guarito Remus, ma avrebbe finito sicuramente con il fare ammalare anche lui. “Anzi, posso persino sbilanciarmi affermando che hai delle ottime maniere!”
Lui mugugnò qualcosa sul fatto che lei non era una vera Babbana, ma una strega Nata Babbana e chinò il capo, inghiottito nuovamente dalla paura di far pagare i suoi sbagli a chi amava di più al mondo.
Il maneggio di Blackpool si trovava a nord del parco della città, e dal grande recinto contro cui si stavano accalcando un nutrito gruppo di ragazzini, si vedeva il mare.
Remus frenò tanto bruscamente da finire a quattro zampe, quando vide la piccola folla e quello che si muoveva all’interno dello steccato.
Studiò rapito la situazione, la curiosità che gli si leggeva in viso sostituita da un’aria colpevole mentre raggiungeva Silvie e John piano piano.
“Mamma?” chiamò senza guardare il padre, con vergogna.
“Sì, piccolo?”
Lui abbassò la voce, fissandosi i piedi. “Posso dirti una cosa in privato?”
Guardò di nascosto il papà, la paura di averlo offeso con la sua richiesta gli aveva tinto le orecchie di rosso.
John fece un passo indietro. “Non c’è bisogno che vi allontanate, per parlare,” disse bruscamente, controllando la zona attorno a loro. “Io… vado là.”
Indicò un punto piuttosto isolato dove il terreno curvava in una gobba pelata, da dove avrebbe potuto controllare chiaramente tutto il maneggio e allo stesso tempo tenersi alla larga dal figlio, evitando di danneggiarlo, anche per sbaglio.
“John, molla la bacchetta,” gli sussurrò Silvie prima di lasciarlo andare. Vedeva che la stava stringendo nella tasca della giacca. “Non siamo in guerra.”
“Remus ha sempre una guerra in corpo e la combatte da solo a ogni luna piena. Permettimi di proteggerlo almeno quando la luna non ce lo porta via.”
“Io sto bene!” gli urlò Remus, mentre lui si allontanava, curvo e triste.
Sembrava portare sulla schiena ben più dei suoi ventotto anni.
“Mamma, l’ho fatto arrabbiare? Io non volevo!” la supplicò il suo bambino. “Forse io non posso fare quello che fanno nel recinto, perché… lo sai cosa sono. Volevo solo dirti questo, solo a te.”
Solo a lei, perché sapeva che il padre non avrebbe preso affatto bene scoprirlo così lucidamente consapevole dei limiti che gli imponeva la sua natura. Era disarmante la facilità con la quale indovinava sempre quello che provavano le altre persone.
Silvie lo prese saldamente per le spalle, cercando di infondergli sicurezza. “So cosa sei: un bambino. E io e papà siamo d’accordo nel lasciartelo fare.”
Remus lo cercò sullo sfondo del prato, una figura lontana, così sola.
Combattuto tra il desiderio di gettarsi in quell’avventura e la paura di fargli un torto, mormorò: “Posso davvero?” L’insicurezza gli faceva tremare la voce. “Anche se… anche se…”
“Tesoro…” disse lei, sollevandolo tra le braccia e stringendolo forte a sé. Lui non protestò, anche se alcuni dei ragazzi li stavano guardando e uno, grande e grosso, lo canzonò: “Cocco di mamma! Cocco di mamma!”
Remus non rifiutava mai le sue coccole.
Tramontata la luna piena, era così martoriato che lei e John non sapevano da dove prenderlo per portarlo nel loro letto. Aveva ferite ovunque.
Silvie aveva imparato presto che non aveva importanza: a lui bastava essere preso in braccio.
“Allora adesso vado,” le disse all’orecchio, cercando maldestramente di nascondere l’impazienza che l’aveva colto sentendosi rassicurato, e lei lo posò a terra.
La salutò con la mano camminando al contrario, fino a raggiungere gli altri ragazzi.
Il loro quartiere era in tutt’altra zona della città e per fortuna nessuno di loro diede segno di riconoscerlo.
Un grande manifesto appeso alla parete delle scuderie rivolta verso di loro annunciava:
“Oggi, battesimo della sella! I nostri pony vi aspettano!”
Nel recinto, sei pony Connemara con le criniere intrecciate venivano fatti passeggiare in lungo e in largo guidati dagli allievi del maneggio, trasportando i piccoli cavalieri alla loro prima esperienza in sella.
Remus non fece a tempo a cercare di attaccare bottone con il ragazzino davanti a lui nella fila. Uno dei pony gli passò accanto e scartò bruscamente soffiando dalle narici dilatate, facendo quasi cadere la bambina dal viso tondo che aveva diligentemente portato fino a quel momento.
“Ehi, Cocco di mamma! Sei così brutto che fai spaventare persino i cavalli!” gli urlò ridendo il bullo di poco prima. E poi, rivolto alla ragazzina: “Ehi, Alice! Sei la solita impedita! Im-pe-di-ta! Im-pe-d…”
L’ultima parola gli soffocò in gola, ma Silvie non lo stava più ascoltando.
Osservava il figlio, che dopo essersi voltato verso il bulletto con stampata in viso la sua migliore espressione da piccola peste, era all’improvviso impallidito portandosi le mani sugli occhi sbarrati, indietreggiando e quasi cadendo nella foga di scappar via.
Stupita per la sua reazione, prese a rincorrerlo, trovandolo alla fine rannicchiato tra due pile di bancali vuoti. Un ragnetto chiuso tra braccia e gambe sottili come cannucce.
Si mise accanto a lui, seduta tra l’erba rada mangiata dalla sabbia della spiaggia, che invadeva parte di quel parco costruito lungo la costa del mare d’Irlanda.
“Remus, non te la devi prendere per quello che ti ha detto quel ragazzo…”
Lui si slegò dall’abbraccio dove aveva trovato rifugio, si alzò e le voltò la schiena, prendendo a calciare i bancali più in basso di una delle torri di legna.
“Piccolo…”
“Lui sapeva cosa sono,” sputò, ogni calcio una parola. “La bambina si è quasi ferita per colpa mia.”
Un lungo brivido lo scosse e il suo piede, pronto a calciare di nuovo, si fermò a mezz’aria. “Non voglio fare male a nessuno.”
“Quel ragazzo sapeva cosa sei?” gli chiese stupita. Come era possibile? Sapeva che a Blackpool viveva una famiglia di maghi Purosangue, ma indovinare la sua natura non era così semplice e quel ragazzo più che un mago sembrava un…
“No, quel Troll con i peli nel naso non sa cosa sono! Ma i pony sì.”  Diede un ultimo calcetto alla torre di legna, la schiena curva, una versione in miniatura del senso di colpa paterno. “Gli animali non magici capiscono quello che sono, l’ho scoperto durante le mie esplorazioni. Ho cercato di dirtelo, prima, ma poi… io volevo troppo provare a salire sul pony. Quando il Troll ha preso in giro me e l’altra bambina, io mi sono distratto… non ho capito subito cosa avevo fatto, ci sono arrivato solo dopo che ho…” arrossì leggermente, tirando un grosso sospiro. “Beh, ci sono arrivato dopo, che era stata colpa mia lo spavento del pony. Sono cattivo…” la voce gli scemò in un sussurro.
Silvie lo fece voltare verso di sé: ecco spiegata la sua strana reazione. Di solito prendeva sempre con spirito le prese in giro che doveva subire di continuo e rispondeva con una disinvoltura e una simpatia tutta sua.
Avrebbe dovuto capire subito che il problema era un altro.
Gli accarezzò il viso pallido e ferito, da bambino malato, e lui accolse mansuetamente la sua mano.
“Non sei cattivo, Remie, fai solo il tuo lavoro: sei un bambino. Non accollarti responsabilità più grandi di te, lascia che siamo io e il papà a preoccuparci.”
“Non so se ci riesco,” ammise lui, confessandole con un piccolo sorriso quanto desiderasse crederle e affidarsi totalmente alla madre. Non era la fiducia in lei che gli mancava, ma in se stesso.
“Non è successo nulla di grave, capito? Io andavo a cavallo da piccola – ehi! Cos’è quell’espressione? Ero un’ottima amazzone! – e ai cavalli capita di spaventarsi.”
“Non hanno paura solo dei lupi mannari?” chiese, sorpreso di non essere la causa di tutti gli spaventi di tutti gli equini dell’universo.
“Ma no… Hospentolaluce, la mia pony preferita, era convinta che i sacchetti di carta fossero delle macchine per uccidere travestite da contenitori per le patatine fritte,” rise, ricordando le scenate della sua piccola morella mezza matta. “Faceva dei salti alti un metro ogni volta che ne adocchiava uno a terra!”
Anche Remus scoppiò a ridere. Era indeciso se crederle davvero, ma di nuovo sereno: le risate erano la medicina migliore per guarire le sue preoccupazioni di bimbo.
Silvie lo prese per mano e si avviarono verso John, che non li aveva mai persi di vista, pur rimanendo in disparte.
“Cosa è successo?” domandò loro, indicando il recinto e i ragazzi.
“Niente! Niente!” si affrettò ad assicurargli Remus, con una vivacità sospetta e le guance gonfie come se stesse cercando di inghiottire una risata che l’aveva colto alla sprovvista.
Silvie seguì l’indice puntato del marito.
Al ragazzo che aveva deriso Remus sembravano essere spuntate due code pelose dal naso, una per narice.
“Remus!”
“Che c’è?” si strinse nelle spalle lui. “I peli nel naso, no? Te l’ho detto anche prima che il Troll ce li aveva!”
“Remus! Sei stato tu?” lo riprese anche John, cercando di rimanere serio ma senza molto successo.
“Mmm… forse. O magari, visto che quello ha la testa piena di pigne, due scoiattoli gli si sono infilati nelle narici per raccogliere le scorte per l’inverno.”
“Sì, pare plausibile. Sembra proprio che abbia due bestioline su per il naso,” concordò John, e per un attimo a Silvie sembrò tornato il suo John, così come era prima della disgrazia.
“Oh, sì, bella metafora, Johnny, ma…” e fissò severa Remus. “Sai che non dobbiamo mai usare la magia contro i Babbani, vero?”
Non ne aveva alcuna voglia, ma era suo dovere ricordarglielo.
“Oh, mamma, non è niente,” la rassicurò Remus, l’espressione compunta e il riso negli occhi. “Ho fatto solo il mio lavoro… questi sono i problemi professionali di essere un bambino!”
Lasciarono il parco alla chetichella, qualcuno del Ministero era di sicuro già stato allertato della magia scappata di mano a un minore e un Obliviatore era in viaggio per sistemare la situazione.
Mentre correvano via cercando di non ridere troppo, non fecero caso alla bambina dal viso tondo che era quasi caduta dal pony, sgridata da una donna con un lungo mantello per essere scappata un’altra volta per andare a giocare con i Babbani.
Al figlio di quella bambina, un giorno, Remus avrebbe insegnato un modo infallibile per sconfiggere la paura, lo stesso che la mamma aveva insegnato a lui: le risate.








La Rowling non ha mai detto qual era la città d’origine di Remus, ho scelto Blackpool perché è la città dove è nato l’attore che lo interpreta. Ottima scelta, dato che questa città possiede un grande parco costruito sulla riva del mare d’Irlanda, con annesso maneggio.
Ora, nel 1968, quando ho ambientato la mia ff, il parco sicuramente non era come è oggi, ma il maneggio c’era già di sicuro: gli inglesi vanno a cavallo come noi andiamo in bicicletta (motivo per cui l’Inghilterra, come l’Irlanda, è il sogno di chi, come me, ama l’equitazione).
Alice è la mamma di Neville. Neville, che nel primo libro dice che il prozio Algie lo aveva gettato in mare dal molo di Blackpool, per vedere se aveva poteri magici.
Così, beh, ho immaginato che sua madre fosse di lì ^^

L’Augurey è una Creatura Magica simile a un uccello. Il suo canto porta la pioggia.

Madama Bumb parla della “Freccia d’Argento” come la scopa della sua gioventù, bella come la Firebolt di Harry.

Ho scelto il nome “Silvie” per la madre di Remus perché la madre di Romolo e Remo si chiamava Rea Silvia.
Il nome del padre deriva dal secondo nome di Remus, visto che tutti i maghi/streghe ad eccezione dei figli di Harry portano per secondo nome il nome del papà (o della mamma), varrà la stessa cosa anche per lui.


ed ecco il giudizio di LyndaWeasley, che ringrazio tantissimo ^^

Ottava classificata:


Grammatica: 9.9/10
Stile e lessico: 10/10
Utilizzo dei prompt: 18/20
Caratterizzazione: 10/10
Originalità: 20/20
Giudizio personale: 4/5
Per un totale di 71.9/75 punti.

Una storiella senz’altro carina e simpatica!
Hai trattato il tema dell’infanzia di Remus in modo simpatico e piacevole, scrivendone il dolore dei genitori e contornandolo con il tema da te scelto.
Partendo dalla grammatica non ho trovato errori importanti, solamente qualche svista. Il tuo stile è piacevole alla lettura e mai mi sono annoiata.
Purtroppo ho dovuto toglierti un paio di punti nell’utilizzo dei prompt: il motivo è semplice, tu hai usufruito bene sia del parco, che della scopa e delle coccole, ma temo che il “calcio” tu lo abbia interpretato male. Infatti non si riferiva allo sport, ma ad un calcio vero e proprio, con gamba, dolore e tutto il resto!
Riguardo la caratterizzazione dei personaggi mi sono sentita in dovere di darti il massimo punteggio. Benché non si sappia nulla dei suoi genitori né di lui quand’era piccolo, a parer mio hai creato un ambiente e un’atmosfera degno di nota! Caratterizzata benissimo la madre, che personalmente l’ho sempre immaginata un po’ così (:
E ci tenevo a dirti che l’idea per l’ultima frase è davvero geniale e ben costruita.
Beh, inutile che ti commenti il punteggio massimo in originalità perché è dovuto alla tua idea brillante!






   
 
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