Capitolo
8
Un
Freddo ed Infranto Hallelujah
Anno:
2387
I lastroni di ghiaccio, accasciati
l’uno sopra l’altro, si tendevano con sforzo verso il cielo, come le rovine di
un tempio antico. Bianchi, contro il cielo terso, parevano frammenti di vetro,
aguzzi, freddi, sospinti in alto dal vento; erano le dita gelate della
Speranza, nel suo ultimo, agonizzante tentativo di raggiungere la lontana
Utopia, la cupola di cristallo che svaniva, perduta, nella nebbia.1
T’Lenna si era chiesta più volte per
quale motivo Spock le avesse regalato un quadro del genere e in quel momento il
freddo intenso che irretiva i colori del quadro le appesantiva il cuore e lo
alleggeriva al tempo stesso. Era come se il dolore che provava non fosse solo
suo, ma qualcosa di condiviso..era come sentirsi meno soli. O almeno, essere
soli in un insieme senza volto e senza voce, dove ci si poteva confortare a
vicenda senza una parola, con la propria tristezza ed il proprio tormento.
La Vulcaniana chiuse gli occhi e piegò
il capo, posandosi sulla fronte il bicchiere di Brandy Sauriano, l’ennesimo
della serata.
Forse era ubriaca, forse no, non le
interessava. Si sentiva accaldata, ma aveva freddo, voleva piangere, ma non
aveva lacrime per farlo, la realtà fuori dalla grande finestra picchiava forte
per entrare, ma lei non voleva darle ascolto.
Raccolse le ginocchia al petto e prese
il bicchiere con entrambe le mani, facendone oscillare il contenuto e deglutendo
a vuoto, sperando di sciogliere quel maledetto nodo che le serrava la gola.
C’erano tante cose che voleva fare in
quel momento: urlare, piangere, ubriacarsi, gridare fino a sentire la voce
rompersi, ringhiare, spaccare un vetro, rompere i piatti contro il muro, prendere
il muro a pugni fino a quando il suo candore non fosse stato violato dal verde
acido del sangue, strapparsi i capelli, cantare fino a farsi male, cantare fino
a quando non avesse potuto percepire l’anima di Spock accanto a sé e guidarlo
verso la sua vita futura.
Voleva fare molte cose, ma avrebbe
significato alzarsi dal divano e distogliere lo sguardo dal quadro, immergersi
in quel mare di dolore da cui stava fuggendo da troppe ore.
Che il silenzio e l’apatia la
inghiottissero pure, in quel momento non se la sentiva di affrontare niente e
nessuno.
-Lasciatemi in pace- sussurrò, ma la
sua preghiera non venne esaudita.
Nella stanza saettò il ronzio che
annunciava l’immissione del codice di accesso e tempo qualche istante le porte
si stavano già aprendo, scorrendo sui propri cardini.
T’Lenna non alzò neppure il viso.
-In questa casi le persone nelle mie
condizioni vengono lasciate sole- gracchiò, storcendo le labbra in un ghigno
derisorio.
-Si da il caso che non ne abbia
intenzione-
-Sei un idiota, Berz’uk-
Uno sbuffo e finalmente la Vulcaniana
si girò a guardare l’altro.
-Ne vuoi parlare?- le chiese il mezzo
Klingon, osservando con occhio critico la bottiglia oramai di finita di Brandy
Sauriano posta sul tavolino in fronte al divano e quella ancora chiusa di Birra
Romulana.
-Sai che quella roba è illegale,
vero?-
-Credi me ne importi qualcosa?- lo
sbeffeggiò la donna, bevendo d’un fiato quel poco di liquore che le era rimasto
nel bicchiere.
Il mezzo Klingon non disse niente e si
alzò da accanto a T’Lenna, che lo fissò portare via sia il Brandy che la Birra.
-Ehi, quelle mi servono!- piagnucolò
tendendo le braccia verso di lui -Ridammele-
-Non credo proprio- commentò secco
Berz’uk, tornando a sedersi e cercando di portar via il bicchiere alla Vulcaniana.
-Lasciami!- soffiò lei, allontanandosi
con uno scatto felino e socchiudendo gli occhi scuri –Vattene-
L’altro si alzò e la raggiunse con
passi lenti; come una belva messa all’angolo, la donna incassò la testa nelle
spalle e mostrò i denti affilati, le dita talmente strette attorno al vetro del
bicchiere da avere le nocche bianche.
-Vattene via!- ringhiò –Vattene via!-
Ma il mezzo Klingon non fece altro che
fermarsi in mezzo alla stanza, gli occhi stanchi colpiti dalle luci pallide
della città, lo sguardo intenso e malinconico.
-T’Lenna..- provò, ma quella emise un
grido e gli lanciò contro il bicchiere; l’atmosfera irreale che li circondava
si infranse con esso contro il muro, lasciando solo un rivolo di sangue rosa e
pastoso colare dallo zigomo di Berz’uk.
-Non mi hai sentito?!- strillò
T’Lenna, gli occhi che lampeggiavano, folli –Vattene!- e senza attendere una
risposta, si gettò sul mezzo Klingon, cercando di graffiarlo, di morderlo..
Le braccia dell’altro la strinsero con
forza e più lei cercava di divincolarsi, più si abbandonava nel suo calore,
unendo dolore a dolore, lacrime non versate a lacrime non versate. Lo graffiava
e lo accarezzava, lo respingeva e lo stringeva a sé, gli gridava di andarsene e
gli sussurrava di rimanere, lo mordeva e lo baciava, si divincolava e poi
ricadeva esausta contro il suo petto.
-T’nash-veh
kaf-spol..- mormorava, mentre entrambi, lentamente, scivolavano, uno nelle
braccia dell’altro, in ginocchio –T’nash-veh
katra..T’nash-veh ashaya..-
[Mio cuore..mia anima..mio
amore..]
T’Lenna carezzò con le dita il viso di
Berz’uk e lui le sfiorò le labbra con le proprie e le baciò una lacrima caduta
dagli occhi opachi e poi la fronte e le palpebre e il collo, mentre lei lo
stringeva sempre più forte, sospirando e singhiozzando, le dita affondate fra i
suoi capelli neri, le labbra macchiate di verde laddove aveva morso fino a far
uscire il sangue.
Il mezzo Klingon le prese il volto fra
le mani e la baciò ancora e lei gli sfiorò le tempie con le dita e si lasciò
posare sul pavimento come fosse una goccia di cristallo, con lui che le faceva
scivolare l’abito dalle spalle, scoprendole il petto, il ventre, le gambe,
E mentre i baci di lui erano come le
carezze del vento, le dita di lei premevano e affondavano eterei nelle tempie e
nella mente ed ogni traccia di pensiero era un sussulto del corpo di entrambi,
uniti, abbracciati, esausti, insieme, lì, mente e carne, pensiero e passione,
coi sospiri che si intrecciavano ai singhiozzi e i gemiti che si disperdevano
nelle lacrime e nel silenzio.
***
-E questa cos’è, Leonard?- il dottor
Cooper storse il naso, alzando la bottiglia e scuotendola in direzione del
compagno.
-Dicesi birra, Sheldon- rispose
afflitto quello, passando altre due bottiglie a Wolowitz e Koothrapali.
-Birra?!- esclamò schifato il fisico
–Vuoi forse farmi ubriacare?-
-Ehi, amico- Koothrapali inarcò le
sopracciglia, sovrastando le proteste di Sheldon –Perché la mia è analcolica?-
-Perché se non fosse così- spiegò
paziente Leonard, sedendosi accanto ad un imbronciato dottor Cooper –Dovremmo
spiegare a Berz’uk e a suo fratello perché ti sia messo a molestare qualche
ragazza del dipartimento, Rajesh. E non ci tengo a finire come Howard- e indicò
Wolowitz, che allargò le braccia
-Ehi, ma adesso io che centro?- protestò,
sorseggiando la birra.
Leonard ghignò e si indicò la
mascella.
-Provaci tu a prenderti un pugno da un
mezzo Klingon, poi vediamo..- ringhiò, scoccandogli un’occhiata di fuoco.
Il dottor Hofstader fece per
protestare, ma il sussurro di Rajesh li fece gelare entrambi.
-E’ stata colpa nostra, vero?-
Il silenzio piombò loro addosso.
Howard prese un altro sorso di birra,
per poi massaggiarsi inconsciamente nel punto dove Berz’uk lo aveva colpito;
Leonard si morse il labbro e abbandonò la bottiglia a terra; Koothrapali
strinse forte la sua, con entrambe le mani. Fu Sheldon a parlare.
-In vero- cominciò, quasi stesse
tenendo una conferenza a dei novelli cadetti –E’ stata colpa della Supernova.
Noi potevamo prevedere solo fino ad un certo punto quando sarebbe cominciata la
fusione del nocciolo, ma calcolarla con esattezza andava oltre i limiti della
nostra scienza. Persino gli esimi colleghi dell’Accademia della Scienza
Vulcaniana non hanno potuto fare qualcosa a riguardo. A conti fatti- concluse,
ma nessun sorriso soddisfatto gli si delineò sul viso –Non siamo noi i
responsabili-
Hofstader alzò il viso e fissò
allibito il proprio compagno.
-Grazie..- mormorò incredulo.
-E di cosa?- domandò confuso il
fisico, aggrottando la fronte –Ho solo detto la verità-
-Razionalmente idiota, come sempre!-
rise Howard e fu subito seguito da Rajesh e Leonard, mentre Sheldon fissava
tutti con lo sguardo di chi non ha capito nulla della complessità e duttilità
emotiva dell’essere umano.
Le risate si spensero poco a poco,
simili alle luci di una strada quando il mattino sorge lento oltre l’orizzonte,
e il silenzio si fece spazio piano piano, com’era giusto che fosse. Non si
impose,ma nacque da quelle stesse risate che prima lo avevano cancellato.
-Voglio fare un brindisi!- gridò d’un
tratto Howard, alzandosi e mettendosi in piedi sulla sedia –A Romulus! E a
Spock! Che vivano per sempre, morte o non morte!-
Gli altri tre lo guardarono, poi si
fissarono tra loro.
-A Romulus! A Spock!-
***
-Come vi sentite, madre?-
Saavik carezzò il volto del figlio,
sorridendo con amarezza.
-Questo dovrei chiederlo io a te,
figlio mio-
Il Vulcaniano le prese la mano e la
strinse forte.
-Madre, voi avete perso la vostra
casa-
-Romulus era solo metà del mio
cuore..tu hai perso tuo padre, Tveshu2-
Tveshu abbassò gli occhi e la stretta
si fece più salda e ferma, nonostante il tremito della mano.
-No, madre- il Vulcaniano scosse il
capo, con un sospiro –E’ come mi avete sempre detto. Mio padre è morto molti
anni fa-
-Ma, figlio mio- sussurrò Saavik,
lasciando le dita del figlio e prendendogli il volto fra le mani –Il tuo
sangue..-
-Non mi importa!- esclamò Tveshu,
liberandosi dalle mani della madre e alzandosi in piedi –Il sangue che scorre
nelle mie vene è quello di Spock, ma dentro di me..-
-Agli altri Vulcaniani non interessa
nulla di quello che fu il mio T’hy’la!-
Saavik gettò le gambe oltre la sponda del letto e prese il figlio per le spalle
–Adesso, per loro l’importante è che tu sia un discendente diretto di Spock, il
primo discendente. Interamente Vulcaniano-
Tveshu girò lo sguardo, per non
incontrare lo sguardo della madre.
-Non posso fare questo. Non a mio fratello!-
-Ma non dipende da te!- Saavik lo
costrinse a girarsi –Per me sei figlio di David, ma questo!- con uno scatto improvviso gli prese il polso,
lo girò e vi affondò le unghie. Il Vulcaniano emise un ringhio di dolore e fece
per ritrarre la mano, ma la madre la tenne ben stretta.
-Questo..- sibilò, mostrando il rivolo
di sangue smeraldo –Questo è il sangue di Spock! Gli anziani lo sanno e quello che
tu potrai dir loro non servirà! Per loro sei figlio di David a livello
affettivo ed emotivo, non biologico! Tu
sarai riconosciuto come legittimo erede di Spock, non tuo fratello!- Saavik liberò il polso del figlio e si strinse nelle
spalle –Lui non sarà altro che una macchia da cancellare..non ci sarà posto per
uno come tuo fratello nella storia di Spock di Vulcano. Non quella che gli Anziani
intendono scrivere..-
***
Se fino a quel momento il Capitano
Carons aveva avuto dei dubbi sulla parentela esistente fra Romulani e
Vulcaniani, vennero spazzati via, tutti, dal primo all’ultimo.
Era andati a cozzare contro le iridi
spente del Tenente Romulano, si erano spezzati, piegati da quegli occhi fissi e
vuoti, privi di lacrime, di dolore, di rabbia, di qualsiasi emozione esistente.
Il Capitano aveva cercato di dargli la
notizia nel modo più calmo possibile, senza girarci troppo intorno, ma senza
nemmeno sembrare un perfetto idiota dal cuore di ghiaccio.
Si era aspettato di tutto, dal crollo
di nervi al suo computer che dalla scrivania veniva scaraventato fra urla e
gemiti contro il muro, ma mai e poi mai avrebbe immaginato..il freddo.
Era questo che aveva sentito fissando
il Tenente negli occhi.
Gelo.
-Po..potete andare, siete congedato e
siete esentato dai vostri compiti, almeno fino a quando non raggiungeremo la
Terra per..- tossì, schiarendosi la gola –Per la Funzione-
Il Romulano non mutò l’espressione del
viso e chinò il capo senza un parola; si voltò e uscì dalla stanza. Fu allora
che il Capitano notò un guizzo azzurro
fuori dal proprio alloggio.
-Tenente Shral!- tuonò e l’Andoriano
fece capolino dalle porte –Dovreste essere sul Ponte!-
Shral entrò nella stanza con passo
incerto, gettando uno sguardo veloce nella direzione in cui era sparito il
Romulano, e cercò di spiegarsi
-Sì, ecco, io stavo andando a..come
dire..-
Carons alzò la mano, intimandogli il
silenzio.
-Niente scuse con me, Tenente. Ora
tornate sul Ponte. Subito- chiarì,
vedendo come, ancora una volta, gli occhi dell’altro fossero corsi verso gi
alloggi del Romulano –Sappiate che questo vostro comportamento non verrà
tralasciato nel mio rapporto..-
L’Andoriano annuì
-Non mi aspettavo il contrario- ammise
con un’alzata di spalle –Col vostro permesso, Capitano, tornerei sul Ponte-
-Permesso accordato Tenente. E..-
l’uomo si alzò da dietro la scrivania, raggiungendo Shral; gli mise una mano
sulla spalla e lo fissò, cupo –Lo lasci un po’ da solo. Non può fare nulla per
lui, ora come ora-
***
James Kirk, dalla cornice d’argento,
sorrideva.
Le tempie spruzzate di grigio, qualche
ruga attorno gli occhi e il braccio sulle spalle di una donna di venticinque
anni, circondata dal sempre inflessibile Spock, da un ghignante McCoy ed una
sorridente Janice Rand.
Miri, lasciò cadere il pennino sul
PADD e prese la cornice fra le mani, togliendo un leggero velo di polvere che
aveva ingrigito gli angoli della foto.
Era stata scattata molti anni prima,
all’epoca della minaccia della Sonda3 che aveva quasi distrutto il
pianeta, quando Kirk era ancora vivo e lei era appena diventata un membro della
Sezione di Ricerca di Starfleet.
La donna poggiò la cornice e si
accomodò meglio sulla sedia, mugolando soddisfatta mentre si scioglieva i
muscoli indolenziti delle braccia e della schiena.
Era passato così tanto tempo..con la
cura, il suo metabolismo era accelerato e l’aspetto da eterna bambina si era
modificato, fino a scomparire del tutto. Dopo quasi cento anni, la vecchia Miri
non dimostrava più di quarant’anni sebbene ne avesse quattrocento sulle spalle.
Qualche volta si chiedeva per quanto
ancora sarebbe potuta vivere, quanti cambiamenti avrebbe visto, di quanti
sarebbe stata partecipe, ma poi pensava al suo lavoro attuale e a come, se si
fosse stancata del freddo e solitario Universo, non le sarebbe bastato altro
che saltare e non tornare più indietro.
Non sarebbe stato poi così difficile,
aveva così tante mete tra cui scegliere. E non sarebbe stata neanche la prima a
sparire, lì alla Stazione di Ricerca.
Per ora, si limitava a rivivere dieci,
cento volte la stessa scena quando ne aveva l’occasione e, non vista, a osservare
di nuovo quegli occhi grandi e profondi, il sorriso impertinente e ascoltare
quella voce calma e rassicurante che l’aveva chiamata con una tale dolcezza..
Miri scosse il capo e si diede
mentalmente della sciocca.
Per quanto ancora avrebbe continuato a
pensare a quella sua infatuazione di bambina, a quel prode ed eroico Capitano
che le aveva preso la mano e le aveva detto che era bella, che aveva un bel
nome, che l’aveva abbracciata, protetta..No, ecco, lo stava facendo di nuovo!
Rise e si chiese cosa avrebbe pensato
il suo fidanzato se l’avesse scoperta ad abbandonarsi a simili fantasie.
-Su, Miri, smettila di far male a quel
povero ragazzo che ti sopporta!- si disse, tornando a lavorare sul PADD –Jim non
avrebbe certamente apprezzato!-
-Miri!-
La donna alzò la testa di scatto e
corrugò la fronte.
-Aleksandr..?- chiese, vedendo l’uomo
col il fiatone e una mano all’altezza del cuore –Che succede?-
-Un..un comunicato..da Starfleet- boccheggiò –L’Ambasciatore
Spock..morto..Romulus..distrutto..-
Il pennino cadde, frantumando
ripetutamente il silenzio.
***
Bianco, tutto bianco.
Il pavimento gli sfuggiva, non aveva
presa sul mondo e sui muri, la realtà si disfaceva come fili su una tela
millenaria. Sapeva di dover provare qualcosa, qualsiasi cosa, ma sentiva solo
il bianco.
Un bianco infinito, una voragine cieca
che dava su una luce pallida e spettrale, che non illuminava, ma rendeva le
tenebre più buie.
Si sentiva inghiottire da quella marea
vischiosa, da quel vuoto che gli si attaccava ai vestiti come il sangue
rappreso, come braccia scheletriche che lo trascinavano con gemiti e pianti
muti verso l’Abisso.
Se stava camminando o fosse fermo non
avrebbe saputo dirlo.
Forse stava strisciando in quella
melma candida, allungando le braccia per non essere sommerso, alla ricerca di
un appiglio che non riusciva a trovare; il bianco gli impastava gli occhi, si
incollava alle ciglia e alle palpebre, un velo lattiginoso e sporco che gli
impediva la vista.
Scuotere il capo non serviva, sbattere
le palpebre nemmeno, forse, forse cavandosi gli occhi, sì, forse allora, solo
allora, il bianco se ne sarebbe andato. Avrebbe strappato via la cornea e il
candore opaco che la ricopriva, avrebbe avanzato a tentoni nel buio, ma almeno
il buio lo riconosceva, sapeva cosa fosse e non ne aveva paura, ma quel bianco,
quel bianco pastoso e informe lo temeva più e peggio della morte, perché nella
morte c’era solo il disfacimento, nel Nulla neanche quello.
Nel Nulla solo bianco, bianco infinito,
bianco che preme, bianco che cancella..
In quel fiume di estremo candore, si
avvicinò le mani al viso, si sfiorò la pelle accaldata, disegnò il contorno
degli occhi, una, due, tre volte, dalle sopracciglia agli zigomi, dagli zigomi
alle sopracciglia, poi sempre più vicino, sempre più vicino all’orbita, dove il
bianco veniva risucchiato ed esplodeva con un gemito senza voce e si stendeva,
si spandeva, ricopriva ogni cosa.
Sentì le unghie affondare nella carne
e il sangue colare caldo dai tagli, ma non ne vide il colore. Doveva essere
verde, sì, verde, intenso, scuro, brillante, ma no, no, anche il verde svaniva
nel bianco, assorbito, inghiottito, scomposto in tante particelle, misere
particelle di verde che scoppiavano come bolle, deboli nel candido, nel bianco,
nel Nulla.
Tenente!
La voce di donna emerse longilinea
come la sua figura, un bianco meno bianco, non nero, non un’ombra, solo un
bagliore meno luminoso, non una sfumatura, non un colore, un semplice
ripiegamento, un’ansa nel bianco curvo che lo sovrastava e lo schiacciava.
Tenente,
stia fermo. Venga, venga la accompagno nei suoi alloggi.
Si mosse lento nel bianco, con una
mano che gli teneva il polso.
Non sapeva dove stava andando. Nei
suoi alloggi? Sì. No. Forse. Che importanza aveva? Nel bianco non c’erano
contorni, non c’erano figure, non c’erano persone, non c’erano alloggi.
Lui era solo, solo nel candido bianco,
e nessuno lo avrebbe salvato.
Anche il suo dolore era bianco.
***
Perrin strappò la gonna alle dita
rinsecchite dei rami e poco mancò che cadesse; riuscì a mantenere l’equilibrio
per pura fortuna, poi cadde in ginocchio, stremata dal caldo e dalla fatica.
L’Ambasciatrice sembrava sparita nel
nulla: l’aveva lasciata per un momento e quando era rientrata nella stanza
aveva trovato la finestra spalancata, il letto disfatto e il necessario per il
viaggio verso la Terra gettato di malagrazia sul pavimento.
Dimentica dell’età e dei pericoli del
deserto, Perrin era corsa dietro la Romulana, ma l’aveva persa di vista già da
molto tempo.
Deglutì, la gola riarsa, e si rialzò a
fatica, ondeggiando per la debolezza.
Camminò ancora e ancora e ancora, fino
a quando il paesaggio non prese a rotearle davanti al viso e lei non cadde nel
buio, priva di sensi.
Quando riaprì gli occhi, si accorse di
essere in una delle rare e piccole oasi che punteggiavano la regione; si
sedette sui ciuffi d’erba rossastra e il suo sguardo fu subito catturato dalla
figura in piedi a pochi passi da lei, accanto ad una misera pozza d’acqua.
-Ambasciatrice!- ansimò Perrin,
riconoscendola –Ma cosa..?-
La Romulana non diede segno di averla
sentita; fece scivolare la mano sul fianco e scostò un lembo della veste,
rivelando l’elsa lucente di un pugnale.
La donna sentì il respiro schiantarsi dolorosamente
contro le costole e il cuore battere furioso contro il petto.
-Ambasciatrice!-
Quella non si voltò nemmeno, ma tese
il braccio destro sopra lo specchio d’acqua e senza una parola, senza un
gemito, conficcò il pugnale poco sopra il polso e lo trascinò fin quasi al
gomito.
Il sangue smeraldo sbocciò dalla
ferita e cominciò a gocciolare come pioggia nella pozza.
-Romulus non dimentica- sibilò la
Romulana –Le lacrime dei Romulani non sono piante invano. Ora, la nostra morte
contaminerà la vostra vita- strinse il pugno e il sangue colò più velocemente –Ciò
che mio marito desiderava, io l’ho realizzato. Ora il sangue Romulano scorre
nelle vene di Vulcano. Ma la sua speranza è divenuta maledizione-
***
Shral digitò talmente in fretta il
codice di accesso, che le dita si intrecciarono tra loro e sbagliarono la combinazione;
imprecò fra i denti, ma prima che potesse fare un altro tentativo, le porte si
aprirono rivelando la figura del Primo Ufficiale.
-Comandante!- scattò Shral, con un
salto all’indietro.
La donna lo squadrò con gli occhi
color miele e disse solo
-Prenditi cura di lui. Stava per cavarsi
gli occhi- e se ne andò.
L’Andoriano rimase agghiacciato per
qualche secondo, poi entrò, titubante, nell’alloggio che divideva col Romulano;
lui era lì, seduto sulla branda, lo sguardo perso nel vuoto, le labbra schiuse
e le mani intrecciate, abbandonate sulle ginocchia.
-Vedo che ti hanno dimesso dall’Infermeria!-
tentò Shral con un largo sorriso, ma l’altro non fece un movimento. Forse,
nemmeno l’aveva sentito.
-D’accordo- mormorò l’Andoriano,
sfregandosi la nuca e sedendosi accanto al compagno –Ne vuoi parlare?-
Il Romulano scosse la testa, ma almeno
aveva dato un segno di vita.
-Hai pianto?-
Altro cenno di diniego.
-Hai urlato?-
Silenzio.
-Hai rotto qualcosa?-
Non un movimento.
-Ascolta..- Shral prese un respiro
profondo e cominciò a strofinare le dita fra loro –Io non sono un Vulcaniano,
non posso cancellare il tuo dolore, ma..posso aiutarti a..farlo uscire fuori- e
senza aspettare una risposta, gli appoggiò la mano sulla spalla.
Il dolore lo investì come un pugno
alla bocca dello stomaco e si piegò in due, gemendo, urlando, rantolando; il
cuore schizzò contro il petto, si ruppe in mille pezzi, gli graffiò l’anima, si
aggrappò alla gola, stridette, strappò le corde vocali, si tramutò in fuoco, in
ghiaccio, in tuono, straripò, squarciò le vene, gonfiò i polmoni, li restrinse,
tuonò, rombò, crollò nella mente, si schiantò contro le palpebre, caldo,
bollente, intollerabile, e le lacrime, le lacrime morsero le palpebre,
strapparono le ciglia, acide, acide e incandescenti, scavarono un solco sul
viso, dagli occhi resi azzurri dai capillari esplosi, e alle lacrime si mischiò
al sangue, sangue cobalto misto a lacrime pallide, solchi neri di dolore, un dolore
a pezzi, muto, rabbioso.
Ma l’Andoriano non cedette, rimase lì,
a piangere le lacrime del compagno, consapevole di non poter sopportare nemmeno
la metà del dolore che l’altro provava, ma con la determinazione e il desiderio
di cancellarne anche solo un frammento.
Gridò, gridò e urlò.
Un unico, folle gemito.
Freddo.
Infranto.
1Si tratta de Il naufragio della Speranza di
Friedrich. Ringrazio la mia grandiosa prof di Arte che spiega da Dio e su
questo pittore ci ha fatto una lezione fantastica!
2”Genesi” in Vulcaniano.
Devo dire altro? XD
3 La Sonda è quella del quarto film, “The Voyage
Home"
Diario
di Nemeryal, Data Astrale: 64424.2
Ecco a
voi un altro capitolo! Nulla da dire a riguardo, tranne che il titolo è preso
da un verso della canzone di sottofondo ^^ Cui richiamano anche le due parole
finali.
Altamente
inutile a prima vista, ma so cosa ho nascosto dentro *ghigna*
Risposta alle Recensioni!
Thiliol: In
effetti, eri da secoli che non aggiornavo! Chiedo venia XD Oh, poter dare del “bischero”
a Spock è un’esperienza impagabile! Poi lui non l’avrà apprezzata, ma questi
son dettagli su cui possiamo sorvolare!
Grazie
mille! ^W^
Persefone Fuxia: Povero piccolo Sarek, lo manderemo da..Freud! Oui! Lo
mandiamo dal padre della piSSicanalisi, poi vediamo come reagisce XD Sì,
nu!Kirk è leggermente, ma solo leggermente, bada! Sbarellato..e così ci sarà
mai stato/c’è ancora tra il nostro Spocky-pooh e il toscanaccio?
Bah..muahahahaha!
Sono
contenta che ti sia piaciuta!
Grazie!
Ringrazio Thiliol, BitterSweetSymphony,
SpockMc, Persefone Fuxia e Lady Amber per aver commentato “Da Molto Tempo” e BitterSweetSymphony per averla inserita
fra le preferite!
Alla Prossima!
Tai Nasha No Karosha!