Capitolo 1.
“Qualunque cosa tu possa fare, qualunque
sogno tu possa sognare, comincia. L’audacia reca in se genialità,
magia e forza. Comincia ora.”
Johann Wolfgang Göethe.
Kagome richiuse il libro di aforismi che le era
stato regalato molto tempo prima, in una delle sue innumerevoli feste di
compleanno, dalla sua amata nonna Kasumi.
Un sospiro le sfuggì dalle labbra: era
davvero sicura di quello che stava facendo? Voleva davvero buttare alle spalle
il passato e voltare pagina?
Poggiò il gomito sul bracciolo del sedile
sul quale era seduta e, guardando fuori dal finestrino dell’aereo, si
rese conto della notte appena calata e delle nuvole compatte e dense facevano da padrone.
Non riusciva a distinguere dove fosse: ancora
fra i cieli europei, o fra quelli statunitensi?*
Mordicchiandosi un angolo della bocca,
alzò un braccio, facendo segno ad una delle hostess di avvicinarsi.
«Sì, signorina? »
domandò educatamente la donna, sfoggiando un sorriso perfetto, ma al
tempo stesso stanco per via delle lunghe ore di volo.
Kagome poté notare i capelli rossi legati
in una crocchia e gli inconfondibili tratti occidentali.
Per un istante provò invidia: sua mamma
era americana, ma aveva deciso di trasferirsi in Giappone per seguire il suo
più grande amore, e se suo fratello aveva ereditato caratteristiche che
avrebbero potuto tranquillamente collocarlo nella categoria
“europeo/americano”, lei aveva preso tutto da suo padre,
lasciandosi tristemente collocare nella categoria “asiatica”.
Mettendo fine a pensieri omicidi verso la
hostess, si rizzò meglio sul sedile e scostando con non chalance una
ciocca corvina dalla spalla, le chiese dove fossero e quanto mancava
all’atterraggio.
«Oh, certo! Proprio in questo istante
stiamo sorvolando i cieli del Vermont! Tra non molto dovremmo atterrare al Burlington
International Airport.*» appena finì di rispondere alla semplice
domanda di Kagome, l’hostess si accorse di un fanalino acceso, con sopra
disegnata la cintura di sicurezza.
Sfoggiando nuovamente il suo sorriso perfetto,
indicò con un dito il segnale e la ragazza, così come gli altri
passeggeri, si allacciò la cintura color vinaccia, rilassandosi poi
contro lo schienale del sedile.
Durante le fasi d’atterraggio il suo
pensiero andò ad Aki, chiuso nella sua gabbietta all’interno della
stiva dell’aereo.
Sarà
spaventato? Sentirà la mia mancanza? Avrà finito tutti i
croccantini? E l’acqua? Qualcuno sarà andato a controllarlo, come
assicuratomi alla partenza?
Teneva particolarmente a quella palla di pelo
bianca e, per quanto fosse strano, nei momenti difficili era proprio Aki la sua
ancora di salvezza, l’unico capace a darle forza. Poteva considerare quel
gatto quasi alla stessa stregua di un figlio adottato.
Non avrebbe di certo mai dimenticato il giorno
in cui quel micio d’angora era entrato nella sua vita come un fulmine al
ciel sereno.
Era un
afoso pomeriggio di fine agosto e Kagome era uscita di casa con un grosso sacco
nero dell’immondizia.
Aiutandosi
con entrambe le braccia, cercò di gettare nel cassonetto di latta la
busta, ma quando fece per allontanarsi, un miagolio catturò la sua
attenzione.
Corrucciandosi
ritornò di fronte al cassonetto e, tirando un piccolo calcio a
quest’ultimo, sentì nuovamente il verso di un micino.
Affacciandosi,
vide un piccolo sacco di plastica bianca muoversi freneticamente e, presa dalla
compassione per quel povero animaletto, si fece coraggio, estraendo la busta da
quell’angusto e maleodorante luogo.
Una
volta posato a terra l’ aprì e ai suoi occhi si mostrò un
gattino dal manto, una volta immacolato, sporco di sostante che non
riuscì ad identificare.
Il
micio, dal canto suo, la guardava spaventato con i suoi grandi occhioni verdi e
Kagome, sentendo il cuore sciogliersi, lo prese fra le sue braccia,
portandoselo al petto.
Sì,
prima di tornare a casa avrebbe fatto decisamente un salto dal veterinario.
Gli animali le erano sempre piaciuti, fin da
quando era piccola, ma per una spaventosa allergia di suo padre al pelo di cani
e gatti non aveva mai potuto averne uno, canarini e pesci rossi a parte, si
intende.
I suoi ricordi e i suoi pensieri vennero
scacciati malamente via quando il carrello dell’aereo toccò
l’asfalto della pista d’atterraggio e il corpo di Kagome,
così come quello degli altri passeggeri, subì dei sobbalzi per
qualche frazione di secondo.
Una volta che l’aereo prese posizione e i
motori furono spenti, le hostess aprirono i portelloni bianchi e salutarono
ogni viaggiatore con un sorriso cordiale e un “arrivederci, speriamo che
il viaggio sia stato di vostro gradimento”.
Quando Kagome scese l’intera scaletta di
ferro, il freddo della notte le si schiaffò sul viso, facendola
rabbrividire e raggomitolare di più nel giacchino che indossava.
Assieme ad una colonna di persone, si diresse
verso l’interno dell’aeroporto, precisamente al ritiro bagagli.
Non aveva fatto caso alla grande struttura
grigio scura, ma non poteva importarle del resto. L’unica cosa che voleva
era andare nella sua nuova casa, preparare un giaciglio dove far riposare sia
lei che Aki, e dormire per dodici ore filate.
Una volta dentro il Burlington International
Airport, cercò con lo sguardo l’accettazione.
Non trovandola con la sola vista, si decise a
chiedere ad uno degli inservienti lì vicino, impegnato a pulire i
pavimenti con uno spazzolone e uno straccio.
«Scusi…» chiese, con un
perfetto accento americano. «Saprebbe dirmi dov’è
l’accettazione?»
L’inserviente, smettendo per un attimo il
suo lavoro, si poggiò alla mazza di legno, grattandosi la fronte col
pollice della mano destra.
Kagome lo osservò meglio: era un uomo di
mezza età. La pelle era scura come il cioccolato fuso e due vispi iridi
caramellate contrastavano con la pupilla color avorio.
«Vediamo, mhm, l’accettazione
dovrebbe essere lungo quel corridoio, dietro di lei! Non può sbagliare,
ci sono sempre delle guardie di fronte lo sportello!»
«Oh! Grazie, Signor… Eugine!»
disse, leggendo il nome dell’inserviente sulla divisa blu notte.
Eugene le rivolse un debole sorriso, per poi
congedarsi e tornare al proprio lavoro.
Kagome, dal canto suo, estrasse dalla borsa il
passaporto e seguendo le indicazioni dell’inserviente si ritrovò
poco dopo di fronte lo sportello dell’accettazione.
Consegnando all’addetto il proprio
passaporto, si poggiò con le mani al bancone, guardando con particolare
interesse il calendario posto alle spalle della guardia.
«Miss Higurashi, noto che lei ha la doppia
cittadinanza!» proruppe la guardia, continuando ad inserire altri dati
nel computer.
«Ehm… sì, mia madre è
americana, di Albany!*»
«È qui negli Stati Uniti per una
vacanza?»
Kagome morse con i denti entrambe le labbra: era
una semplice chiacchierata o un trucco per capire se era una terrorista?
«No, in realtà mi sono trasferita.
Il Giappone non faceva più per me.»
«Mhm… bhe» la guardia le
rivolse un sorriso rassicurante. «è tutto in regola, Miss.
Può andare e lasci che sia il primo a darle il benvenuto negli Stati
Uniti d’America.»
Già,
benvenuta nella tua nuova casa, Kagome.
Princess Judith’s space.
*Non so se per arrivare dal Giappone al Vermont
si sorvoli per forza l’Europa! Voi datemela per buona però, eh ;)
*In Internet ho trovato solo Burlington
International Airport, quindi non so se ci sia proprio un nome specifico come,
per esempio, il J.F.K International Airport di New York!
*Albany, capitale dello Stato di New York.
Bene, eccomi qui con un nuovo capitolo di My
Dreams! Ho una piccola precisazione da fare: avendo un piccolo problema
chiamato Università, non so con quale frequenza potrò aggiornare,
ma voi continuate a seguirmi eh! Perché ne vedrete delle belle!
Ad ogni modo, passiamo ai ringraziamenti. Grazie
a: visb88, ryanforever, DivinaKagome,
Alys93, Ila Yuki Cross, Katy93 e Lovlygirl!
Vorrei ringraziare
anche chi ha semplicemente letto, ma soprattutto chi ha messo questa storia
nelle seguite!
Scusate se non vi
ringrazio tutte come si deve, ma vado leggermente di fretta, giuro che nel
prossimo capitolo lo faccio, eh!
Su questo link http://www.100caniegatti.it/uploads/orientale-angora-1.jpg
potrete vedere com’è il piccolo Aki! ^^
Saluti!
Al prossimo capitolo!
Princess Judith