Jeez… sono in ritardissimo... ;__;
Senza perdermi in chiacchiere ecco il settimo capitolo. A proposito! Qualcuna
di voi è riuscita a vedere ‘Ogni cosa è illuminata’? È uscito nelle sale più o
meno venti giorni fa ed sta avendo delle buone critiche :)
~ Capitolo Sette ~
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Il
caldo del pomeriggio californiano mi dà il benvenuto una volta messo piede sul suolo fermo del Terminal 4 del LAX.
Vengo bloccato da un gruppetto di ragazze che si
avvicinano simil-discretamente, come timorose di
vedermi scappare. Mi chiedono se possono scattarmi delle foto e poi firmare
degli autografi. Annuisco, cercando di sorridere quanto più possibile disteso
di fronte l’obiettivo e le congedo, prendendo poi le valigie che nel frattempo
sfilano sul nastro mobile, dopo un tempo inverosimilmente breve. Me la svigno
velocemente, imboccando l’ascensore che conduce ai parcheggi al coperto. Ho
lasciato la macchina qui; ricordo però a malapena dove sia. Uh… dovrei avere
nel portafoglio la ricevuta del pagamento con su anche
il numero del blocco. Hmph…
dopo aver lottato con le cose che ho nello zaino, riesco infine ad afferrarlo e
muovermi così alla volta dello spazio P6.
La vedo
da lontano ed è con sorriso che saluto la mia Mini Cooper.
Il primo oggetto che mi indica che sono tornato in un
terreno familiare. Apro le portiere con il telecomando a distanza e stipo la
valigia nel portabagagli. Una volta nell’abitacolo respiro l’odore noto e
piacevole della pelle dei sedili e della menta dell’Arbre magique. Lo ha scelto Hannah, superfluo dirlo, ma piace anche a me. E’ per questo che è ancora lì appeso allo specchietto
retrovisore, insieme ad un peluche a forma di mini koala. Un souvenir
dall’Oceania.
Metto
in moto, prendendo gli occhiali da sole nel cruscotto.
Li indosso trovando lì per lì strano osservare il tutto attraverso le lenti
scure, in questo seminterrato che buio lo è già di suo, nonostante la luce
all’esterno. Afferro allora il cellulare per accenderlo e trovarvi due
tentativi di chiamata e qualche messaggio. Rispondo sinteticamente,
ma ancora una volta snobbo volontariamente mia sorella e mia madre. Voglio
fargli una sorpresa, ma ho bisogno ancora di qualche minuto per riordinare le
idee. Accendo allora lo stereo, mettendolo su una radio locale che fa buona
musica a mio parere e, allacciata la cintura di sicurezza, mi accingo a
lasciare l’aeroporto.
Prendo la
In aereo stavo praticamente
morendo. Avendo passeggeri di fianco e di dietro, contrariamente all’andata,
non ho potuto sdraiarmi come avrei voluto e l’arrivo a Denver mi è sembrato
lunghissimo. Sono sceso con i crampi allo stomaco, rifugiandomi prima in bagno
per darmi una rinfrescata e poi sedendo al tavolino di un bar, per ordinare una
specie di brunch.
Lo sbalzo di pressione per via della differenza delle atmosfere mi ha messo
davvero lo stomaco sottosopra, facendomi maledire quello che avevo
mandato giù già a fatica di mio. Mettere piede a Los Angeles è
stato una specie di sogno fattosi realtà. Non ho mai avuto problemi a
volare, ma è pur vero che poche volte sono salito su un aereo in quelle
condizioni e con la nausea a farmi girare la testa. Adesso va meglio. Davvero.
L’abitacolo è caldo per via dei raggi di un sole
piuttosto cocente per essere un pomeriggio primaverile e rimango praticante con
indosso solo
Parcheggio in prossimità di una spiaggia poco pullulante
di persone e scendo a fare due passi. Ormai sono qui, tanto vale che passi
un’oretta in tutta tranquillità. Il mare è un po’ agitato e il vento soffia
inaspettatamente forte. È ormai pomeriggio inoltrato e, avvicinandosi il
tramonto, la temperatura ne risente immediatamente. Torno allora in macchina
afferrando il giubbotto di jeans e le cloves che avevo dimenticato. Cosa impossibile a credersi, ma non ho voglia di fumare. Le tengo nel caso in cui mi torni
all’improvviso, mi dico come giustificandomi con me stesso.
Decido di togliere le scarpe ed i calzini, sentendo la
sabbia fredda ed asciutta sotto i piedi. Mi trasmette una strana tranquillità.
Vagare così in spiaggia come un randagio in cerca d’affetto mi è sempre
piaciuto. Aiuta a sedare i nervi. La risacca del mare è ipnotica e mi piace da
morire quest’ora del giorno. Quella
che precede il crepuscolo vero e proprio. Quando la linea dell’orizzonte
inizia a cambiare colore, sfumandosi in tonalità sempre diverse, man mano che passano i minuti. E questo sembra
uno di quei pomeriggi beati in un certo senso.
Poca gente in giro e poco
chiasso. Solo il fruscio dei miei jeans a contatto con la
rena dorata e il freddo del vento a tagliarmi quasi il volto. Adesso
gelido lo è per davvero. E guardando l’orologio mi
rendo conto che sono due ore che passeggio. Non ho incontrato nessuno
miracolosamente. È raro poter godere di qualche
momento di assoluto anonimato a Los Angeles e, sebbene non sia in uno dei
quartieri centrici, non ricordo davvero da quanto debba passeggiare
completamente da solo, se si esclude la compagnia dei miei pensieri.
Le mani sono intirizzite e una volta
tornato sul marciapiede, faccio quasi fatica a rimettere i calzini e le
scarpe, tanto è vero che le lascio slacciate, stringendo solo pigramente le
stringe per raggomitolarle poi all’interno delle sneakers. C’è una specie di
chiosco ad una decina di metri da dove sono. L’idea di una bevanda calda non mi
sembra malvagia e così, mi avvicino al bar ambulante avendo pienamente davanti
agli occhi l’immagine del lungomare con la sua cementata, liscia ed adatta per
i rollerblade,
nonché alberi di palma piuttosto alti, piantati a
distanza identica gli uni dagli altri.
“Una cioccolata calda”, mormoro alla signora sulla
quarantina che mi chiede cosa desidero. Annuisce con un sorriso e dopo qualche
minuto poggia sul bancone un bicchierone, tipo quelli della Coca Cola, colmo per tre quarti di
cioccolato semi-denso, l’esatta consistenza che le ho
chiesto, e fumante. Le do cinque dollari aspettando
che mi faccia il resto e poi la saluto continuando a camminare, in direzione
opposta al parcheggio. C’è un giornalaio appena dopo qualche metro.
L’attenzione è catturata da alcune cartoline in bella vista su degli
espositori.
Mi viene in mente Marteena e
penso che potrebbe essere un modo per ringraziarla della t-shirt. Sono sicuro
che Claire le abbia rapportato
per filo e per segno la nostra conversione telefonica, ma mi è dispiaciuto non
poter parlare direttamente con lei. Rimango un po’ lì a fissare gli scorci
immortalati nei diversi formati da post-card e ne scelgo proprio uno di Venice. Una visuale del mare, ripreso
esattamente in un’altra ora che mi piace particolarmente. Quella
immediatamente successiva all’alba. I colori del cielo sono indefiniti, un
arcobaleno di sfumature che mantengono anche su carta quella loro
caratteristica intrinseca di tonalità momentanea e colta sul punto di morte,
per trasformarsi in quella successiva.
Porgo dunque la cartolina al giornalaio che me la rende
all’interno di una bustina di carta ed insieme ad
alcuni spiccioli di resto. A questo punto mi volto indietro e rientro in
macchina, finendo di bere la cioccolata, riflettendo su quello che potrei
scrivere. Il concetto alla base è un grazie, ma non
retorico, direi tutt’altro. Allo stesso modo però
eccedere con le parole potrebbe far intender qualcosa che non
è affatto, e creare illusioni oppure ferirla, non rientra affatto in
quello che voglio fare.
Prendo una penna dallo zaino e rimango a guardare lo
spazio bianco da riempire. È mordicchiando il cappuccio della biro che
l’ispirazione viene, e riempio con facilità il rettangolino
che ho davanti. Rileggo poi un paio di volte e mi dico
che ho trovato le parole giuste. Il primo obiettivo raggiunto dopo una
settimana di caos. Los Angeles ha una buona influenza
su di me, a quanto sembra. Passo poi a scrivere l’indirizzo sulla destra della
superficie. L’ho letto sull’elenco, quando ho cercato il suo numero di casa e
lo ricordo senza troppi dubbi. Sono un attore. Ho una memoria affidabile.
Marteena Marcano,
23 Oak St.
Cedar Rapids,
IA
52498
Ho bisogno di un francobollo. Voglio imbucarla subito,
non mi va che mi passi di mente. C’è una tabaccheria al di là della strada e di fianco una casella per imbucare
le lettere. Esco dunque di nuovo dall’auto, attraverso
il corso e imbuco la cartolina, dopo aver comprato oltre al francobollo delle
altre sigarette e un pacchetto di gomme da masticare. Altra
cosa di cui sono dipendente.
Il sole è quasi del tutto sceso ormai. I lampioni che
illuminano il viale, già da un po’, adesso si vedono benissimo. Sarò a casa tra
venti minuti, sperando in poco traffico. Mi rimetto così in macchina prendendo
la 1 all’incrocio con la 42 e facendo così la cosa più logica, quello cioè che avrei dovuto fare già tre ore fa se non avessi
smesso di prestare attenzione alla strada che stavo prendendo. Poco male comunque. Guidare mi piace, ancora di più con un bel cd ad
accompagnarmi e le luci della prima sera tutt’intorno.
Un cartello sul quale spicca la scritta in bianco VENICE, mi dice
che sono arrivato.
Dopo qualche centinaio di metri, infatti, vedo il profilo della mia casa e spingo il tasto del comando
a distanza, entrando così agevolmente nel cancello completamente aperto. Lascio
la macchina in cortile e scendo riempiendomi letteralmente gli occhi dei
dettagli del giardino e della facciata della villetta nella quale vivono mia
madre ed Han. La dependance
che ospita me invece è appena più in là. Ci andrò
dopo. Adesso voglio rivedere loro.
Vengo però bloccato dal saluto festoso di Rascal e Levonne, i miei due collies. “Hey…”, li saluto rispondendo al loro saltellare allegro e
accarezzandogli la testa. Ecco un’altra cosa che mi è mancata.
Come diavolo si fa a vivere senza animali
domestici di nessuna sorta?
La luce dell’ingresso è accesa, la vedo attraverso il
vetro opaco delle lastre che decorano qua e là il legno del portone principale.
Mia madre c’è di sicuro. Su Hannah non ci metterei la
mano sul fuoco, ma va comunque bene così. Prendo solo
lo zaino, le chiavi e il cellulare, praticamente
superfluo negli ultimi giorni.
Si può vivere senza?
Direi di sì.
Mi dirigo così verso casa, seguito dai due cani
scodinzolanti e festosi. Entro allora nell’atrio, venendo
accolto dall’odore di qualcosa che cuoce in forno. La stretta in gola che sento
dopo aver messo piede solo nell’ingresso, è tale da stendermi al tappeto.
Accidenti, sono emotivo è vero, ma questo sta avendo del patologico. Cerco di
calmare i battiti forsennati che mi stanno sfondando la cassa toracica, e
appoggio lo zaino a terra. Lo specchio che ho di fronte mi mostra un ragazzo di
ventiquattro anni con due occhi al momento troppo grandi e troppo lucidi sul
volto pallido e tirato. Hmph….
Se volevo ingannarle raccontando loro quanto sia stata fantastica questa
vacanza e quanto mi sia divertito e quanto mi abbia fatto bene staccare e bla, bla, bla…
direi che sono proprio sulla strada sbagliata.
“Lij?”, sento allora chiamare
la voce di Debbie, per vederla poi fare capolino dal
salotto. “Elijah, sweetie”, ripete con un bel
sorriso sul volto, felice di rivedermi, cosa che accentua paradossalmente il
mio malore. Il suo tono affettuoso è una specie di balsamo per le mie orecchie,
ma si sta rivelando allo stesso modo rovinoso.
Eppure mi impongo di far finta
di niente.
Devo leccarmi le ferite e lo farò in privato.
Solo gli idioti si tirano la zappa sui piedi come ho
fatto io.
Ecco perché non mi va che mia madre o Hannah
mi vedano patetico, voglio dire, di più di quello che
in realtà già sento di essere, ed in piena paranoia post-Cedar.
Da copione allora ruoto gli occhi in un’espressione
scocciata da ragazzino che si sente grande e che odia essere coccolato. Lo
faccio sempre, quando mia madre inizia a vezzeggiarmi come un poppante. La vedo
avvicinarsi ancora con quel bel sorriso e mi abbraccia, brevemente ma piena di
calore. Un bacio sulla guancia a darmi il benvenuto e il mio: “Mamma, non ho
più dieci anni!”, simil lamentoso. Potrei anche far finta di pulirmi la guancia, tanto per rendere il tutto più
drammatico.
Per questa volta passi, mi dico forzando il miglior sorriso che ho adesso tra
il mio repertorio e baciandola a mia volta.
Questa è davvero casa mia.
Non ci sono dubbi.
Ad indicarmelo è la tensione alle spalle che, nonostante
questa specie di disagio che sto vivendo, è scomparsa.
Anche Hannah
sembra in vena di dolcezze perché sbuca dal piano superiore, buttandosi a
capofitto giù per le scale e mi getta le braccia al collo, abbracciandomi a
lungo, salutandomi con un: “Heya ugly… been missing
ya so bad”.
Mostro… c’è sempre chi tiene alta la
mia autostima in casa, anzi se dovessi peccare di divismo, la lingua di mia
sorella mi riporterebbe tra i comuni mortali in un nanosecondo.
“Voi no”, dico ironico, facendole scoppiare a ridere.
“Non sai recitare, Lij. Lo dico sempre io!”, tira fuori la linguaccia Hannah.
Mi forzo di frenare il fiume di parole che sento
all’improvviso ostruirmi la gola. Vorrei raccontargli tutto, ma alla fine mi dico di no. Cerco così di
alleggerire l’umore cupo prendendo in giro Han. “Cosa dovrei comprarti questa volta, sentiamo?”.
“Mmh?”.
“Tutto questo entusiasmo nel
vedermi , Han…”, spiego. “Di cosa hai bisogno?”.
“Oh! Non avevo capito”, esclama
lei cadendo dalle nuvole.
Sì, come no…
“Se proprio ci tieni, Lij. Ho visto dei vestiti niente male in centro. Se vuoi gentilmente finanziare…?”.
Appunto.
Vestiti? Credevo una macchina o qualcosa del genere.
Ovviamente nego però.
“Scordatelo”.
“Sei il solito coglione, Elwood”, mi fa notare. Un’espressione buffa sul visetto dai
lineamenti più che carini e piuttosto simile a quello
di nostra madre, se la piantasse di sperimentare tinte improbabili e make up da circo o Mardi Gras Parade/*.
“E tu la solita sanguisuga”.
“Ok, pulcini. Basta così”, cinguetta Debbie
sorridendo serafica, sapendo come i suoi appellativi ci facciano ruotare
contemporaneamente gli occhi dalla disperazione, e passandomi una mano sulle
spalle. “Che ne dici di sgranocchiare qualcosa, Elijah?”.
Dio. Sono rientrato da meno di dieci minuti e mi sono
sentito chiamare in diecimila modi diversi. Non riesco a credere di non aver
sentito quasi per niente il mio nome durante l’ultima settimana. Pochissime
volte. Come se mio padre lo avesse addirittura dimenticato,
afferrandosi a malapena al mio primo nome. Senza diminutivi né
nomignoli. È una sensazione strana e scomoda, un rospo che mi è difficile da inghiottire,
e immerso in queste considerazioni non ho ancora risposto a mia madre.
“Sweetie?”.
Sorrido cercando di allontanare l’angoscia e focalizzarmi
sul senso della sua richiesta. Anziché fingermi
infastidito, lascio che la dolcezza e la nota di preoccupazione insite nella
sua voce mi riempiano con il loro solito calore. “Magari”, annuisco con lo
stomaco chiuso, ma al contempo desideroso di sgranocchiare qualcosa che elimini
il sapore amaro che ho in bocca.
Dell’altra cioccolata forse. Non so se potrebbe compiere
il miracolo.
“Vieni in cucina. Hannah ha
cercato di impastare una torta. È quasi pronta. Avrai l’onore di assaggiarla”.
“Neanche morto”, nego aspettando la reazione fulminea e
logica di mia sorella.
“Idiota”, sbotta, infatti, lei, secondo quel rituale da
pantomima che per me equivale a normalità e a casa e che mi è mancato come non
mai.
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/* Sfilata allegorica di che si tiene il giorno di Carnevale, Martedì
Grasso appunto, a New Orleans, Louisiana. Viene anche eletto
un Re per l’occasione. Una specie di mastro cerimoniere. Di
solito personaggi famosi, tra cui Elijah.