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Autore: Neeva    30/11/2005    4 recensioni
Fanfiction classificatasi al 2° posto nella 15° Edizione del Concorso di EFP ("Fanfic sulle celebrità").
"Avrà mai letto di me sui giornali, visto qualche film in cui ho recitato? Seguito da lontano la mia crescita non soltanto artistica? Oppure i ricordi sono legati anche per lui a degli scatti ingialliti dal tempo?".
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Elijah Wood
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Jeez… sono in ritardassimo

Jeez… sono in ritardissimo... ;__; Senza perdermi in chiacchiere ecco il settimo capitolo. A proposito! Qualcuna di voi è riuscita a vedere ‘Ogni cosa è illuminata’? È uscito nelle sale più o meno venti giorni fa ed sta avendo delle buone critiche :)

 

~ Capitolo Sette ~

Back Home

 

Il caldo del pomeriggio californiano mi dà il benvenuto una volta messo piede sul suolo fermo del Terminal 4 del LAX. Vengo bloccato da un gruppetto di ragazze che si avvicinano simil-discretamente, come timorose di vedermi scappare. Mi chiedono se possono scattarmi delle foto e poi firmare degli autografi. Annuisco, cercando di sorridere quanto più possibile disteso di fronte l’obiettivo e le congedo, prendendo poi le valigie che nel frattempo sfilano sul nastro mobile, dopo un tempo inverosimilmente breve. Me la svigno velocemente, imboccando l’ascensore che conduce ai parcheggi al coperto. Ho lasciato la macchina qui; ricordo però a malapena dove sia. Uh… dovrei avere nel portafoglio la ricevuta del pagamento con su anche il numero del blocco. Hmph… dopo aver lottato con le cose che ho nello zaino, riesco infine ad afferrarlo e muovermi così alla volta dello spazio P6.

 

La vedo da lontano ed è con sorriso che saluto la mia Mini Cooper. Il primo oggetto che mi indica che sono tornato in un terreno familiare. Apro le portiere con il telecomando a distanza e stipo la valigia nel portabagagli. Una volta nell’abitacolo respiro l’odore noto e piacevole della pelle dei sedili e della menta dell’Arbre magique. Lo ha scelto Hannah, superfluo dirlo, ma piace anche a me. E’ per questo che è ancora lì appeso allo specchietto retrovisore, insieme ad un peluche a forma di mini koala. Un souvenir dall’Oceania.

 

Metto in moto, prendendo gli occhiali da sole nel cruscotto. Li indosso trovando lì per lì strano osservare il tutto attraverso le lenti scure, in questo seminterrato che buio lo è già di suo, nonostante la luce all’esterno. Afferro allora il cellulare per accenderlo e trovarvi due tentativi di chiamata e qualche messaggio. Rispondo sinteticamente, ma ancora una volta snobbo volontariamente mia sorella e mia madre. Voglio fargli una sorpresa, ma ho bisogno ancora di qualche minuto per riordinare le idee. Accendo allora lo stereo, mettendolo su una radio locale che fa buona musica a mio parere e, allacciata la cintura di sicurezza, mi accingo a lasciare l’aeroporto.

 

Prendo la 405 in direzione Nord e per un po’ mi concentro totalmente sulla guida, trovandomi incappato nel solito ingorgo di macchine. Qui è sempre ora di punta per un motivo o per un altro. Guidare mi rilassa, la tensione al collo e alla schiena si fa meno pressante.

 

 

In aereo stavo praticamente morendo. Avendo passeggeri di fianco e di dietro, contrariamente all’andata, non ho potuto sdraiarmi come avrei voluto e l’arrivo a Denver mi è sembrato lunghissimo. Sono sceso con i crampi allo stomaco, rifugiandomi prima in bagno per darmi una rinfrescata e poi sedendo al tavolino di un bar, per ordinare una specie di brunch. Lo sbalzo di pressione per via della differenza delle atmosfere mi ha messo davvero lo stomaco sottosopra, facendomi maledire quello che avevo mandato giù già a fatica di mio. Mettere piede a Los Angeles è stato una specie di sogno fattosi realtà. Non ho mai avuto problemi a volare, ma è pur vero che poche volte sono salito su un aereo in quelle condizioni e con la nausea a farmi girare la testa. Adesso va meglio. Davvero.

 

 

L’abitacolo è caldo per via dei raggi di un sole piuttosto cocente per essere un pomeriggio primaverile e rimango praticante con indosso solo la T-shirt di Marteena, che si sta rivelando utilissima. Suppongo le farebbe piacere saperlo. Senza quasi accorgermene svolto a sinistra, un chilometro prima di raggiungere Inglewood, prendendo così la 42. E’ solo una volta arrivato a Playa del Rey che mi accorgo di aver deviato. Venice, è praticamente vicinissima. Più o meno due miglia a nord.

 

 

Parcheggio in prossimità di una spiaggia poco pullulante di persone e scendo a fare due passi. Ormai sono qui, tanto vale che passi un’oretta in tutta tranquillità. Il mare è un po’ agitato e il vento soffia inaspettatamente forte. È ormai pomeriggio inoltrato e, avvicinandosi il tramonto, la temperatura ne risente immediatamente. Torno allora in macchina afferrando il giubbotto di jeans e le cloves che avevo dimenticato. Cosa impossibile a credersi, ma non ho voglia di fumare. Le tengo nel caso in cui mi torni all’improvviso, mi dico come giustificandomi con me stesso.

 

 

Decido di togliere le scarpe ed i calzini, sentendo la sabbia fredda ed asciutta sotto i piedi. Mi trasmette una strana tranquillità. Vagare così in spiaggia come un randagio in cerca d’affetto mi è sempre piaciuto. Aiuta a sedare i nervi. La risacca del mare è ipnotica e mi piace da morire quest’ora del giorno. Quella che precede il crepuscolo vero e proprio. Quando la linea dell’orizzonte inizia a cambiare colore, sfumandosi in tonalità sempre diverse, man mano che passano i minuti. E questo sembra uno di quei pomeriggi beati in un certo senso.

 

 

Poca gente in giro e poco chiasso. Solo il fruscio dei miei jeans a contatto con la rena dorata e il freddo del vento a tagliarmi quasi il volto. Adesso gelido lo è per davvero. E guardando l’orologio mi rendo conto che sono due ore che passeggio. Non ho incontrato nessuno miracolosamente. È raro poter godere di qualche momento di assoluto anonimato a Los Angeles e, sebbene non sia in uno dei quartieri centrici, non ricordo davvero da quanto debba passeggiare completamente da solo, se si esclude la compagnia dei miei pensieri.

 

 

Le mani sono intirizzite e una volta tornato sul marciapiede, faccio quasi fatica a rimettere i calzini e le scarpe, tanto è vero che le lascio slacciate, stringendo solo pigramente le stringe per raggomitolarle poi all’interno delle sneakers. C’è una specie di chiosco ad una decina di metri da dove sono. L’idea di una bevanda calda non mi sembra malvagia e così, mi avvicino al bar ambulante avendo pienamente davanti agli occhi l’immagine del lungomare con la sua cementata, liscia ed adatta per i rollerblade, nonché alberi di palma piuttosto alti, piantati a distanza identica gli uni dagli altri.

 

 

“Una cioccolata calda”, mormoro alla signora sulla quarantina che mi chiede cosa desidero. Annuisce con un sorriso e dopo qualche minuto poggia sul bancone un bicchierone, tipo quelli della Coca Cola, colmo per tre quarti di cioccolato semi-denso, l’esatta consistenza che le ho chiesto, e fumante. Le do cinque dollari aspettando che mi faccia il resto e poi la saluto continuando a camminare, in direzione opposta al parcheggio. C’è un giornalaio appena dopo qualche metro. L’attenzione è catturata da alcune cartoline in bella vista su degli espositori.

 

 

Mi viene in mente Marteena e penso che potrebbe essere un modo per ringraziarla della t-shirt. Sono sicuro che Claire le abbia rapportato per filo e per segno la nostra conversione telefonica, ma mi è dispiaciuto non poter parlare direttamente con lei. Rimango un po’ lì a fissare gli scorci immortalati nei diversi formati da post-card e ne scelgo proprio uno di Venice. Una visuale del mare, ripreso esattamente in un’altra ora che mi piace particolarmente. Quella immediatamente successiva all’alba. I colori del cielo sono indefiniti, un arcobaleno di sfumature che mantengono anche su carta quella loro caratteristica intrinseca di tonalità momentanea e colta sul punto di morte, per trasformarsi in quella successiva.

 

 

Porgo dunque la cartolina al giornalaio che me la rende all’interno di una bustina di carta ed insieme ad alcuni spiccioli di resto. A questo punto mi volto indietro e rientro in macchina, finendo di bere la cioccolata, riflettendo su quello che potrei scrivere. Il concetto alla base è un grazie, ma non retorico, direi tutt’altro. Allo stesso modo però eccedere con le parole potrebbe far intender qualcosa che non è affatto, e creare illusioni oppure ferirla, non rientra affatto in quello che voglio fare.

 

 

Prendo una penna dallo zaino e rimango a guardare lo spazio bianco da riempire. È mordicchiando il cappuccio della biro che l’ispirazione viene, e riempio con facilità il rettangolino che ho davanti. Rileggo poi un paio di volte e mi dico che ho trovato le parole giuste. Il primo obiettivo raggiunto dopo una settimana di caos. Los Angeles ha una buona influenza su di me, a quanto sembra. Passo poi a scrivere l’indirizzo sulla destra della superficie. L’ho letto sull’elenco, quando ho cercato il suo numero di casa e lo ricordo senza troppi dubbi. Sono un attore. Ho una memoria affidabile.

 

 

Marteena Marcano,

23 Oak St.

Cedar Rapids,

IA

52498

 

 

Ho bisogno di un francobollo. Voglio imbucarla subito, non mi va che mi passi di mente. C’è una tabaccheria al di là della strada e di fianco una casella per imbucare le lettere. Esco dunque di nuovo dall’auto, attraverso il corso e imbuco la cartolina, dopo aver comprato oltre al francobollo delle altre sigarette e un pacchetto di gomme da masticare. Altra cosa di cui sono dipendente. 

 

 

Il sole è quasi del tutto sceso ormai. I lampioni che illuminano il viale, già da un po’, adesso si vedono benissimo. Sarò a casa tra venti minuti, sperando in poco traffico. Mi rimetto così in macchina prendendo la 1 all’incrocio con la 42 e facendo così la cosa più logica, quello cioè che avrei dovuto fare già tre ore fa se non avessi smesso di prestare attenzione alla strada che stavo prendendo. Poco male comunque. Guidare mi piace, ancora di più con un bel cd ad accompagnarmi e le luci della prima sera tutt’intorno. Un cartello sul quale spicca la scritta in bianco VENICE, mi dice che sono arrivato.

 

 

Dopo qualche centinaio di metri, infatti, vedo il profilo della mia casa e spingo il tasto del comando a distanza, entrando così agevolmente nel cancello completamente aperto. Lascio la macchina in cortile e scendo riempiendomi letteralmente gli occhi dei dettagli del giardino e della facciata della villetta nella quale vivono mia madre ed Han. La dependance che ospita me invece è appena più in là. Ci andrò dopo. Adesso voglio rivedere loro.

 

 

Vengo però bloccato dal saluto festoso di Rascal e Levonne, i miei due collies. “Hey…”, li saluto rispondendo al loro saltellare allegro e accarezzandogli la testa. Ecco un’altra cosa che mi è mancata. Come diavolo si fa a vivere senza animali domestici di nessuna sorta?

 

 

La luce dell’ingresso è accesa, la vedo attraverso il vetro opaco delle lastre che decorano qua e là il legno del portone principale. Mia madre c’è di sicuro. Su Hannah non ci metterei la mano sul fuoco, ma va comunque bene così. Prendo solo lo zaino, le chiavi e il cellulare, praticamente superfluo negli ultimi giorni.

 

 

Si può vivere senza?

Direi di sì.

 

 

Mi dirigo così verso casa, seguito dai due cani scodinzolanti e festosi. Entro allora nell’atrio, venendo accolto dall’odore di qualcosa che cuoce in forno. La stretta in gola che sento dopo aver messo piede solo nell’ingresso, è tale da stendermi al tappeto. Accidenti, sono emotivo è vero, ma questo sta avendo del patologico. Cerco di calmare i battiti forsennati che mi stanno sfondando la cassa toracica, e appoggio lo zaino a terra. Lo specchio che ho di fronte mi mostra un ragazzo di ventiquattro anni con due occhi al momento troppo grandi e troppo lucidi sul volto pallido e tirato. Hmph…. Se volevo ingannarle raccontando loro quanto sia stata fantastica questa vacanza e quanto mi sia divertito e quanto mi abbia fatto bene staccare e bla, bla, bladirei che sono proprio sulla strada sbagliata.

 

 

Lij?”, sento allora chiamare la voce di Debbie, per vederla poi fare capolino dal salotto. “Elijah, sweetie”, ripete con un bel sorriso sul volto, felice di rivedermi, cosa che accentua paradossalmente il mio malore. Il suo tono affettuoso è una specie di balsamo per le mie orecchie, ma si sta rivelando allo stesso modo rovinoso.

Eppure mi impongo di far finta di niente.

Devo leccarmi le ferite e lo farò in privato.

Solo gli idioti si tirano la zappa sui piedi come ho fatto io.

Ecco perché non mi va che mia madre o Hannah mi vedano patetico, voglio dire, di più di quello che in realtà già sento di essere, ed in piena paranoia post-Cedar.

 

 

Da copione allora ruoto gli occhi in un’espressione scocciata da ragazzino che si sente grande e che odia essere coccolato. Lo faccio sempre, quando mia madre inizia a vezzeggiarmi come un poppante. La vedo avvicinarsi ancora con quel bel sorriso e mi abbraccia, brevemente ma piena di calore. Un bacio sulla guancia a darmi il benvenuto e il mio: “Mamma, non ho più dieci anni!”, simil lamentoso. Potrei anche far finta di pulirmi la guancia, tanto per rendere il tutto più drammatico.

 

 

Per questa volta passi, mi dico forzando il miglior sorriso che ho adesso tra il mio repertorio e baciandola a mia volta.

Questa è davvero casa mia.

Non ci sono dubbi.

Ad indicarmelo è la tensione alle spalle che, nonostante questa specie di disagio che sto vivendo, è scomparsa.

 

 

Anche Hannah sembra in vena di dolcezze perché sbuca dal piano superiore, buttandosi a capofitto giù per le scale e mi getta le braccia al collo, abbracciandomi a lungo, salutandomi con un: “Heya uglybeen missing ya so bad”.

 

 

Mostro… c’è sempre chi tiene alta la mia autostima in casa, anzi se dovessi peccare di divismo, la lingua di mia sorella mi riporterebbe tra i comuni mortali in un nanosecondo.

 

 

“Voi no”, dico ironico, facendole scoppiare a ridere.

 

 

“Non sai recitare, Lij. Lo dico sempre io!”, tira fuori la linguaccia Hannah.

 

 

Mi forzo di frenare il fiume di parole che sento all’improvviso ostruirmi la gola. Vorrei raccontargli tutto, ma alla fine mi dico di no. Cerco così di alleggerire l’umore cupo prendendo in giro Han. “Cosa dovrei comprarti questa volta, sentiamo?”.

 

 

Mmh?”.

 

 

“Tutto questo entusiasmo nel vedermi , Han…”, spiego. “Di cosa hai bisogno?”.

 

 

“Oh! Non avevo capito”, esclama lei cadendo dalle nuvole.

 

 

Sì, come no…

 

 

Se proprio ci tieni, Lij. Ho visto dei vestiti niente male in centro. Se vuoi gentilmente finanziare…?”.

 

 

Appunto.

Vestiti? Credevo una macchina o qualcosa del genere.

Ovviamente nego però.

 

 

“Scordatelo”.

 

 

“Sei il solito coglione, Elwood”, mi fa notare. Un’espressione buffa sul visetto dai lineamenti più che carini e piuttosto simile a quello di nostra madre, se la piantasse di sperimentare tinte improbabili e make up da circo o Mardi Gras Parade/*.

 

 

E tu la solita sanguisuga”.

 

 

Ok, pulcini. Basta così”, cinguetta Debbie sorridendo serafica, sapendo come i suoi appellativi ci facciano ruotare contemporaneamente gli occhi dalla disperazione, e passandomi una mano sulle spalle. “Che ne dici di sgranocchiare qualcosa, Elijah?”.

 

 

Dio. Sono rientrato da meno di dieci minuti e mi sono sentito chiamare in diecimila modi diversi. Non riesco a credere di non aver sentito quasi per niente il mio nome durante l’ultima settimana. Pochissime volte. Come se mio padre lo avesse addirittura dimenticato, afferrandosi a malapena al mio primo nome. Senza diminutivi né nomignoli. È una sensazione strana e scomoda, un rospo che mi è difficile da inghiottire, e immerso in queste considerazioni non ho ancora risposto a mia madre.

 

 

Sweetie?”.

 

 

Sorrido cercando di allontanare l’angoscia e focalizzarmi sul senso della sua richiesta. Anziché fingermi infastidito, lascio che la dolcezza e la nota di preoccupazione insite nella sua voce mi riempiano con il loro solito calore. “Magari”, annuisco con lo stomaco chiuso, ma al contempo desideroso di sgranocchiare qualcosa che elimini il sapore amaro che ho in bocca.

 

 

Dell’altra cioccolata forse. Non so se potrebbe compiere il miracolo.

 

 

“Vieni in cucina. Hannah ha cercato di impastare una torta. È quasi pronta. Avrai l’onore di assaggiarla”.

 

 

“Neanche morto”, nego aspettando la reazione fulminea e logica di mia sorella.

 

 

“Idiota”, sbotta, infatti, lei, secondo quel rituale da pantomima che per me equivale a normalità e a casa e che mi è mancato come non mai.

 

 

__________________

 

/* Sfilata allegorica di che si tiene il giorno di Carnevale, Martedì Grasso appunto, a New Orleans, Louisiana. Viene anche eletto un Re per l’occasione. Una specie di mastro cerimoniere. Di solito personaggi famosi, tra cui Elijah.

 

 

  
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