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Autore: Luine    07/12/2010    1 recensioni
Quando mi hanno regalato questo diario per il mio dodicesimo compleanno, non credevo che mi sarebbe stato tanto utile. Credevo che sarebbe rimasto intonso come quando l'ho scartato. E, invece, eccomi qui a scrivervi sopra e a raccontare la mia (strana) vita.
Mi chiamo Ken Iccijojji, vivo a Tokyo con i miei genitori, Videl e Gohan, e con mia sorella maggiore, Pan.

Kenny ha dodici anni, una sorella maggiore alquanto turbolenta e una situazione familiare decisamente movimentata. A causa del terrore di sua madre di vederlo diventare come Pan, si ritrova iscritto in una scuola speciale per ragazzini problematici che già da subito si rivela essere una vera e propria caserma militare.
Tra paure, insegnanti molto duri, amici fidati e misteriosi, incomprensioni, equivoci e risate, si snodano le vicende di Kenny che come valvola di sfogo ha il suo diario, sul quale annota le sue più intime paure e i fatti di vita quotidiani, cercando di convincere se stesso che, forse, poteva andare peggio.
[ Dragon Ball, Digimon 02, Gundam Wing, What a mess Slump e Arale, e altri ]
Genere: Comico, Commedia, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le lezioni al primo anno.

Una giornata da dimenticare



23 Dicembre


Il trimestre è finito e anche il nostro soggiorno in caserma, per adesso. Siamo tornati oggi a casa e ci sono così tante novità che non so da quale cominciare. Quindi, forse è meglio partire dall'inizio senza troppi problemi.

Erano le cinque, quando mi sono svegliato. Heero ha, come al solito, battuto due o tre volte il pugno sulla porta, ci ha urlato di alzarci ed è andato a fare lo stesso alla camera successiva. La solita routine, insomma. Il bello era che, la sera prima, eravamo stati tutti d'accordo nel pensare che, essendo finito il trimestre, fossimo esentati dai nostri obblighi dell'alzabandiera. E così, tutti e cinque, abbiamo disattivato le nostre sveglie.

Alex, che doveva sapere che non era col trimestre che finivano i nostri doveri di soldati, è sempre l'ultimo a sapere le cose, stranamente. Ma forse non più di tanto, ormai.

«Ma che palle!» è stato il commento, condiviso, di ognuno di noi. Pan, per quel che ne sapevo, non doveva aver realizzato che ce ne andavamo per le vacanze, perché non ha proprio fiatato.

Quando mi sono alzato, mi sono affacciato in camera delle ragazze, dove ho visto i comportamenti più disparati e strani: noi ragazzi non teniamo così tanto al nostro aspetto la mattina presto, sembriamo più delle scimmie urlatrici che sbadigliano rumorosamente, scoreggiano e ruttano (non voglio dire che siamo proprio tutti così, ma, ecco, almeno per la mia esperienza, non ci stiamo così attenti).

Bra si stava pettinando davanti allo specchietto sul suo comodino, Mimi si truccava e Sora si stringeva nelle coperte, la faccia nascosta da una maschera verde e alcuni cetrioli. Arale, invece, stava rifacendo il suo letto. Quello di Pan, vuoto, era ancora tutto disordinato.

«Buongiorno, Kenny!» mi ha salutato la mia amica, alzando gli occhi e provocando reazioni che hanno spaventato anche me: Bra e Mimi sono schizzate in piedi, urlando isteriche e lasciando cadere spazzole e trucchi; Sora è balzata a sedere sul letto, stringendosi nelle coperte e, scuotendo la testa, ha cominciato ad urlare a squarciagola: «Aiuto! Aiuto!»

I cetrioli sono caduti sulle sue mani e questo ha provocato nuove ondate di panico. Una scena così era ancora tutta da vedere.

«E PIANTATELA!» così Arale le ha fermate, mentre si richiudeva la porta alle spalle. Confuso, anche se decisamente sveglio, mi sono grattato la testa. Trowa, ripresosi a meraviglia dall'ultima batosta di Pan, mi ha fatto un occhiolino con fare complice, mentre, con uno spazzolino da denti, si dirigeva nel bagno, ormai occupato da Alex. Il suo comportamento nei miei confronti è molto cambiato da che l'ho portato in infermeria aiutato da Frank. Mi ha pure ringraziato, quando si è ripreso.

«Tu non sei come tua sorella.» mi ha anche detto.

«Ehm...» ho balbettato, tornando a guardare Arale. «E Pan?»

«Stavo per venire a chiederlo a te!» mi ha risposto lei, candidamente. La mia prima reazione è stata quella più esagerata. Panico: mia sorella non era nel suo letto, non ronfava come un maiale e non sbraitava nel momento in cui veniva svegliata... c'era decisamente qualcosa di sbagliato. E se fosse stata male?

Sarebbe stato un trauma: Pan non ha mai preso una malattia, da che la conosco. Non ha mai preso la varicella, quando io, per sfiga, l'ho presa due volte; non ha mai preso l'influenza e io ero sempre a letto con la febbre; non ha mai avuto la polmonite e io sono stato mandato a forza da nonna Kiki per due inverni di fila perché avevo “bisogno di aria buona”, almeno secondo il dottore.

Quindi, Pan non poteva stare male. Ma, se così era, che fine aveva fatto? Ho deciso che ci avevo pensato troppo: sono uscito in pigiama ed ho cominciato a correre verso l'infermeria, ostacolato dai vari ragazzi che tentavano di raggiungere i bagni comuni. Le scale non erano mai state tanto intasate ed io non mi sono mai sentito così lento, nel mio tentare di dare una risposta decente alla domanda del giorno.

Quando sono arrivato alla porta dell'infermeria, l'ho spalancata ed ho fatto il mio ingresso, gridando: «PAN!» ma, quando mi sono visto sei paia di occhi puntati addosso, assonnati ed eccessivamente preoccupati, ho deciso di darmi una calmata per non allarmare più di quanto non fossero già quei sei ragazzi.

«Ehm... sapete... sapete dov'è la Johnson?» ho cercato di usare un tono il più calmo possibile, ma ero proprio trafelato.

«E' nel suo ufficio.» ha mormorato, assonnato, lo stesso ragazzo biondo che, tempo fa, mi aveva detto che Marquise non aveva fatto lezione. Si è posato una mano sulla fronte, come per spiegarmi il perché fosse così poco reattivo. «No... svegliarsi col mal di testa è davvero uno schifo!»

Non l'ho ascoltato più di tanto, mi guardavo intorno, alla disperata ricerca di un segno che tradisse la presenza di Pan, ma niente: tutto era troppo al suo posto perché potesse essere passata di lì.

Mi sono fermato di fronte alla porta dell'ufficio dell'infermiera Johnson. Ma era totalmente inutile chiederlo a lei: era chiaro che Pan non c'era. Sono corso fuori, ma non avevo davvero idea di dove andare.

Ero davvero preoccupato: avremmo dovuto partire alle nove precise dalla caserma e lei era sparita. Non sapevo che fine avesse fatto e già mi immaginavo le scene di me che tornavo a casa da solo, in mezzo a persone che si chiedevano quanto me che fine avesse fatto mia sorella, se fosse ancora viva. E mi immaginavo nonno Satan che urlava come un folle che la sua nipotina era sparita; la mamma che urlava isterica e papà che rimaneva ammutolito e smarrito, mentre davo la tragica notizia.

In mezzo a questi tristi presentimenti, mi sono fermato in mezzo al corridoio, fulminato da un pensiero. Le valigie di Pan, quelle che ha preparato ieri sera, prima di andare a dormire. Correndo, sono tornato in camerata, travolto dalla fiumana di persone che si apprestavano ad andare in cortile per l'alzabandiera, percorrendo la strada in senso contrario al mio.

Sono sgusciato sotto il braccio di un ragazzo alto e grosso che stava ridacchiando sguaiatamente e sono scivolato con la pancia tra le gambe di un altro. Non so come ho fatto, ma erano molti che, dopo questa prodezza, mi guardavano e additavano, forse anche per il fatto che ero in pigiama e scalzo, i piedi nudi sul pavimento gelido.

Quando ho spalancato la porta della nostra camera, mi sono guardato intorno: magari mi ero sognato tutto, magari Pan era semplicemente caduta dal letto e nessuno se ne era accorto. Magari non ha neanche sentito le urla isteriche delle Scope: quando dorme non la svegliano nemmeno le cannonate. Ma quando sono rientrato nella camera vuota delle ragazze, solo il letto di Pan era ancora disfatto e il suo borsone era l'unico ancora aperto.

Mi sono fiondato su di esso senza pensarci: speravo di trovarci qualcosa. Ho cominciato a togliere tutto quanto, dalle mutande, ai vari giornalini che aveva comprato dal Sergente Hopkins in tutti questi mesi.

Li ho sfogliati, alla ricerca di un biglietto, di un messaggio che mi portasse a capire dove potesse essersi cacciata. E solo quando avevo perso ogni speranza, nel raccattare dalla borsa l'ultimo giornalino, ho visto l'indizio.

L'ho raccolto: era la scatola bianca e blu di un medicinale. Dentro c'era il foglietto illustrativo, ma non il flacone. Febbrilmente, cercando di far presto, mi sono messo a cercare a cosa servisse, prima di ricordarmi che nonno Satan lo prendeva tutte le sere. Quella che avevo tra le mani, era la scatola di un potente lassativo.

Ma se Pan ce l'aveva, mi sono detto in quel momento di folle lucidità, voleva dire che aveva problemi di intestino. O così speravo. Mi è cascato l'occhio su una frase inequivocabile stampata a chiare lettere sul foglietto illustrativo: ATTENZIONE!, recitava, AD ALTE CONCENTRAZIONI PUO' ESSERE FATALE.

E il terrore, a quel punto, è stato puro. Sono scattato in piedi: adesso sapevo dove andarla a cercare.

Sono scappato fuori dalla camerata, lasciando la porta aperta; ho cominciato ad aprire quelle di ogni bagno che trovavo, chiamandola a gran voce. La conosco abbastanza bene da sapere che mi avrebbe urlato di andarmene e che ero un maniaco. Questo mi avrebbe detto che stava bene e che potevo smettere di preoccuparmi.

Speravo di arrivare in tempo: Pan non ha mai saputo che il troppo stroppia e ha sempre esagerato su tutto, anche sulle medicine. Ogni volta che starnutiva, l'anno scorso, si andava a prendere l'antibiotico, ma, se il foglietto illustrativo diceva di prenderne un misurino da cento millilitri, lei se ne prendeva una sorsata direttamente dalla bottiglietta.

Memore di questo, mi sono messo a guardare sotto ogni cubicolo, ma, ogni volta che erano tutti deserti, passavo al successivo, pure in quello dei maschi: Pan non ha mai fatto distinzioni tra bagni dei maschi e bagni delle femmine.

Ci ho messo due ore, ogni volta ripetendo le stesse operazioni. Erano passate le sette ed era sorto il sole; tutti erano rientrati e si erano diretti in sala mensa per l'ultima colazione del trimestre, ma io ero ancora al secondo piano a controllare il primo dei sei bagni.

Mezz'ora dopo, scendevo le scale, ancora una volta sconfitto. Mi mancavano solo quelli privati dei professori, anche se dubitavo di trovarla lì: insomma, chi mai gliel'avrebbe fatto fare di andare proprio lì, quando ci sono da sempre stati proibiti? Ma si sa, Pan è strana e se le fosse passato per la testa, anche quello era possibile.

Così sono entrato nell'unico bagno del primo piano, il più pulito della caserma, se proprio devo essere sincero. Subito, quello che mi ha colpito, è stata l'ondata di fetore che mi ha aggredito le narici. Sì, quello era l'odore della cacca di nonno Satan, quindi, per ovvie deduzioni logiche, Pan doveva essere lì. Finalmente l'avevo trovata! Un po' del mio groppo in gola si era sciolto.

«Pan?» ho domandato, timidamente.

Nessuna risposta. E il mio groppo si è riannodato saldamente: quella pazza di mia sorella aveva usato dosi troppo elevate. Ma forse potevo fare in tempo e salvarla! L'infermeria non era lontana: l'avrei presa di peso, sotto le ascelle, magari l'avrei anche coperta, se...

Mi sono piegato sul primo cubicolo, poi sul secondo. E, infine, al terzo, l'ho trovata: pantaloni calati e scarpe pulite. Quando avesse avuto il tempo di lucidarle non lo sapevo, ma non mi importava. Mi sono messo in ginocchio e ho allungato una mano.

Ho afferrato la sua caviglia e l'urlo che lei ha cacciato, ha terrorizzato anche me, che ho cominciato a gridare a mia volta, ritirando velocemente la mano e gettandomi all'indietro, seduto a fissare con terrore la porta sprangata.

«Ma allora stai bene!» le ho detto, quando mi sono ripreso.

«Ma chi è?» ha chiesto una voce isterica che non era sicuramente quella di Pan. Mi sono sentito ghiacciare le ossa: non poteva essere...

«Ehm... ecco... lady Une?» ho risposto, incerto.

«SE NE VADA, PRIMA CHE LA FACCIA ESPELLERE, CHIUNQUE LEI SIA!»

Non me lo sono fatto ripetere due volte e sono corso via dal bagno. Ma, adesso, non ne avevo più da controllare. Dovevo accettare l'evidenza: mia sorella era sparita dalla faccia della Terra.

Così, scalzo, in pigiama, con un groppo in gola e senza più un briciolo di forza, mi sono diretto a mensa, sperando che i miei amici potessero aiutarmi.

Mi chiedevo quale fosse il modo migliore per dirlo ai miei e alla Une quando fosse uscita da quel bagno.

«Sa, lady Une, mia sorella è evaporata!», era decisamente sgradevole. E: «Sai, mamma, Pan è scomparsa nel nulla!» mancava di tatto. Cosa avrei dovuto fare?

Sono semplicemente entrato a mensa, dove l'allegria regnava sovrana, il caos sembrava moltiplicato per cento rispetto al solito. Non sembrava che agli altri mancasse Pan, ma io sentivo che non c'era, che era tutto profondamente sbagliato.

Quando mi sono avvicinato al nostro tavolo, mi sono piazzato tra Arale e Frank, che stavano mangiando allegramente, mentre io lottavo per non piangere.

«Kenny!» mi ha accolto la mia amica, gioviale. «Dove diamine sei stato?»

«Già, paramecio! Ti sei perso la miglior alzabandiera del globo! Oh, avessi visto la faccia della Une quando ha visto che al posto della bandiera c'erano un paio di mutandoni!»

«Ma non è vero! Lasciala perdere, Kenny!» mi ha consigliato Arale, ma l'ho ascoltata piuttosto distrattamente.

O avevo le allucinazioni, oppure avevo cercato una persona che era sempre stata sotto il mio naso. Ho alzato lo sguardo e l'ho vista. Lei era lì, seduta scompostamente di fronte ad Arale, una fetta biscottata in una mano e un bicchiere di succo d'arancia nell'altra.

«E tu che ci fai qui?» è stato tutto quello che sono riuscito a dire.

«Però...» ha risposto lei, disgustata. «La tua gioia di vedermi è invidiabile, schifoso verme!»

«NO!» ho gridato, ancora sconvolto. «S-sono felice di vederti! Ma... ti ho cercata tutta la mattina!»

Ho aggirato il tavolo e mi sono messo davanti a lei. «Che fine avevi fatto?»

Lei mi guardava come se fossi stato una cacca nel suo bicchiere e non capivo il perché.

«Che c'è?» ho chiesto. «Perché non parli?»

Lei ha accavallato le gambe. «Kenny, avessi capito un cazzo di tutte le stronzate che hai sparato! Si può sapere di che stai blaterando?»

«Tu...» l'ho indicata. «Tu eri sparita!»

«Ah, sì?» lei si è guardata il petto. «E quando?»

«Ma... ma... prima!»

O lei non capiva, o io non riuscivo a spiegarmi. Ero confuso, decisamente intontito per riuscire a concludere coerentemente una frase.

«Senti, Kenny, diciamocelo: piombi qui in pigiama, scalzo, e deliri pure. Sei sicuro di non aver bevuto qualcosa, preso un allucinogeno...» mi ha chiesto, sarcastica. Mi sono guardato i piedi e solo allora mi sono reso conto che non avevo preso le ciabatte. Cominciavo a pensare di aver preso qualcosa di pesante davvero. Ho guardato Arale, in cerca di aiuto.

«Stamattina... in camera... non c'era!» ho detto.

«E allora?» è stato il momento di Arale di fare le domande a cui non sapevo rispondere.

«E allora?» ho ripetuto, indignato. «Arale, ma... la stavamo cercando! Eravamo preoccupati!»

«Veramente...» ha risposto la mia amica, titubante. «Era all'alzabandiera.» ha aggiunto poco dopo, come se avessi dovuto pensarci da solo.

«Già.» ha confermato Pan, annuendo orgogliosa. «E ho anche preparato la colazione, come da punizione. E ho anche apparecchiato la tavola degli insegnanti!»

Mi sono voltato a guardarla: in quel momento mi ricordavo che la sua punizione si era protratta dato che i temi glieli avevo fatti io.

«Che c'è, paramecio?» ha detto, disgustata, squadrandomi dalla testa ai piedi. Dovevo avere una faccia davvero sconvolta. «Non credi che possa averlo fatto? Non mi ritieni una persona abbastanza seria? Ma guardati tu, che vai in giro scalzo come un barbone! Ah, che gentaglia che c'è in giro!»

Ha dato un morso alla fetta biscottata, mentre io mi sedevo al suo fianco, sconfitto.

Tutti i miei pensieri vorticavano furiosamente nella mia testa. Se avessi pensato a cercare direttamente in cucina o fuori, in cortile, non mi sarei dato tanta pena, non avrei trovato la Une in bagno e...

«Pan, dove l'hai trovato il lassativo?» ho chiesto, attirando l'attenzione dei nostri amici. Lei ha rischiato di affogarsi col succo d'arancia. Mentre tossiva, Alex le dava pacche sulle spalle per aiutarla a riprendere fiato.

«Che cazzo ne sai tu del lassativo?» mi ha aggredito lei.

«L'ho... visto nella tua borsa!» ho risposto, spaventato.

Si è alzata in piedi, furiosa, sbattendo il bicchiere sul tavolo. Credevo che, presto, avrei sentito lo stesso odore che c'era nel bagno della Une, ma questa volta sarebbe provenuto dai miei pantaloni. «HAI FRUGATO, BRUTTO LADRO!» ha gridato, attirando gli sguardi di tutta la sala.

«Oh, cielo, arriva Sark!» ha esclamato Alex, scattando in piedi. Davanti a noi, si è materializzato il professore biondo di cui Alex ci aveva parlato, dicendoci, tra le altre cose, che è un torturatore.

Si è fatto avanti, ma mi ha salvato, perché ha afferrato la mano di Pan, impedendole di darmi un pugno.

«Suvvia, sono sicuro che ci siamo modi più civili per...» ha guardato da lei a me con aria di sufficienza. «Per discutere.»

«Per esempio?» ha ringhiato mia sorella, col pugno pronto a colpire il mio naso.

«Nei paesi arabi, usano tagliare la mano destra dei ladri.» ha continuato Sark, freddamente.

«Professore, non credo che dovrebbe dare certi suggerimenti...» ho sentito dire ad uno spaventatissimo Alex. «Non a Pan, almeno...»

Ma mia sorella aveva già afferrato un coltello. «Buona idea!» ha approvato. Mi aveva afferrato un polso e, balbettando sconclusionatamente, cercavo di sottrarmi: già mi vedevo senza mano destra, urlante e con fiotti di sangue che sgorgavano dal mio povero braccio mutilato.

Inutile. Non aveva imparato la lezione.

Quando era riuscita ad imprigionare la mia mano sul tavolo, il polso teso, pronto per essere sacrificato, Sark ha afferrato quello di Pan.

«Ma...» ha continuato, opponendo fiera resistenza alla forza di mia sorella che, rabbiosa, guardava il mio polso, desiderosa di tagliarlo. «Qui non siamo in un paese arabo, o mi sbaglio?»

«Mi lasci!» ha ringhiato Pan. «Questo disgraziato merita una punizione!»

«Mi sbaglio?» ha ripetuto lui.

Pan ha stretto la sua presa d'acciaio sul mio polso. Il silenzio regnava sovrano nella sala. Sudavo copiosamente, mentre cercavo di tirare via la mano dalla stretta salda di Pan, con scarsissimo successo. Avevamo gli occhi di tutti puntati addosso e non volava una mosca.

«Ha frugato nella mia borsa!»

«Mi sbaglio?»

Perdevo velocemente sensibilità, qualcuno aveva cominciato a borbottare, forse per scommettere su chi dei due, tra Pan e Sark, l'avrebbe avuta vinta. E io già sentivo di rimpiangere il momento in cui credevo che fosse scomparsa.

«Ha invaso la mia privacy!»

«Mi sba-glio?» ha chiesto Sark, facendo maggiore sforzo per trattenerla.

«Cazzo, non sa dire altro?»

Si sono fronteggiati a lungo, squadrandosi in cagnesco, cercando un cedimento da parte dell'altro.

«Mi sbaglio?» ha ripetuto Sark per la centesima volta e speravo davvero che Pan rispondesse e che mi lasciasse andare, se proprio non voleva lasciare andare il coltello.

E, infine, dopo quelle che mi sono parse ore, dopo che avevo pregato tutto il pregabile, dopo aver promesso di lavare tutti i giorni la macchina di papà usando una mano sola, dopo aver promesso di aiutare la mamma col giardinaggio e di non pensare più male di nonno Satan ogni volta che torna a casa ubriaco, Pan ha ceduto, sbuffando.

«Cazzo, ma una soddisfazione, nella vita, me la volete dare?» ha chiesto, mentre il professore le riprendeva il coltello.

«Non qui dentro!» ha risposto, glaciale, rimettendo il coltello sul tavolo. «E ora liberi questo povero... invasore di privacy altrui.» Gli sarò grato per tutta la vita, lo giuro.

Ha aspettato che Pan eseguisse l'ordine, per guardarsi intorno e notare tutti gli sguardi curiosi, mentre io mi allontanavo in fretta dalle sue grinfie.

«Beh?» ha chiesto il professore, a voce alta. «Cosa avete da guardare? Lo spettacolo è finito! Finite le vostre colazioni e tornate a preparare le vostre valigie. Scommetto che i pullman sono già fuori che vi aspettano! E lei...» mi ha lanciato uno dei suoi peggiori sguardi di ghiaccio. «vada a vestirsi. Non credo che l'ultimo giorno del trimestre sia una buona scusa per credere di essere già a casa, non trova?»

Non sapevo cosa rispondere: come potevo raccontare che ero in quelle condizioni perché avevo cercato mia sorella in lungo e in largo, prima di scoprire che non era mai scomparsa?

Lui non ha chiesto; è semplicemente tornato al tavolo degli insegnanti, prima che avessi il tempo di ringraziarlo. Non sono comunque andato a farlo, per paura e per vergogna, ma sono felice che ce l'abbia avuta vinta su Pan, altrimenti ora mi ritroverei con una mano sola.

E' stato con lo stomaco vuoto che, vestito di tutto punto e con le scarpe, mi sono diretto ai pullman, col mio borsone, accanto ad un Alex davvero impressionato.

«Te la sei vista proprio brutta!» mi ha detto.

«Sono con te, amico.» è stato il saluto di Trowa, che mi ha dato una pacca incoraggiante sulla spalla, prima di sparire su uno dei quindici pullman parcheggiati nel cortile. C'erano tutti gli insegnanti con noi, tranne la Une. Alex ha detto che avrebbe dovuto tenere un discorso, ma Zack Marquise ci ha fatto sapere che per “gravi problemi” non avrebbe potuto farlo, ma che mandava tutti i suoi migliori auguri alle famiglie. E io, di quei gravi problemi, ne sapevo qualcosa...

«Buona fortuna!» ha rincarato la dose Tai Yagami, nel frattempo.

«Ci vediamo presto, spero!» mi ha augurato Matt Ishida.

«Non te la prendere!» mi ha detto Frank, mentre sistemavamo la valigia nel vano ai lati del pullman verde militare, forse capendo i miei pensieri. Ci siamo avviati verso la porta e abbiamo aspettato il nostro turno per salire. Arale era ai piedi del pullman, che ci aspettava per salire tutti insieme. Non sembrava molto allegra.

«Non me la prendo!» ho risposto, sconsolato. «Sono dodici anni che vivo così!»

«Aveva già provato a tagliarti una mano?» mi ha chiesto Alex.

«La mano no, ma l'orecchio sì!» ho sospirato, mentre, finalmente, riuscivamo a guadagnare l'entrata del pullman. Abbiamo cercato quattro posti liberi. Mentre ci dirigevamo verso alcuni posti vuoti al centro, ho raccontato la storia: «L'anno scorso, stavamo studiando Van Gogh e la professoressa ci aveva detto di disegnare un qualunque soggetto volessimo con la sua tecnica.» ci siamo seduti, Frank vicino al finestrino, io vicino al corridoio. «Beh, Pan voleva per forza farmi un ritratto dove io ero senza orecchio, ma aveva bisogno che lo fossi davvero perché il suo dipinto trasudasse realismo, almeno così ha detto. Mi ha rincorso per tutta la casa ed è anche riuscita ad acchiapparmi!»

«E chi ti ha salvato?»

«La vicina!» ho sospirato, nel ricordare. «Era venuta a portare una torta alla mamma, sai, se le scambiano... ed è questo che l'ha fermata. Poi mi sono dileguato fino alla sera. Sono tornato solo quando c'erano mamma e papà, quindi non mi ha potuto tagliare l'orecchio... in compenso, è arrivata a scuola senza dipinto!»

Alex ha fischiato, impressionato.

Arale, sistematasi davanti a noi, chiedendo uno scambio di posto ad un ragazzo, che è stato molto gentile a cederglielo, si è messa in piedi sul sedile, con le braccia incrociate sul poggiatesta.

«Mi chiedo perché non l'abbiano espulsa.» ha borbottato.

Frank si è stretto nelle spalle, mentre Alex si batteva un pugno sul palmo aperto dell'altra mano. «Forse perché era l'ultimo giorno!»

«Bah...» è stato il commento di Frank.

«Sì, effettivamente non vedo altre spiegazioni...» ha confermato Arale.

«Io vorrei solo sapere perché ha preso quel lassativo!» ho sospirato, guardandola mentre si liberava la fila facendo a spintoni con tutti quelli che le passavano davanti, nel pullman di fronte al nostro.

«E soprattutto dove l'ha preso!» ha esclamato Alex.

«Veramente, è il come, la cosa interessante!» ha risposto Arale. «L'unico posto dove possa aver preso una medicina è l'infermeria!»

«O Heero Yuy!» ha concluso Frank, scontento.

«No...» Arale ha fatto una smorfia. «Non credo che Heero si vada a rifornire di lassativi. La Johnson non glieli darebbe e gli armadietti dei medicinali sono sempre chiusi a chiave.»

«Avrebbe potuto scassinarli...» le ha fatto notare Frank.

«La Johnson è sempre in corsia.»

«Non ci credo che gliel'ha dato lei!» ha esclamato Alex, con veemenza. Ma poi ha scosso la testa. «La Johnson non ha mai dato medicine al di fuori dell'infermeria!»

«Magari Pan l'ha preso senza che se ne accorgesse!» ho proposto.

«Impossibile!» ha ribattuto Alex. «La Johnson è un mastino, quando si tratta del suo lavoro!»

«Non dimenticare che l'infermeria nell'ultimo periodo era piuttosto affollata! Qualcuno avrebbe anche potuto non vederla!» ci ha fatto notare Frank. Guardava fuori dal finestrino, verso il pullman dentro cui si era sistemata Pan. Sembrava molto concentrato, anzi, direi proprio arrabbiato.

Nel momento stesso in cui l'autista ha messo in moto, provocando la ola di tutti quanti intorno a noi, lui si è riscosso.

«E' stato piuttosto semplice, quindi!» ha detto, mentre dagli ultimi posti dei ragazzi avevano attaccato a cantare una canzone che non conosco. Si è piegato un po' in avanti, guardando prima me, poi Arale ed infine Alex. «Lei ha approfittato della confusione degli ultimi giorni del trimestre. Avete visto tutti quanti! Tu, Ken, l'hai sperimentato: la Johnson era oberata di lavoro e chiunque entrasse in infermeria non veniva notato o comunque la Johnson lo acchiappava per farsi aiutare e prendere le medicine. Mettiamo che Pan sia andata in un momento di maggiore caos, abbia trovato l'armadietto dei medicinali o ce l'abbia mandata la Johnson. Non sarebbe stato difficile farsi scivolare per sbaglio un lassativo in tasca, no?»

Lo seguivamo interessati, appassionati come ad una storia gialla. Peccato che, in questa, ci fossimo dentro anche noi e, soprattutto, mia sorella. «Aveva il modo e i mezzi per riuscire ad “avvelenare” la Une. Non ha chiamato nessuno, è scesa in cucina senza fiatare e non ha neanche urlato per svegliare tutta la camerata! Un comportamento molto sospetto, non trovate?»

Abbiamo annuito.

«Ha apparecchiato, da sola, il tavolo degli insegnanti e poi... beh, ha infilato il lassativo nelle uova della Une. Avete sentito Ken, no? L'ha trovata in bagno...»

Avevo raccontato, a grandi linee, la vicenda durante la nostra discesa verso il cortile, ricordandomi di aggiungere il fatto che la cacca della Une puzza come quella di mio nonno, cosa che ha suscitato l'ilarità di tutti e quattro. Sì, ripensandoci quella è proprio una scena da manuale.

«E se l'è presa perché Kenny, involontariamente, l'aveva scoperta...» ha concluso Arale.

«Già...»

Abbiamo sospirato tutti quanti, all'unisono, mentre quelli in fondo cercavano di coinvolgere il resto del pullman in un'altra canzone.

«Vorrei che la smettesse di comportarsi così!» ha esclamato Frank, proprio mentre attraversavamo a passo d'uomo il muro di cinta dal quale ero entrato in caserma quattro mesi prima, con quell'imbarazzante macchina rosa. Mi sembrava passata un'eternità da quel momento. Ci sono entrato così velocemente e così lentamente me ne stavo andando. Uno strano scherzo del destino... «Che ci guadagna?»

«Bah, non la capisco proprio!» ha risposto Arale. «E non è neanche così stupida, se ha ordito tutto questo!»

«Che ne dite se la smettiamo di parlare di Pan? Senza offesa, Ken, ma...» Frank ha scosso la testa, ma lo capivo. Ho annuito volentieri, mentre il resto del pullman intonava una canzone che conoscevo.

Ho dato fondo alle mie corde vocali e mi sono unito a loro, cercando di non pensare ai terribili momenti che ho passato, mentre Pan quasi mi tagliava una mano. E il bello, ricordavo, era che gliel'aveva suggerito Sark.


Il viaggio è durato quasi quanto quello d'andata, forse un'ora o due in meno: non c'era molto traffico per le strade. I quindici pullman avevano strada libera, solo che dovevano rispettare i limiti di velocità che, su quelle strade, è parecchio basso per i mezzi grossi. Ma tutti siamo stati recapitati alla stazione degli autobus di Tokyo verso le tre e mezza del pomeriggio. La stazione era praticamente invasa da mocciosi in divisa nera.

«Ma non è la stazione civile!» mi ha spiegato Frank, mentre cercavamo disperatamente le nostre valigie nel vano portabagagli. «C'è proprio una zona dedicata ai militari... ecco, tieni, Ken, questa è tua!»

Mi ha passato la mia valigia, ma non mi sono spostato: volevo aspettarlo, così da essere tutti insieme per i saluti e gli auguri. Avevo totalmente perso di vista Pan e la cercavo tra la fiumana di divise nere, ma senza successo: dopo un po', i volti mi sono parsi tutti uguali.

Non appena Frank ha ritrovato il suo bagaglio, ci siamo aperti un varco tra la muraglia di studenti che si accalcavano per riprendersi le loro cose e ci siamo avviati verso l'uscita, dove, ad aspettarci, c'erano Alex e Arale, tutti e due provvisti di un solo zaino.

«E' lì tutto quello che vi serve?» ho chiesto, perplesso, mentre trascinavo la mia borsa a fatica.

«Tanto non è che mi sono portata il guardaroba, in caserma!» ha esclamato Arale, facendo spallucce. Ha squadrato il mio bagaglio. «Tu, piuttosto, dobbiamo stare via due settimane, non due mesi!»

Non potevo dirle che non avevo mai preparato una valigia da solo prima d'ora, quindi ho preferito tacere e distogliere l'attenzione da me.

«E tu, Alex?»

«Io mi faccio prestare qualcosa da mio fratello Martin!» ha risposto lui, con leggerezza. Era così che scoprivo che Alex aveva un fratello. Mi sovviene solo ora che non ha mai parlato della sua famiglia e ho visto, stranamente, Arale scoccargli un'occhiata sospettosa come non accadeva da giorni. L'unica cosa che mi sono ricordato e che ricordo ancora è che lui una volta ci aveva parlato di sua madre e delle ragazze di cui si doveva occupare, ma che non erano le sue sorelle. Sono ancora piuttosto confuso, a riguardo.

Il mio amico si è sistemato meglio lo zaino sulle spalle e ci ha rivolto un mezzo sorriso. «Beh, gente... ci vediamo.» ha stretto la mano a Frank e gli ha dato una pacca sulla spalla; lo stesso ha fatto con me e ha abbracciato Arale. Poi si è diretto all'uscita ed è sparito tra la folla che lo stava imitando.

Non credevo mi sarebbe dispiaciuto così tanto dover salutare un amico, anche se solo per due settimane.

«Beh, vado anch'io.» ha detto, a quel punto, pure Frank, con un mezzo sorriso impacciato. «Credo mi stiano aspettando!»

Ha indicato un uomo alto e smilzo, vestito di scuro, ma, da quel che ho potuto vedere, non era un militare. Sembrava più un uomo d'affari rigido e inflessibile, con quei suoi baffetti perfetti e lo sguardo severo.

«Quello è tuo padre?» ho chiesto, curioso.

«Cielo, Kenny, non hai mai visto Douglas Kushrenada in vita tua?» ha sospirato Arale, sconsolata.

Ho scosso la testa.

Frank, però, ha riso e mi ha dato una pacca sulla spalla. «No, Ken, quello non è mio padre. Quello è Kenzo, il mio autista!»

Gli occhi di Arale sono diventati enormi come palloni, più o meno come la mia bocca spalancata.

«Tu... hai un autista personale?» ha chiesto la mia amica, senza fiato. Io rimanevo sconvolto, mentre ancora squadravo quel tipo di nome Kenzo che si avvicinava a noi con passo cadenzato, quasi quanto quello della Une.

Ci ha fissato a lungo, soprattutto a me che ho mantenuto una faccia da pesce lesso molto più a lungo di Arale. «Signorino Kushrenada, la macchina la attende!» ha detto, compito.

«Sì, arrivo subito... ehm... saluto... i miei amici!» ha risposto Frank, dopo un attimo di esitazione. Sembrava diventato tutt'altra persona rispetto a prima. Ci ha stretto la mano, rigido e formale come non lo era da quando ci siamo conosciuti. «Allora, arrivederci presto. Auguro a voi e alla vostra famiglia tanti auguri di Buon Natale e di felice Anno Nuovo!»

«Ehm... grazie.» ho mormorato, perplesso, facendo, in automatico, un piccolo inchino di ringraziamento. Arale ha fatto lo stesso, molto più allegra.

«Ci sentiamo presto! Anzi, guarda...» ha messo in mano a lui e a me un fogliettino con su un numero di telefono. «Questo è il numero di casa. Chiamatemi, mi raccomando!»

«Non mancheremo.» ha esclamato l'autista per Frank che guardava il foglietto perplesso. Sono rimasto piacevolmente sorpreso e ho guardato Arale, sorridendo.

«Certo!»

«Adesso andiamo, signorino Kushrenada, suo padre la sta aspettando. Deve presenziare al party organizzato da sua madre, per il suo ritorno...»

«Sì, certo...» ha risposto lui e, senza rivolgerci un solo sguardo, se n'è andato. Mentre si allontanavano, però, ho sentito qualcosa che mi ha leggermente infastidito. Il maggiordomo diceva qualcosa che somigliava molto a: «Non dovrebbe farsi vedere in giro con certa gente, signorino Kushrenada, se posso permettermi. Un giovane del suo rango non dovrebbe abbassarsi ad accompagnarsi con gente di tale risma! Uno dei due ha almeno un titolo nobiliare?»

Avrei voluto rispondergli che la mia amica ed io non siamo “gente di tale risma” e che lui era solo un dipendente del giovane di alto rango. Ma non l'ho fatto: un po' per mancanza di coraggio, un po' perché Pan mi ha preso alle spalle, battendovi sopra così forte da farmi lamentare a voce alta.

«Kenny, brutto idiota, se non ci muoviamo, mamma manderà i Caccia bombardieri a cercarci!» mi ha detto. Quello era davvero il modo migliore per dimostrare di non essere plebaglia, ma va beh... si sa che con Pan nei dintorni non bisogna mai fare programmi.

«Ehm... sì.» è stata l'unica cosa che ho risposto, memore di quella mattina. «Ciao, Arale.» ho alzato la mano che ancora stringeva il suo numero di telefono. Ho abbozzato un sorriso in sua direzione. «Ti chiamo, allora!»

Lei è diventata il ritratto della felicità ed ha annuito. «Ci conto, eh!» ma prima che potessi allontanarmi, mi si è gettata al collo. «Ottimo piano, Kenny!» ha detto al mio orecchio. Giuro che sono rimasto molto confuso, finché non ha continuato: «Tenere d'occhio Alex e Frank fingendoci loro amici! È stato un colpo di genio e se l'avessi capito prima, ti avrei dato una mano! Ah, sei così coraggioso! Incastrarli, in questo modo, sarà un gioco da ragazzi! Sei un attore nato, ma anche io non me la sono cavata male!»

«Ma... ma veramente...»

Lei mi ha lasciato andare e mi ha rivolto un sorriso raggiante. «Smettila di fare il modesto. Ci vediamo a gennaio!» mi ha detto, ed è sparita tra la folla, mentre Pan mi ha afferrato per la collottola, come ad un cane.

«Ti sei messo con la tappa della Norimaki?» mi ha chiesto, senza preamboli.

Ho ricambiato terrorizzato il suo sguardo: io mettermi con Arale, con una pazza siderale che crede che io voglia essere amico di Alex e Frank per incastrarli?

«Eh? Ma che dici?»

«Ma no, niente...» ha sbuffato lei, prendendo a guardarsi intorno. «Figurati se tu, con la fama di frocio che hai, potevi metterti con una ragazza!»

Non ho detto niente, ma non è comunque giusto che mi tratti così! Capissi se le ho mai fatto qualcosa di male: l'unica volta in cui sono stato io a vincere contro di lei è stato da bambini, quando dovevamo decidere che cartone animato vedere e poi ha deciso nonno Goku che voleva vedere quello che volevo vedere io.

Un attimo dopo, però, quando stava per riprendere a parlare, li ho visti: i nostri genitori, fermi di fronte alla macchina rosa che avevo visto l'ultima volta andare via dal cortile della caserma. Ci guardavano e non si muovevano, come se avessero avuto paura che potessimo non essere noi. Mi chiedevo se fossimo così cambiati in quattro mesi.

«I NOSTRI VECCHI!» ha urlato mia sorella.

Un attimo dopo mi ha inaspettatamente gettato addosso il suo borsone, facendomi crollare a terra: dentro, sembrava che ci fossero dei mattoni e, invece, erano tutti i suoi giornalini.

Mamma ha cominciato ad urlare, sgranando gli occhi, piena di terrore. «ODDIO!» ha gridato.

Pan, però, incurante, ha cominciato a correre con le braccia tese. «MAMMA, PAPA', DOV'E' NONNO SATAN?»

La mamma l'ha imitata, ma non urlava, guardava verso di me con terrore. Si sono corse incontro, come in quelle scene idilliache che si vedono solo nei telefilm strappalacrime con tanto di musica celestiale in sottofondo. Solo che, stavolta, la musica avrebbe dovuto essere un requiem tragico: tra me che tentavo di rialzarmi da sotto quel peso immane, Pan che correva verso la mamma e la mamma che correva verso di me, credo che ci sarebbe stata proprio bene.

«MAMMA!» ha gridato Pan.

«KENNY!» ha gridato la mamma, sorpassando Pan, senza neanche guardarla. Si è gettata su di me, tirando via il borsone dal mio sterno, poi ha cominciato a stringermi forte, togliendomi il respiro. «IL MIO BAMBINO! COM'E' SCIUPATO IL MIO BAMBINO!»

Nel mio agonizzare, vedevo Pan, a metà strada tra mamma e papà, sconvolta e sconcertata, mentre guardava noi, a terra, abbracciati. E, dopo essersi ripresa, ha cominciato a battere a terra un piede.

«DOVE CAZZO E' MIO NONNO? AVANTI, SALTA FUORI, VECCHIO DI MERDA!» diceva, guardandosi intorno forsennatamente. «MUOVITI, VECCHIA BAVOSA! C'E' LA TUA UNICA NIPOTE QUI!»

Attimi di panico. La mamma ha smesso di stringermi come una piovra e si è alzata. Nei suoi occhi vedevo solo furore.

«PAN!» ha gridato, furiosa. «SMETTI SUBITO DI URLARE! NON TI HO MANDATO IN UNA SCUOLA PER CALMARTI?»

«STAI ZITTA, VECCHIA MEGERA!» è stata la risposta di Pan. «SONO MESI CHE NON CI VEDIAMO E TU VAI AD ABBRACCIARE KENNY!»

La gente aveva cominciato a fermarsi, il traffico era bloccato perché loro erano in mezzo alla strada e le auto cominciavano a suonare i clacson con insistenza. Papà si è avvicinato al campo di battaglia con circospezione, forse per evitare di rimanere ucciso dalle urla.

«STAVI AMMAZZANDO TUO FRATELLO E POI PRETENDI ANCHE CHE TI ABBRACCI!»

«CERTO! ADESSO ANCHE LA PREFERENZA SUI FIGLI! COME MADRE SEI UNA MERDA!»

«NON OSARE, PAN! SE NON LA FINISCI, TI TENGO IN PUNIZIONE FINO A CHE NON TORNI IN CASERMA!»

«OSO! ECCOME SE OSO! LO DEVONO SAPERE TUTTI CHE SEI UNA MERDA!» e così ha cominciato a guardarsi intorno, incrociando gli sguardi terrorizzati di quelli che stavano guardando la scena. Ha indicato la mamma, mentre urlava: «LA VEDETE QUESTA DONNA? E' UNA MERDA CHE PREFERISCE SUO FIGLIO A SUA FIGLIA! CAPITO? E' UNA MERD...»

«ORA BASTAAA!» la mamma, facendomi perdere un battito, si è gettata su Pan. Hanno cominciato ad azzuffarsi sull'asfalto, mordendo e scalciando. Solo a quel punto, papà ha davvero avuto il coraggio di avvicinarsi ed ha strappato Pan dalle grinfie di mamma, tenendola per le braccia; mia sorella si dimenava, scalciava e latrava, i denti digrignati come una belva.

«LASCIAMI! LASCIAMI!» sbavava.

Per tutta risposta, un secondo dopo, è arrivata la polizia a sirene spiegate e ci ha arrestati tutti e quattro.


Dopo quattro ore in centrale, dove ci hanno lasciati tutti e quattro in cella (io e papà in una, mamma e Pan in due separate), un poliziotto è venuto davanti alla nostra cella.

«Nome, prego.» ha esclamato. «Devo fare il verbale! E VOI DUE SMETTETELA!» ha gridato, rivolto a Pan e mamma, che continuavano ad urlare come due forsennate parole che non comprendevo nel rimbombo della stanza. Subito, nel sentire urlare il poliziotto, tutte e due si sono zittite e lo guardavano sconvolte. «Grazie.» ha replicato quello, secco. Poi è tornato a guardare papà. «Insomma, le sue generalità.»

«Ehm... sono... sono Gohan Iccijojji.» ha risposto papà, debolmente. Quello ha inarcato un sopracciglio.

«Mmm... Iccijojji, eh?» ha detto, lentamente.

«Sì.» ha confermato papà, che ne capiva quasi quanto me.

«Bene. Torno subito.» il poliziotto è sparito così com'è arrivato e la mamma e Pan sono tornate alla loro rumorosa lotta verbale. Io e papà ci siamo lanciati uno sguardo sconfitto, silenziosi come quando ci hanno messo le manette ai polsi. Un po' strano che, a dodici anni (tredici, a giugno), un ragazzo sia già stato messo in galera. Ancora più strano che il suddetto ragazzo sia messo in galera insieme a tutta la sua famiglia.

Proprio mentre ero perso in questi pensieri, è arrivato un uomo vestito di marrone, anziano, i baffi pettinati e grigi come i capelli, l'espressione severa e gli occhiali rettangolari.

«Sono l'ispettore Soichiro Yagami.*» si è presentato, fermandosi di fronte alla nostra cella, con le mani dietro la schiena.

«Salve.» ha salutato papà, mentre io mi sono limitato ad un cenno della testa. Yagami... che fosse un parente di Tai o era solo un caso di omonimia? Dovrò chiederlo al mio compagno quando torno in caserma.

La mamma e Pan, intanto, continuavano la loro guerra.

«INSOMMA, SILENZIO!» ha gridato il poliziotto che, prima, ci aveva chiesto il nome. Tutte e due, di nuovo, si sono zittite.

«Grazie.» è stato tutto quello che ha detto l'ispettore Yagami, prima di prendere dalla tasca dei pantaloni una chiave. «E ci scusi, signor Iccijojji. C'è stato un terribile equivoco.»

«E-equivoco?» ha ripetuto papà, sconvolto quasi quanto me, mentre l'ispettore ci apriva la porta della cella. «Po-possiamo andare?»

«Sì, certo, signor Iccijojji.» ha risposto quello, serio. Sembrava quasi scocciato. «Gliel'ho detto, c'è stato un equivoco. Su, venite fuori. Lei,» si rivolse al poliziotto. «liberi le due donne.»

«Sì, signore!»

«Ma...» mentre papà usciva, seguito da me, si è fermato davanti a Yagami. «Ma lei è sicuro che...»

«Le ho detto di andare.» ha risposto quello, diventando improvvisamente glaciale, proprio come Sark. «Un agente vi accompagnerà fuori. Buon Natale, signor Iccijojji.»

«Buon Natale anche a lei, ispettore.» gli ha augurato papà. Yagami lo ha fulminato con lo sguardo.

«Vada, vada!» ha esclamato, allungando un braccio verso la porta. Papà ha annuito: ormai aveva capito anche lui che non siamo graditi neanche in prigione. Credo che il nostro sia l'unico caso di scarcerazione per cattiva condotta.

«Lo sa?» ha cominciato la mamma, puntando un dito accusatore contro l'ispettore Yagami a cui stavano cominciando a tremare i baffi, mentre a me le gambe: ero sicuro che, se mamma avesse offeso un ufficiale di polizia, dalla galera non ci toglievano neanche se cadaveri. «Lei è un gran maled... Gohan!»

Papà l'ha presa per le spalle, ha guardato me e Pan che, per quanto vicini, non ci siamo sfiorati neanche con un dito ed ha esclamato: «Andiamo, cara. Forza, ragazzi, si è fatto tardi.»

Mentre uscivo, sono sicuro di aver sentito distintamente l'ispettore Yagami sospirare. Ed era un inequivocabile sospiro di sollievo.


Siamo saliti in macchina alle sette e mezza di sera. Il viaggio fino a casa è stato silenzioso, ma quantomai teso. Tutti guardavamo fuori dal finestrino, ognuno per conto suo (tranne papà, naturalmente, che guardava la strada), ognuno perso nei propri pensieri, io troppo sconvolto per aver passato quattro ore chiuso in una cella e sbattuto fuori non perché innocente, ma perché casinista! Forse, se il senatore Douglas Kushrenada lo venisse a sapere, non mi darebbe il permesso di respirare la stessa aria che respira suo figlio e Arale penserebbe che sono stato condizionato dalle cattive compagnie.

Quando siamo scesi, però, ho capito subito che c'era qualcosa che non andava, che era cambiato qualcosa: la macchina rossa nel vialetto del garage, per esempio.

«Chi cazzo ha parcheggiato nel nostro garage? Chi è lo stronzo che...» ha cominciato ad inveire Pan, rompendo quel silenzio teso.

«Nessuno stronzo!» ha risposto mia madre, acida. «E' tutto perfettamente normale!»

«E come mai?» ho, finalmente, avuto il coraggio di aprire bocca.

«Ora lo vedrete!» ha tagliato corto lei. E' scesa dalla macchina e, una volta che tutti siamo stati in strada, seguiti dagli occhi indagatori di tutti i vicini, ci siamo diretti verso la porta di casa, riverniciata di uno stranissimo colore viola.

Mi aspettavo di tutto, tranne quello. E non parlo della porta.


*****


* Soichiro Yagami, Death Note


Bene, bene, bene. Ecco qui il capitolo tredici. È un peccato non poter inserire quello natalizio proprio durante questo periodo di festa, dato che comunque ce ne vuole un altro prima di arrivare al cenone cruciale e visto anche che pubblico con una frequenza piuttosto bassa. Comunque, a parte questo, ho inserito anche i personaggi di Death Note che saranno abbastanza marginali, a parte qualcuno, che vedremo nel capitolo di cui ho parlato qualche riga più su. Ora abbiamo solo qualche domanda in più: di chi è l'auto rossa? E cosa dovrà aspettarsi Kenny, una volta varcata la porta di casa?

Spero sia stato di vostro gradimento. ^^

Luine.

  
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