Ore 17.30, Beach Haven, New Jersey.
Mischa
scese dall'aereo per prima, un po' immusonita. Sua madre, Kymbel, che
non aveva affatto voglia di replicare, si appese al braccio del nuovo
marito e scese piano gli scalini. A seguire c'era Carter, col suo
immancabile pallone da rugby sotto il braccio.
“Già
mi piace questo posto!” disse Kymbel entusiasta toccando
terra.
“Sì,
anche io. Non vedo l'ora che arriviamo a casa, così
finalmente
la potrete vedere!” disse Matt rivolto ai ragazzi.
“Ognuno
ha la propria stanza, vero?” chiese Carter a sua volta.
“Naturalmente!”
“Bene...”
“Mischa!
Mischa, non è emozionante per te?” chiese la madre.
“Molto...”
rispose lei con tono svogliato.
Andarono
al ritiro bagagli e ognuno ne prese circa due e mezzo, prendendo in
prestito un carrello per portarli nel parcheggio. Mischa, ultima del
gruppetto, quasi non sfondò il braccio ad un ragazzo
lì
accanto che tentava di arrivare al suo bagaglio sul tappeto rullante.
“Scusami! Scusa tanto, non volevo” disse gettando a
terra il
borsone beige e correndo ad aiutarlo, per quanto potesse correre,
dato che erano vicinissimi.
“Non
fa niente”
“No,
davvero... Ero sovrappensiero, non ho fatto minimo caso
a...”.
Distolse lo sguardo dal suo braccio dolorante, che il ragazzo
massaggiava debolmente, e lo fissò sul suo volto, sui suoi
occhi. Celesti, intensi, cristallini.
“È
tutto okay...”. Anche il ragazzo fissò il suo
sguardo su di
lei, sul suo visino di porcellana, dolce e fresco, e sugli occhi
splendenti. “Ne-neanche io ero molto attento... Ah, sono
Tayler”.
Le tese la mano.
“Mischa”.
La ragazza gliela strinse, incantata.
Qualcuno
dall'altra parte del tappeto la chiamò.
“Mischa!”. Carter
aspettava la sorella con un trolley in mano e un borsone in spalla,
mentre più in là la madre e il patrigno erano
voltati a
spingere due carrelli colmi.
“Oh!
Ehm, devi andare - Tyler la salutò - Il ragazzo
aspetta”
“Già,
devo andare... - raccolse il borsone da terra e un paio di borsoncini
più piccoli – Scusa ancora”.
Salutò con un cenno
della mano e corse via.
Tyler
scosse il capo e aspettò di prendere il trolley dal tappeto.
“Annabeth,
vieni qui per favore!”. Un uomo chiamò la figlia
dal piano
di sotto e, quando questa giunse, la invitò a sbirciare
dalla
finestra con lui. “Dovresti andare dai tuoi amici a spiegare
loro
che il prato non è una discarica”.
Indicò dei ragazzi
intenti a bere e mangiare con disinvoltura insozzando il prato della
vicina di casa, loro madre, e una parte di quello del signor Beckett.
“Papà,
non sono miei amici. E non sono io a dover fare loro la predica -
sbuffò infastidita – Piuttosto, perché
non vai a
parlare con la signora Tremebond?”
“Io?
Nono, cioè... Sarei inopportuno, ora che...”
“No,
saresti solo un esempio di cittadino responsabile”
“Naturalmente!
Naturalmente... - sembrò poco convinto - Tu dici?”
“Assolutamente!
- la ragazza sorrise fiduciosa al buon genitore e prendendolo per un
braccio lo spinse fuori dalla porta – E sono sicura che con
la tua
meravigliosa cortesia, che tutti nel quartiere ti invidiano, la
signora ti ascolterà con piacere”.
Robert
J Beckett sorrise alla figlia e si diresse a passo spedito verso
l'abitazione della vicina.
Un
ragazzo del gruppetto, vedendo il padre di Annabeth superarli e
suonare il campanello, approfittò della sua distrazione, e
di
quella di fratelli ed amici, per andare dalla ragazza. “Ciao
Anna”
“Brandon...”.
La ragazza lo salutò sufficientemente, senza neanche
degnarlo
di uno sguardo.
“Allora...
non mi inviti ad entrare?”
“Dovrei
farlo?”
“Direi,
in nome dei bei momenti passati alla spiaggia...
sì”.
Sorrise sincero.
Annabeth
sorrise a sua volta e lo fece accomodare in casa.
Questa storia è destinata a rimanere incompleta. Forse. ;]