Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: MadamaButterfly    08/12/2010    2 recensioni
Questo breve racconto risale a parecchi anni fa. Ho deciso di trattare di un tema che mi sta molto a cuore (la Shoah) attraverso lo sguardo di una ragazzina come tante,come lo ero io quando scrissi questa storia. Spero vi piaccia,
MadamaButterfly
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
NOVEMBRE 1943 - AMSTERDAM - RIFUGIO DELLA FAMIGLIA EBREA WASSERTRUM E DELLA FAMIGLIA EBREA DUSSELDORF - Pioveva a dirotto quella sera. Il vento ululava come un lupo alla luna piena, le gocce di pioggia picchiettavano ritmicamente sulla finestra della soffitta. Attraverso di essa mi veniva solo un pallido riflesso della miseria che regnava e sovrastava ciò che rimaneva della mia città. Gli eleganti palazzi di quella via erano stati ridotti a degli edifici in stato di abbandono, avevano perso la bellezza e la ricchezza che ispiravano un tempo per lasciare spazio a un simbolo di devastazione. Spogli del loro antico splendore, grigi, l’intonaco staccato, i muri in parte distrutti da bombe, carri armati. Quanto di più orrendo l’uomo era riuscito a creare per i suoi scopi. Per la strada non più gente amichevole e disponibile, ma solo polvere, calcinacci e fango. Ogni tanto passava qualche mendicante solitario, perlopiù bambini stretti in miseri cappotti che costituivano tutti i loro averi. Più che esseri umani parevano spettri, corpi la cui anima era stata da tempo ormai uccisa dal dolore. Camminavano a passo svelto per la via guardandosi attorno timorosi e sospettosi. Alcuni, resi più coraggiosi dalla fame, sostavano qualche secondo raggomitolati a terra, scavando freneticamente con le braccine ossute tra i calcinacci, animati dalla vana speranza di trovare qualche misera briciola con la quale sfamarsi. Le loro anime erano decedute da tempo, eppure non potevo fare a meno di tremare al solo pensiero che gran parte di essi sarebbero morti prima o poi, in un modo o nell’altro. Pochi rimasugli della vita precedente della cittadina se ne stavano nascosti sotto la polvere, a terra, sporchi e stanchi di vivere, ma come fiori nel deserto resistevano tenacemente a tutto pur di disseminare un poco di speranza. Un ombrello giallo a fiori rosa con la tela stracciata spuntava, sporco e ormai inutilizzabile, dal cumulo di macerie in un angolo della via; una vecchia macchina da scrivere sanguinava inchiostro dietro una finestra rotta, su un vecchio tavolo sgangherato; un libro bruciacchiato e ormai illeggibile urlava di dolore, buttato a terra sul balcone di fronte alla mia finestra. Guardavo ormai da ore lo scempio che la Guerra aveva fatto del mondo di fuori, e ancora non avevo distolto lo sguardo, ancora osservavo incredula la visione di un mondo che non poteva essere quello in cui ero vissuta da quando ero bambina. Non riuscivo a capacitarmene, eppure quel mondo era lì, ben visibile attraverso il vetro opaco. Potrebbe sembrare ridicolo, ma mi sentivo in colpa a starmene nascosta al sicuro mentre di fuori la mia patria pativa le pene dell’inferno. Mi chiedevo, perché a me? Che cosa avevo fatto per meritarmi tutto questo? Molti dei ragazzini che guardavo ora, a pochi metri di distanza da me, erano certamente mille volte migliori di me, eppure si dirigevano verso morte certa mentre io me ne stavo al calduccio assieme ai miei cari. Ecco che di nuovo ero assalita da quell’indefinito eppure rodente senso di colpa. Ecco che di nuovo voltavo lo sguardo da quell’immagine di miseria e mi strofinavo gli occhi umidi. Ecco che di nuovo, sentendomi sopraffatta dall’impotenza, cercavo di nascondermi da me stessa, dalla mia insignificante persona che tanto voleva ma che nulla poteva di fronte alla morsa della Guerra che stringeva tutti noi ebrei. - A tavola! – La voce della mamma. Uscii a passo svelto fuori dalla stanza che dividevo con Hanneli, la mia sorellina, quasi a fuggire dai cupi pensieri che come parassiti si erano attaccati al mio cervello. Oltrepassai il breve e strettissimo corridoio ed entrai, attraverso un’insignificante e piuttosto malridotta porticina di legno, nel minuscolo scantinato che noi rifugiati azzardavamo chiamare “sala da pranzo”. Seduti gomito a gomito attorno al tavolino traballante che stava nel mezzo della “sala” c’erano cinque persone, tutti ebrei, tutti spaventosamente magri, le cui facce mi erano tremendamente familiari. Nessuno di essi si era fatto scrupoli ad aspettarmi: tutti si erano immediatamente buttati sul misero piatto di piselli che i nostri ospitanti, Assunta e Stefano, erano riusciti a procurarsi al mercato nero. Era da qualche tempo che nei nostri piatti trovavamo solo verdura, e per giunta in quantità inferiore a quella che ci sarebbe voluta per mantenerci sani e forti. Ma quando la fame ti stringe lo stomaco, semplicemente smetti di pensare, e mangi. Mi unii immediatamente a quella comitiva sedendomi accanto al signor Wassertrum, il più colto e educato dei miei compagni di rifugio. Era un uomo alto, distinto, con una corporatura robusta che avrebbe fatto tremare un orso. Si distingueva dagli altri per le sue maniere compassate, sempre educate, riflesso di chissà quali radici aristocratiche. Prima del ‘40 il signor Wassertrum era un uomo molto amato e stimato da tutta la comunità, ebrea e italiana. Mai nessuno allora sarebbe riuscito a raffigurarselo povero e preda della fame com’era ora. Ma dopotutto, la guerra non aveva risparmiato nessuno, aveva portato alla morte o alla miseria tutti gli ebrei, ricchi e poveri. Nonostante l’ammirazione che provavo per le maniere di quell’uomo, tra i sensi e la mente scelsi i sensi: mi gettai a capofitto sui miei piselli, sgranocchiando al contempo la fetta di pane azzimo poggiata alla mia destra. Finalmente la morsa che mi aveva stretto lo stomaco mi diede un poco di tregua. Riuscii addirittura ad assumere un’espressione serena, anche se sapevo che quella notte stessa, a una data ora, avrei nuovamente sentito il mio stomaco accartocciarsi come un pacchetto di carta. Una volta terminata la mia porzione guardai speranzosa la tavola, anche se sapevo che il cibo era stato rigorosamente diviso in modo equo da Assunta, e che di conseguenza non avrei trovato alcuna briciola in più. E invece, una volta poggiato lo sguardo sul tavolo, mistica apparizione: una fetta di pane in più era stata messa per errore nella ciotola che lo conteneva! Nel momento esatto in cui le persone lo videro, si gettarono con un urlo animalesco sull’oggetto del loro desiderio. Persino io per un secondo persi la testa e diedi gomitate qua e là per raggiungere il cibo che pareva essere stato messo lì solo ed esclusivamente per placare la mia fame. Riacquistai subito la ragione: mi sfilai via da quella massa di corpi che ancora si contorceva. Li guardai, sconsolata. Era a questo che ci eravamo ridotti? Tutti noi eravamo prigionieri di un mondo dove la guerra regnava sovrana ovunque, di qualsiasi portata fosse. Parliamo tanto di pace e di amore, senza accorgerci che ciò contro cui lottiamo si trova attorno a noi, è ovunque, aleggia nell’aria e nulla può scacciarla. La guerra fa parte del nostro essere, distaccarcene completamente è impossibile. Tutt’a un tratto un urlo sovrastò le voci concitate di quella gente disumana: - Smettetela... basta ho detto, BASTA!!! – Tutti ammutolirono. Calò un silenzio di tomba, gli uomini-bestia sedettero composti. Tutti gli occhi nel frattempo balenavano, famelici, verso quella fetta di pane che aveva scatenato la guerra. Era la mamma che era riuscita a riportare l’ordine, come sempre d’altronde. Era lei che portava i pantaloni in casa prima della guerra, assumendo ai nostri occhi la figura inquietante del despota dalla presenza costantemente vigile. Ricordavo con nostalgia la sua dolcezza di un tempo, quando alla sera, per farci addormentare, ci cantava dolci canzoni dei tempi andati. Cosa aveva prodotto in lei quel cambiamento radicale? Non ero mai riuscita a trovare risposta, tuttavia per una volta il suo atteggiamento si rivelava una virtù. Sapeva assumere il comando spontaneamente, e altrettanto spontaneamente la comunità glielo cedeva, rassicurata e allo stesso tempo intimorita dalla sua figura austera. A guardar bene mia madre non era brutta. Nonostante la povertà l’avesse leggermente sciupata, i boccoli nerissimi le ricadevano sulle spalle dolcemente, gli occhi azzurri e acquosi e il naso aquilino destavano un tempo l’ invidia e l’ammirazione di tutte le donne del paese. Eppure solo la sua espressione arcigna e la sua postura austera rendevano spiacevole il suo aspetto anche a occhi estranei. - Signori - proclamò con aria d’importanza - vi prego di comportarvi da persone civili. Nonostante, come tutti ben sappiamo, la nostra condizione non sia delle migliori, ciò non significa che dobbiamo necessariamente comportarci da incivili. Perché non prendete esempio dal signor Wassertrum? – Il signor Wassertrum non si era mosso di un millimetro. Continuava a mangiare compostamente il suo piatto, mentre quello degli altri era già stato svuotato da parecchio tempo. Né aveva cambiato atteggiamento quando la mamma l’aveva nominato. Ancora una volta lo ammirai e desiderai ardentemente essere come lui. - Signori - riprese la mamma - se vogliamo conservare il nostro contegno come il qui presente signor Wassertrum è necessario che questa manna improvvisamente caduta dal cielo venga divisa in favore della comunità. – - Ma non si rende conto - prese la parola la signora Wassertrum, moglie del signor Wassertrum - che così facendo moriremo tutti di fame? Nessuno riuscirà a sfamarsi con poche briciole. – L’aspetto della donna che aveva preso parola cozzava completamente con la bellezza della mamma. La signora Wassertrum era una donna alta, secca, aveva la voce starnazzante di una papera e un naso che pareva il becco, appunto, di una papera. Era una donna petulante e lamentosa, si considerava al di sopra di noialtri, credeva di avere classe, come amava ripeterci. Si vantava spesso del suo adorato maritino, che da parte sua mai si lamentava della donna, ma cercava di ignorarla per mantenere il suo contegno. - Perciò secondo lei - riprese la mamma, la voce e l’espressione del viso deformati dal disgusto verso la sua avversaria - la soluzione sarebbe continuare a scannarci come bestie per un tozzo di pane? – - In realtà - ribatté la donna ignorando il sarcasmo della mamma - pensavo di donare questa inaspettata fortuna al più meritevole di tutti noi, ovvero, come lei stessa ha ricordato, mio marito, il signor Wassertrum. – - Lei è completamente pazza! – La mamma si alzò in piedi sbattendo con foga i pugni sul tavolo. Era piuttosto lei che sembrava impazzita. Guardava la sua contendente con furia omicida, una vena che le pulsava sulla tempia. - Vorrebbe quindi farci morire tutti di fame e salvare una sola persona?... o forse due, visto che sono convinta che il suo atto di altruismo sia motivato dalla certezza che con la sua generosità il suo maritino le cederà metà del pane ricevuto! – - Ma come si permette? - la signora Wassertrum imitò il gesto iracondo della mamma - Non farei mai una cosa del genere! Come può soltanto pensare... - - Signore, vi prego!- intervenne il babbo. Mio padre era un uomo tarchiato, con pochi capelli in testa, un tipo molto pacifico, sottomesso alla moglie e al mondo intero. Gli volevo bene perché era una persona colta che mi aveva seguito fin da quando avevo mosso i miei primi passi. Mi aveva insegnato a leggere, a scrivere, ad andare in bicicletta. Ma più di tutto mi aveva insegnato il valore dell’amore come la mamma non era mai riuscita a fare. Nonostante questo, in parte lo odiavo per l’atteggiamento di devozione nei confronti di sua moglie. Se solo fosse riuscito a farsi rispettare un po’ di più... La mamma lo fissò con uno sguardo che lo avrebbe potuto incenerire. Il babbo si fece piccolo piccolo, pur non rinunciando a farle calmare e balbettando con aria impacciata qualcosa di incomprensibile. Amava la pace e la quiete, il mio babbino, e non sopportava conflitti nella sua dimora. Come se non fosse successo nulla, le due donne ripresero a litigare arrivando, a un certo punto, a urlarsi contro, scatenando, come se non bastasse, il pianto della piccola Hanneli. La sala era tornata a essere un putiferio. A parte me, il babbo e il signor Wassertrum, tutti urlavano a squarciagola. Ognuno voleva dire la sua, farsi sentire, avere ragione. Ognuno voleva avere la meglio, ognuno voleva predominare su quel branco di cani randagi a cui ci eravamo ridotti. E intanto il tozzo di pane che aveva scatenato la lite se ne stava lì, sul tavolo, dimenticato da tutti. D'improvviso mi tornò in mente la fame che avevo, che ancora mi rodeva lo stomaco. Ai miei occhi, d'improvviso, quel misero tozzo di pane prese a risplendere di una luce dorata, celestiale. Sarebbe bastato un attimo. Tutti erano impegnati a litigare, nessuno si sarebbe accorto del mio gesto. Mi sarebbe bastato allungare la mano, poi ingurgitare il cibo. In fondo sarebbe stata un'azione buona. Avrebbe messo fine alla disputa in corso. E allora perché indugiavo ancora? Perché la mia coscienza continuava a urlarmi che quello che volevo fare era sbagliato? Ancora me ne stavo ferma, madida di sudore freddo, a farmi domande, quando vidi Figaro, il gatto randagio ormai diventato parte integrante della nostra famiglia di rifugiati, saltare sul tavolo. Prima andò verso di me, si strusciò contro il mio petto, mi fece le fusa. Ma visto che io lo ignoravo (stavo ancora soppesando le varie possibilità che avevo) , ben presto si allontanò. Passeggiò un po’ sul tavolo, incurante delle urla generali, gettando occhiate sospettose sui piatti per vedere se era rimasta qualche briciola. Ma la sua ricerca era inutile: per esperienza, Figaro sapeva bene che gli umani erano più affamati di lui, che erano meno abituati ad avere lo stomaco vuoto, e che di conseguenza non sprecavano mai nemmeno una briciola del cibo che mangiavano quotidianamente. Continuò, nonostante tutto, la sua passeggiata, finché i suoi occhi verdi non incontrarono il mistico Tozzo di Pane. Fu un attimo: con pochi movimenti veloci il fortunato animale raggiunse il cibo, lo addentò e lo ingurgitò. Cosicché quando io alzai lo sguardo verso l'oggetto del desiderio di ognuno, quello si trovava ormai al sicuro nello stomaco del loro gatto.
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: MadamaButterfly