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Autore: BigMistake    08/12/2010    2 recensioni
Dal prologo:«Sapete Colas, mia madre mi diceva sempre di aver paura dei vivi non dei morti!» le labbra truccate si distorsero in un sorriso sadico. «Non temo i fantasmi!»
Ispirato al musical cinematografico del 2004: Mentre si consuma il dramma del Fantasma dell'Opera la Parigi del 1870 sta cambiando. Gli ideali della Rivoluzione sembrano essersi dispersi, i ceti medi vanno via via scomparendo mentre la borghesia ed i nobili si preoccupano solo delle proprie tasche. Gli assetti della società mutano in maniera drastica, vecchie fazioni amiche si trovano su fronti diammetralmente opposti. La Guerra incombe sulla Francia con la sua scia di morti innocenti e corpi straziati, viziando il giudizio del popolo sull'Imperatore e decretandone il declino. Nell'ombra i vecchi giochi di potere e politica continuano a muovere i fili dei propri burattini. Questo è lo scenario mentre l'Opera Garnier è al rogo. Qualcuno osserva la scena, attende risposte da tempo. Ci sono mostri mascherati da Angeli, Angeli caduti che cercano di rialzarsi, ali strappate... Ed al Fantasma dell'Opera non resterà che adeguarsi al mondo che l'aveva rifiutato ...
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christine Daaé, Erik/The Phantom, Madame Giry, Nuovo personaggio, Raoul De Chagny
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lumière Noire - Deux anges tombés'
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Consiglio Musicale: Se volete potete ascoltare il Lacrymosa dal Requiem di Mozart come sottofondo, è stata la mia colonna sonora per scrivere.

 

CHAPITRE DIX: Qui est le vrai monstre?  

  

Magnificat
anima mea Dominum,

et exultavit spiritus meus
in Deo salutari meo

quia respexit humilitatem ancillae suae …

 

Al tramonto salivano gli scalini della Trinità dei Monti poco lontana dalla sua casa, dal loro inferno fatto di cristalli e vili abbellimenti barocchi. La piccola Lucia aveva già la smania di essere brava in ogni cosa che faceva, uno spirito di competizione nato e vissuto con la sua personalità, fiorito con i giochi e continuato poi quando da ragazza aveva intrapreso una via contraria alla sua educazione.

Nel tragitto ripeteva le preghiere del vespro mano nella mano con la madre che, nonostante le sue proteste di bambina cresciuta, non poteva far altro che tenerla salda al suo fianco e Beatrice che come uno spettro camminava accanto a loro nel mutismo più assoluto.

Ogni volta che entrava in quella Chiesa, tra quelle mura fatte di pietra e legno, si sentiva in qualche modo più sporca.

Colpevole.

 

Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

 

L’aveva plagiata a tal punto da farla sentire una Maddalena al centro della piazza, l’aveva costretta a pensare che le pietre scagliate dalle sue parole velenose non fossero del serpente ma le proprie convincendola che ogni suo sbaglio, il suo sgusciare di notte nella loro camera, nel suo letto accanto a quello di Lucia fosse esclusivamente una sua colpa.

 

… deposuit potentes de sede,
et exaltavit humiles;

esurientes implevit bonis,
et divites dimisit inanes.

 

La piccola Lucia non sapeva nulla di tutto questo, lei la notte dormiva ed attendeva che gli Angeli le portassero i sogni più belli.

L’unica sua speranza, l’unica.

Quanto ancora poteva preservare la sua innocenza, quando temeva che  le mire del padre si sarebbero spostate?

Quando lei sarebbe stata troppo grande ed invece Lucia lo sarebbe diventata abbastanza?

Sentiva che era il suo compito di sorella maggiore proteggerla, la sua speranza di salvezza il suo sacrificio, la sua redenzione.

 

“Mi tenti come il Diavolo tentò nostro Signore nel deserto. Ma io sono debole, io non sono il Cristo figlio dell’Onnipotente morto per noi, la mia carne è debole e tu, Beatrice, sei il Demonio!”

 

Un tramonto come tanti altri, il Magnificat ripetuto con solerzia dalla squillante vocina della sorella che non dimenticava una sola parola alla sua tenera età.

Una distrazione della madre e dalla mano sgusciò via verso la piazza trafficata il più delle volte, con la leggerezza assoluta di una infante.

La carrozza che correva velocemente e l’avrebbe sicuramente travolta.

Una madre impietrita ed una sorella che l’aveva tirata via contro il suo petto, sul ciglio della strada.

Quel giorno Beatrice disse a Lucia solo tre parole, tre parole che rimasero marchiate nel suo pensiero.

“Non lasciarmi sola!”

Eppure l’aveva lasciata sola, l’aveva abbandonata quando ancora entrambe non ne erano a conoscenza, quando ancora non sapeva che altri occhi erano puntati sulla bambina ingenua che aspettava i sogni portati dagl’Angeli, quando ancora la sua innocenza non era stata turbata dalla vista dello scempio di un corpo e dal rantolo stomachevole che l’aveva svegliata.

Una duplice violenza.

 

Suscepit Israel, puerum suum,
recordatus misericordiae suae,

sicut locutus est ad patres nostros,
Abraham et semini eius in saecula
. ...

 

Non lasciarmi sola.

Lo ripeteva ogni volta che ne sentiva il bisogno, rivolta al cielo dove sperava fosse osservata almeno di sfuggita, quel tanto che bastasse ad adempiere alla sua promessa urlata a Beatrice mentre veniva portata via verso lidi lontani e solitari.

Ritornerò Beatrice, ritornerò e ti libererò io stessa dal tuo tormento …

Non aveva mantenuto la promessa, non vi era riuscita.

Ed ora Beatrice continuava a piangere su di una tomba vuota senza lapide dove altri corpi inanimati giacevano, non il suo.

Lucia Agata Della Loggia era morta nelle carceri di Castel Sant’Angelo, la notte prima di essere giustiziata all’età di diciotto anni non ancora compiuti.

Fu una giovane guardia svizzera a leggere il comunicato alla famiglia, la mattina stessa che si stavano preparando per assistere alla decapitazione della propria figlia e sorella.

Ed invece si prepararono per identificare il corpo di una ragazza dai capelli castani e il volto tumefatto: irriconoscibile se non fosse stato per il crocefisso in argento che portava al collo, un pendente regalatole dal Monsignore Faralli quando ancora era una bambinetta che ripeteva il Magnificat prima dei vespri.

L’aveva già scelta allora.

Piccola carne fresca da cui il padre sperava di ricavarne qualcosa, non conosceva ancora l'aridità del suo ventre.

“Il Cristo ascolta le tue preghiere, devi solo essergli devota e vedrai che ti aiuterà nel tuo cammino …”

Fede, virtù e carità.

Non si era forse abbandonata completamente a Dio? Non aveva riposto tutta la sua fiducia in Cristo e nello Spirito Santo? Non aveva amato Dio al di sopra di ogni cosa terrena?

Anche questa era diventata una menzogna, una chimera a cui aggrapparsi?

La giacca riposava abbandonata su di una delle vecchie panche gonfiate dall’umidità, il suo spettro illuminato dalla traballante luce di una candela troppo consumata, mentre lLui era rimasto nell’ombra ad osservarla: seduta in terra tra i ruderi dell'operato umano che si avviava alla sua fine, immobile e statica mentre bisbigliava parole in latino.

Non l’aveva seguita, non l’aveva nemmeno cercata.

Sapeva già di trovarla in quella piccola costruzione, una croce su di una cartina ed una macchia di sangue a portarne l’effige. Un rifugio di anime tormentate, una cappella abbandonata con ancora l’umile e scarno mobilio logorato dal tempo. La sua pianta circolare si ergeva come un tamburo di una bassa volta per pochi metri, circondando con le sue pareti quattro panche di cui solo una era rimasta utilizzabile. Le altre erano diventate prolifico terreno fertile per l’edera, che impietosa invadeva ogni spazio, dalla più piccola crepa nel muro fino alla grande statua in legno della Madonna che ormai indossava un vestito fatto di foglie e rami nascondendo lo smalto azzurro quasi del tutto scrostato.

Dietro le sue braccia protese in avanti ed aperte alla misericordia, un'ampia finestra avrebbe dovuto far entrare tenui bagliori colorati di un sole che un tempo non veniva tagliato dal fitto della vegetazione, ma si distendeva libero disegnando il volto di una tenera natività. Invece, ora, solo un ramo di un albero troppo cresciuto penetrava attraverso di essa, deturpando irrispettoso gran parte della testa del Cristo bambino e la gota sinistra della Vergine, mentre le radici distruggevano in un’azione costante quello che allora era stato un mosaico sul pavimento.

Eppure la fiamma che ballava su di un disconnesso candeliere era viva ed impazzava in proiezioni sempre più astruse, le quali ricordavano i mostri oscuri spaventosi dei primi giorni ai sotterranei dell’Opera. Li ricordava ancora, grandi e orribili, ricordava ancora come si riflettevano in ombre scure contro le pareti, muovendosi inanimati come tanti burattini.

Un bambino, seppur Figlio del Diavolo, è pur sempre un bambino.

Il coraggio non gli era mai mancato, no. Mai nemmeno quando aveva affrontato le sue paure infantili, quando cominciò a rubare le prime candele per ricacciarli nell’ombra da cui provenivano, prima che divenissero l’unica sua compagnia nel buio.

Conosceva ogni singolo singhiozzo ascoltato, la disperazione che aveva colto nella solitudine di una cappella abbandonata.

Conosceva tutto quello che Malice stava provando, lui stesso lo aveva sentito sulla sua pelle.

Al rifiuto di sua madre.

Ad ogni frustata inflitta per la semplice ragione di essere diverso.

Mentre diceva per sempre addio a Christine.

Perché?

Era così assurdo.

Come poteva una donna che riusciva ad ottenere tutto con il minimo sforzo essere così simile a lui? Come poteva provare un dolore così forte da costringerla a divenire un’assassina crudele e spietata?

Per lui c’era stato odio e disprezzo, per quello che era, per il suo volto deforme.

Cosa l’aveva trasformata nella mercenaria che l’aveva colto in inganno quel giorno ormai lontano mesi?

«Conoscete la Commedia di Dante Alighieri? Avete letto il Paradiso?» e sapeva anche che il buio non poteva reggere contro la sua capacità di individuarlo sempre ed ovunque, così come il suo sguardo bucava l'oscurità, la scavava come gli occhi di un gatto capaci di sfondare la tenebra più profonda in cui vi era una fanciulla con il capo risollevato vagando alla disperata ricerca di qualcosa attorno a sé, un messaggio, un segno, qualsiasi cosa che le parlasse di Dio, indicandole ancora la sua presenza, che era con lei, che tutto questo fosse uno dei suoi incubi.

No, era peggiore dei suoi incubi e non c’era nulla se non una statua invasa da arbusti e piante riconquistando il posto che era stato strappato.

Ti ricordano gli occhi di Christine che cercavano oltre il buio della cappella per trovare la tua voce, Erik? Ricordi il suo sguardo oltre lo specchio prima che prendesse la tua mano?

Tu sei pronto a compiere il salto?

«Sì …»

«Dopo aver vagato disperso sul mondo terreno, visto le profondità più oscure dell’inferno, la speranza delle anime nel Purgatorio Dante giunge nel regno eterno del Signore, dove finalmente si purifica dai suoi peccati e trova la via della redenzione. Era il modo di mia madre di dirmi che c’era speranza sempre, ma io non sapevo nulla ero troppo bambina, troppo piccola per capire …» un altro passo, in un abisso a lui fino ad ora sconosciuto.

Lo spiraglio che aveva già potuto ammirare un pomeriggio sotto l’effetto ipnotico della sua musica era di nuovo davanti a sé, si materializzò come in sogno con una piccola porta socchiusa, una lama di luce che s’intratteneva tra il suo stipite ed il battente. Non una porta: uno specchio a scrigno, in un camerino dell’Opera, la cui superficie si andava a nascondere nella cornice rivelando un mondo nero ed oscuro in cui si sarebbe nuovamente trascinato e la mano che si protraeva verso di lui non era guantata ed ingannatrice, ma esile, dalla pelle vellutata ed il volto coperto da molte più maschere di quelle che indossava un tempo lui.

Ma le sue si andavano sgretolando.

Avrai il coraggio di varcare quella soglia, Erik? Sopporterai un dolore che non è tuo?

Oltrepassarla significava entrare in un mondo a lui ancor più estraneo, un mondo in cui la sua follia non aveva giustificazioni. Sapeva benissimo che al di là di quello spiraglio, di quella confessione c’era un mondo che apparteneva ad un’altra persona, bella e con il viso perfetto, che aveva avuto una vita distruttiva suo pari e non aveva avuto scampo dalle stesse atrocità che lui aveva vissuto.

Riuscirai a condannarti vedendo il riflesso dei tuoi peccati e le loro ragioni?

Sarai in grado di varcare il suo oblio?   

Ancora un passo, il meno folle di tutta la sua esistenza.

Per la prima volta in vita sua ne fu intimorito.

«Perché non hai lasciato che Colas mi uccidesse …»non rispose. Era attonito davanti a quel soliloquio non riusciva a rendere sensato alcun pensiero. Si scontravano l’uno con l’altro in un marasma catastrofico e nulla era decifrabile, tutto confuso sotto impulsi che non concepiva.

Pensavi che avresti provato pietà solo per te stesso?

«Lo avrebbe fatto, ma tu lo hai fermato …» Placò i singhiozzi con un singolare autocontrollo che tentennò nel tentativo di alzarsi. Movimenti lenti resi ancor più pesanti dalla zavorra che le si era attaccata al collo, trascinandola dappresso a peso morto ancor più evidente quando si voltò verso di lui.

«Non merita di ucciderti.» fu la sua replica secca e perentoria. Lasciava trapelare una convinzione ormai radicata.

L’omuncolo non meritava di ucciderla, approfittando per di più di un suo momento di debolezza come colpendola alle spalle. Lei era l’eroina tragica di un opera grandiosa, la stessa che aveva visto prender forma mentre le sue ali nere da Angelo della Morte si dispiegavano sotto la luminosa lama di un pugnale orientale.

Come ogni eroina meritava la sua lotta apparentemente eterna, il suo conflitto finale con una morte struggente, liberatoria, che avrebbe fatto versare un fiume di lacrime.

Una visone parossistica di quello che la sua mente posizionava come giusto, giudice persino del destino altrui.

«E tu meriti di uccidermi?» Avrebbe potuto Erik, stringere il collo di quella donna, affondare le sue dita nuovamente nella sua carne morbida fino a sentire la sua vita scivolare attraverso i suoi ultimi rantoli.

Avrebbe potuto e lei non si sarebbe ribellata, né avrebbe chiesto pietà.

Anzi, lo stava praticamente pregando a farlo, un invito chiaro e semplice lo stesso che gli porgeva quando si avvicinava intossicandolo con la sua presenza così ingombrante e l’assoluto annientamento del suo sguardo.

È questo quello che vuoi, Erik? Sei disposto ad uccidere l’unica persona che con te sia mai stata sincera? Sei disposto a lasciar tacere la tua anima impersonificata?

Hai per caso paura di guardarle dentro?

Affrontarla, entrare in lei significava confrontarsi con la sua di realtà, giudicare quello che aveva compiuto lei sarebbe divenuto un giudicare coscientemente sé stesso e quella che era stata ritenuta una follia.

«Lui era mio …»

Ingovernabile, doveva sapere. Niente di ragionevole o sensato, lui doveva solo sapere.

Conoscere lei per conoscere sé stesso.

Condannarla per condannarsi.

«Chi?»

Come replica un rantolo infuriato, il suono gutturale del rancore che si avviluppava alla sua gola scoperta dal mento puntato dritto al cielo.

Rivolgeva la sua collera al nulla.

Un nulla che interloquiva muto, un nulla che assumeva il significato di Fede.

Odiava quel crocefisso e tutto ciò che aveva sempre rappresentato.

Odiava sé stessa e la sua vita.

Odiava Erik che l’aveva seguita solo per crogiolarsi di fronte al suo crollo, ridere beffardo sopra la devastazione e le sue macerie. Era lì per cosa se non altro? E l’incalzava a rivelarsi scoprendo le sue falle, le sue pecche magari facendole riaffiorare quando avrebbero ricominciato a litigare come due bambini che si contendevano lo stesso gioco.

Un gioco crudele di morte e tradimento.

I due Angeli che disputano l’accesso negato di un Paradiso che non esisteva per loro.

C’era solo lui che poteva godere del patetico spettacolo che gli stava offrendo. La Malice che tutti temevano, che aveva incastrato le più alte cariche dello Stato, intrufolatasi in ogni corte d’Europa e del mondo, ucciso senza indulgenza alcuna una scia infinita di uomini e donne, che non provava pietà per nessuno distrutta da una lettera.

Tutto il suo operato reso vano da una lettera.

La lettera con le sue parole, la lettera con la notizia che il suo giorno non sarebbe mai arrivato e che avrebbe all’infinito servito un regno che non era il suo, una patria che non riconosceva come propria, un Dio che la stava punendo nel più atroce dei modi.

Lo doveva a lei, lo doveva a Beatrice: io sarei stata la sua Giustizia.

«Immagino che tutto questo sia estremamente soddisfacente, vero Erik?» le distanze diminuirono ulteriormente. Entrambi avanzavano di passo in passo, con la cadenza monotona del crepitio delle foglie secche e del pavimento disarcionato dalle radici. Lei avanzava con una fiamma più reale dell’abbaglio che aveva visto la notte del Don Juan, avanzava come Christine sul ponte mentre le loro voci danzavano in tutto il teatro con la dirompenza di tuoni e fulmini.

Non c'era il suo Angelo, non c'era la sua eterna musa ispiratrice.

E lui, in quel momento non era più il Fantasma, non era il terrore dell’Opera: solo un uomo che ammirava alla luce morente della candela le ombre disegnate dietro di lei, come grandi ali piumate di pece sul manto oscuro di una sera precoce. L’Angelo nero avanza ingraziando la macabra notte fiero e potente, coperto solo del suo orgoglio caduto in pezzi.«Vi credete che non sappia cosa vi ha spinto a seguirmi, di come volevate accertarvi che io stessi soffrendo. Siete molto facile da leggere sapete?»

«Davvero? Cosa vi fa credere di sapere così tanto di me da sapermi leggere?» come poteva saperlo lei, se anche a lui era oscura la ragione per la quale si era ritrovato sui suoi passi? Aveva atteso al vigneto fin tanto che Colas non gli aveva augurato la buonanotte con il ghigno di chi si trova appagato di ciò che era successo, non avevano fatto parola a cena come se la sua assenza non fosse tanto importante. Aveva ascoltato di sfuggita la preoccupazione di Pilar che si confidava con la cuoca in cucina mentre l'aiutava a rigovernare le stoviglie e la cena sprecata.

Aveva  cercato nelle mappe della tenuta la croce che aveva visto quel giorno macchiata ancora del suo sangue, aveva indossato il suo amato mantello e preso uno dei cavalli non per crudeltà, non per stizza. Semplicemente per preoccupazione, perché sapendo di una donna sconvolta, da sola, di notte, nel bosco non avrebbe fatto tacere la sua coscienza.

Una coscienza che si risvegliò come allora, quando al suo posto c’era una bambina che aveva perso il padre.

Una coscienza risvegliata dal suo volto sconvolto, dal suo dolore, dal suo essere così simile a lui.

Ed era questo ad offenderlo di più, il come tutti si fermassero al primo gradino, al suo aspetto, al suo modo di presentarsi così spaventosamente rude.«Allora anche voi vedete solo questo in me? Il mostro che risiede in questa faccia! Il Fantasma dell’Opera … vedete questo e basta … come tutti … »

Sei il solito sognatore illuso.

Ti delude veder riflesso nei suoi occhi ciò che sei, quello che leegi ogni qual volta il tuo viso deturpato si scontra con lo sguardo atterrito della gente.  

Un mostro, di quelli orribili che si nascondono sotto i letti dei bambini per spaventarli.

Ma cosa sei se non il prodotto di ciò che ha costruito la crudeltà delle persone?

Perché ora che sentivi così vicina la possibilità di essere capito, di scoprirti e di scoprire ti trovi di nuovo un muro ancor più forte? Di cosa ti sta accusando questa serpe?

Gli occhi s’arroventarono nel buio come ferri incandescenti, le palpebre si strinsero così come i suoi guanti sulle braccia, poco sotto l’attaccatura delle spalle di Malice che gemette appena, non staccando mai il suo sguardo altero di sfida da quelle iridi tempestose.

Un mare in tempesta, come quel giorno ad Ostia quando vedevo la mia terra allontanarsi per sempre, un sempre che non doveva esistere per soltanto un giorno.

Il Giorno.

Il Giorno della mia vendetta.

Il Giorno che non verrà mai.

«Non mi conoscete, non mi conoscete affatto e come gli altri vi siete fermata al mio aspetto … vedete il mostro questo e basta non è così? NON È COSÌ?» avanzando la trascinò quasi sollevandola da terra e scuotendola come un manichino. Non gemeva, non rispondeva, era il suo viso a parlare per lei.

Non c’era paura, la benché minima ombra.

Solo rabbia. Tanta, infinita e sconfinata rabbia a traboccarle in preda ai tremori.

«Dite di essere un mostro Erik, pensate che io non lo riconosca?» ed ecco le affilate parole che attendevano entrambi, divenire più acuminate di un punteruolo nel penetrare le loro anime distrutte. Era giunto il momento di svelarsi esattamente quando Malice si scrollò di dosso la presa ferrea di Erik e quando lo assalì ulteriormente con una spinta data con tutta la forza che poteva possedere sul petto dell’uomo senza però smuoverlo. «Svegliati Erik, c'è qualcosa di peggiore di noi. Ti sei illuso di essere il crudele Fantasma dell'Opera. Ti dirò una verità assoluta: NON SIAMO NOI I MOSTRI! I veri mostri sono chi ci ha portato ad esserlo …» ed ancora provava a fargli del male, battendo i pugni e digrignando i denti con il vero furore ad impregnarle i tessuti. Interrompeva solo per gesticolare e donare più enfasi alle sue parole, con le mani che disegnavano ampi movimenti teatrali tra un pugno sul petto ed una lacrima incontrollata. «I veri mostri sono quelli che abbandonano i figli accusandoli di essere mostri. I veri mostri sono i padri che fanno della propria figlia l’amante, forzandola a giacere con lui, incolpandola poi di essere il Demonio ... ed una madre che tace consenziente …» batté ancora più violentemente, ma Erik non si scompose. Imperturbabile osservava le mani della donna cozzare contro di sé senza cercare di fermarla. Non era il punto colpito a dolergli, ma qualcos’altro di diverso, nascosto dalla coltre grigia con cui aveva ricoperto il suo cuore. «Il vero mostro è quello stesso padre che non riserva le stesse attenzioni alla secondogenita perché deve rimanere illibata per venderla al ricco monsignore, sperando in un futuro nipote bastardo …»

Non teneva tra le mani un candelabro, non distruggeva gli specchi nascosti nella sua dimora, non radeva al suolo il suo teatro preda delle fiamme. Ma tentava di abbattere lui, con la voce resa stridula dal pianto, il viso gonfio, i capelli a ricaderle sulla fronte e con la forza che andava scemando ad ogni urto. «I veri mostri sono coloro che ti nascondono la morte di quel padre per tenermi vincolata alla Sûreté … e quel Dio che si è preso senza ritegno la mia vendetta stroncando la vita del verme prima che potessi arrivarci …» ogni suo colpo divenne debole, incerto, quasi una carezza. E come il vigore con cui infliggeva i pugni veniva meno, così la sua testa iniziò a pendere verso il basso.

Per vergogna: la vergogna di aver servito la Francia per un scopo e non esservi riuscita, la vergogna di aver perso ogni dignità sotto lo sguardosuperbo del Fantasma, la vergogna di non essere stata in grado di governare la propria vita quando aveva sempre predicato indipendenza.

Si sentiva usata, molto più di quando era stata la protetta del Monsignor Faralli.

 «Non meritava una morte dolce, nel sonno … lui meritava di soffrire come ha fatto soffrire la mia Beatrice …»

Mia sorella amava la musica … mi piaceva ascoltarla.

Era una verità così grande da non essere contenuta in quella cappella abbandonata nel bosco, da non essere contenuta in un cuore straziato che rischiava di esplodere.

Beatrice la sorella che suonava il piano, Beatrice a cui piaceva la musica, Beatrice che ogni notte veniva sporcata dalle ruvide mani del Contabile degli uomini di Chiesa.

«Non lo dovevi a me, Signore Padre Onnipotente … ma dovevi lasciarlo alle mie torture  … era mio …» il respiro montava sopra ogni parola in quelli che sembravano solo vaneggiamenti. Malice stava lasciando la scena, scomparendo dietro il tendaggio rosso del palco immersa nel buio. Restava  dietro le quinte ad osservare la sua Lucia afferrare ogni diritto di cui era stata depredata, sola.

Lucia Della Loggia era ancora viva.

«Era il mio unico desiderio …» non pensava di riuscire più a versare una sola lacrima, ma ancora una volta si stupì di come sul suo corpo non avesse alcun potere. «Non mi rimane più nulla …»

Cosa aveva ora? Il guardare una croce inanimata tra le mani che non rispondeva nemmeno alle sue preghiere? La stessa che era stata su quel cadavere di mendicante e poi era tornata sul suo collo prima che albeggiasse il giorno? L’unica prova che lei fosse morta tra le torture perché non confessava l’eresia?

Era troppo. L’ennesima prova a cui la sua Fede non poté reggere, a cui il suo cuore iniziò realmente a sussultare, in cui lei si sentì perduta.

Allora era vero che il Dio misericordioso non esisteva. Se non per lei avrebbe dovuto farlo per Beatrice, per una vittima, uno dei suoi poveri figli maltrattati che aveva sempre rispettato suo padre carnefice.

«Non ho più niente, NIENTE!» un grido acuto, elevato oltre ogni silenzio oltre ogni rumore crollando sulle ginocchia in un tonfo sordo, di una grancassa stonata e vuota.

Il tintinnio dell’argento che rimbalza più volte prima di trovare  la sua tomba su di un letto di foglie e marmo, le piccole spalle rese ancor più piccole dalla curva che avevano preso verso il terreno, le mani incastrate tra i capelli in un gesto disperato.

Dio si è preso la sua vita senza alcun riguardo per la sua serva devota, senza alcun riguardo per una delle sue figlie più bisognose.

«È morto, mio padre è morto e non sono stata io ad ucciderlo!»

«Malice …»

L’aveva pronunciato così, senza avere altro da dire e non con un intento. Poteva toccarla, sentirla seppur aveva solo osato alzare una mano a mezz’aria, senza avvicinarsi, cercando di raggiungerla dal punto immobile dove i suoi piedi si erano pietrificati. Aveva ascoltato ogni singola parola come se fosse esterno al suo corpo, l’aveva vista colpita, ancora più distrutta.

Si vide in lei.

Soli entrambi, con i volti trasfigurati dall’oblio.

Soli contro il fato, soli contro il mondo, soli con la loro vendetta ed le loro anime calpestate.

Non avevano null’altro che sé stessi.

Lei aveva vissuto con la speranza che il suo odio potesse trovare sfogo.

Lui aveva vissuto con un’illusione d’amore per una vita.

Christine non era la voce che ascoltavi, non era la donna dei tuoi ritratti, non era colei che avrebbe curato il tuo cuore avvelenato dalle ingiustizie.

La Christine che avevi costruito era nella tua mente. Non è mai esistita.

Era la tua Constance.

«No …» era un sussurro, le mani che strofinavano gli occhi cercando di lavare le sue lacrime prima di tornare a guardarlo, con la mancina a sorreggerle il grembo mentre si stava rialzando.«Sapete cosa significa il nome Lucia, Erik?» le sue labbra tremarono quando quel nome s’increspò fra di esse, quasi ne temesse la pronuncia. «È un nome di origine latina che significa luminosa e splendente …»

La cera della candela si consumò oltremodo, permettendo allo stoppino di avere più superficie da ardere.

Come un effetto scenico la luce si fece più alta, illuminando gli occhi lucidi della donna ed il viso che con il raggio aranciato non dimostrava il notevole rossore sulle gote cotte dalle lacrime. C’era solo il baluginio dei suoi occhi scuri, due pozzi infiniti e resi cupi dalle ombre che ancora si animavano alla danza di fuoco del cero.

«Vi sembro luminosa e splendente, Erik?» silenzio.

E la mano che ancora era ferma a mezz’aria trovò il suo posto lungo il fianco. Era quindi questo il suo nome, Lucia?

Non sta forse illuminando il tuo animo nero, Erik?

Non con un faro o con una lanterna dall’ampio cono giallo.

Ma con una luce scura, tetra.

Sta avanzando nella caverna che avete scavato nei vostri petti con una luce tenebrosa che rende il vostro buio ancor più nascosto nell’ombra.

Lei non era la sua musa, non era la voce cristallina di Christine, non era Lei.

Portava con sé altre cose, una vita diversa, una voce diversa.

Aveva un bagaglio di esperienze ed era donna non bambina.

Aveva sofferto, pianto e reagito.

Il nero con il nero.

Lei stessa è una luce buia.

Irradiava oscurità nella sua aura nefanda.

Temibile ed affascinante come un serpente dalle spire mortali e dagl’occhi velenosi.

Guardava gli altri come se gli dovessero qualcosa, sentiva che tutti avessero un debito verso Lucia.

Persino Dio.

Une Lumière Noire.

Questa volta non avrebbe atteso, non avrebbe sperato silenziosamente dietro la maschera di Angelo.

No.

Era quello che desiderava e l’avrebbe preso attraversando con due grandi falcate la distanza che si era creata e prendendole il volto fra le sue mani, calde persino attraverso i guanti, rapendo le sue labbra con violenza.

Vorace come un rapace a cui era da troppo negata la sua preda.

Vorace come l’affamato in tempo di carestia.

Vorace come un assetato di amore a cui era stata strappata ogni possibilità di amare.

Stringeva quella piccola figura tesa e formata contro di sé, il volto dimezzato  sempre più chino per raggiungerla nella sua esigua altezza e nei suoi tentativi di sottrarsi. Nonostante la sua riluttanza, i suoi calci, le sue spinte e i suoi gemiti di protesta la sua ricerca non terminava, provando con sempre più insistenza di assaporare quelle labbra tentatrici, ingannatrici e sincere.

Sentiva i suoi muscoli, resi rigidi dallo sforzo dovuto alla ribbellione, sagomarsi sui suoi impegnati, invece, ad arrogarsi qualcosa che aveva sentito suo dal primo momento che aveva visto ardere i suoi occhi nel buio del suo teatro.

La voleva e l'avrebbe avuta, senza possibilità di scampo a differenza di Lei, che era fuggita lontana.

Lucia non avrebbe cercato la luce, già troppo abituata al buio, non avrebbe cercato l'aria affogando nel suo baratro.

Stringeva forte, l’avvolgeva interamente con il suo di corpo enorme in confronto, tanto che persino la cappa che indossava sembrava abbracciarla.

Ma lei provava a liberarsi, protestava con no decisi e soffocati dallo stesso bacio che l'imprigionava, le braccia tentavano vane di divincolarsi dalla sua morsa possessiva mentre avvertiva il respiro di lui divenire affanno sulla sua pelle. 

Erik percipiva il cuore in tumulto di lei scoppiarle in petto, mentre stringeva e stringeva ancora come un cappio.

Quando però sembrò cedere dischiudendosi anch’ella nella passione con cui la stava travolgendo, la fitta bruciante ed il sapore di ruggine nella sua bocca lo fece arretrare con un grido di sorpresa.

Aveva affondato i denti nel suo labbro inferiore.

Sui suoi guanti il liquido denso e vischioso gli indicava quanto fosse penetrata nella sua carne, abbastanza da ferirlo, abbastanza da volerne ancora.

Ma i loro occhi erano troppo impegnati a cercarsi nel buio, a trovarsi come in un sogno o un incubo in cui i punti di riferimento si disperdono senza possibilità di recuperarli tra gli ansimi di una corsa senza fine.

Tensione.

Frustrazione.

Ansia.

Tutto racchiuso in un bolla dove tempo e spazio sembrarono arrestarsi improvvisamente.

Il mondo non scorreva più troppo velocemente, Malice era scomparsa da dietro le quinte così come Constance, tornate ormai ai loro camerini chiusi a chiave dall’esterno.

Sul palco c’era soltanto Lucia, la donna non più la bambina: quella che aveva lottato contro il mondo della Chiesa, colei che dietro uno pseudonimo aveva raccontato delle Stragi di Perugia sul Piccolo Corriere Nazionale e che per due anni aveva denunciato ogni crimine di cui veniva a conoscenza attraverso la posizione privilegiata di protetta del Monsignor Faralli.

Lucia la donna che quando venne scoperta stava per essere uccisa da quello stesso Monsignore che la definiva la mia protetta. Uno dei pupilli del Cardinale Antonelli, Monsignor Favalli, il quale la desiderava già da quando era ancora nella tenera infanzia, che disse a suo padre di amare la carne freschissima ma che irremovibile avrebbe dovuto attendere la sua giusta maturità.

Lucia colei che prese il crocefisso in legno e lo scagliò contro la sua tempia così tante volte da rendere il suo protettore irriconoscibile e che, per essersi difesa, venne condannata a morte.

Lucia che divenne Malice in Francia solo per arrivare ad un giorno che mai sarebbe venuto, con la rabbia ed il rancore di un Angelo Maledetto.

Lucia che della Santa Martire portava solo il nome.

Perché lei era una donna, vera, non un’illusione che percorreva il suo sentiero a ritroso con la stessa impazienza e la stessa bramosia che aveva sentito Erik mescere nelle sue viscere. Gli venne incontro premendo le mani quasi a far penetrare la sua maschera nelle piaghe del suo viso e assaggiando, senza disgusto alcuno, il sapore del suo sangue con la stessa voracità con cui l’aveva accolta nel suo abbraccio.

E lui era un uomo non un Fantasma che sentiva i loro respiri confondersi affaticati, infrangersi e crollare sotto una passione estremamente carnale a cui entrambi appartenevano. Si arrampicava con la forza della disperazione sulle sue spalle, tenendosi salda al collo di lui mentre le sue mani già vagavano sotto la camicia bianca slabbrata dalla veemenza della loro esplorazione reciproca.

Il suo mantello, la sua giacca ed il suo panciotto vennero scaraventati uno di seguito all’altro in terra scomposti, mescolandosi in un rosa di stoffe diverse e dalle sfumature scure i cui petali non potevano essere ammirati da nessuno.

In loro c’era una nuova forza, impertinente e spudorata, scabrosa agl’occhi del mondo, un mondo che li aveva da sempre denigrati ed umiliati.

Era la loro rivincita.

Forse.

Capitolare al loro istinto, liberarsi del proprio dolore l’uno dentro l’altra, beffeggiarsi di tradimenti e bugie affogando i loro sospiri ed i loro gemiti nudi, stesi in terra tra foglie e detriti in preda alla natura animale dell’essere umano era la loro rivalsa.

Non c’erano maschere, schemi o programmi a cui aggrapparsi.

Non c’erano regole o imposizioni morali da cui nascondersi.

Non c’erano giudici o condanne.

Solo un uomo sfregiato nel volto ed una donna sfregiata nell’anima.

C’era Lucia e un uomo che aveva scelto lei.

C’era Erik ed il suo bisogno di sentire il calore umano di una persona che non lo guardava con disprezzo, ripugnanza o pietà per la sua ingiusta sorte. Lei vedeva Erik l’uomo, non il Fantasma dell’Opera, e lo provocava facendolo impazzire, ricordandogli di essere fatto di carne e sangue, di aver bisogno del calore.Del suo calore, del suo piacere dei gemiti contro la sua spalla e dei fremiti provocati dalle sue labbra mentre affondavano nella tenera pelle dei suoi seni o del suo ventre liscio e piatto.

Aveva bisogno dell’amore anche se fugace come un impulso, del bacio avido preda di una passione passeggera.

Aveva bisogno di qualcuno come lui, che si nascondeva dietro maschere per celare una deformità di cui non aveva nessuna colpa.   

Lei sa come cercare i veri mostri …

Eppure quando la sua mente smise di respirare, quando ciò che sentiva più vicino era il completo abbandono delle forze, quando tutto riprese a muoversi, sotto di sé attraverso la sua maschera, non vide la donna che l'aveva trascinato a terra.

Vide il suo sogno ricorrente, iIl sogno che portava il nome di un’ossessione.

Vide ciò che non avrebbe mai potuto avere.

«Christine …»

 

Note dell'autrice: Ok lo ammetto! Non doveva andare così! Non dovevano "consumare" così presto, ma quando ho iniziato a scrivere questa scena tutto è avvenuto con naturalezza ed i fatti si sono svolti con logica anche perchè ho spostatao alcune pedine della mia scacchiera. Già. Perchè ora ho in mente un finale leggermente diverso da come lo avevo progettato e quindi era ora che doveva accadere ed è stato faticoso e dura scriverne. Almeno spero che sia stato un capitolo gradito ... che fra parentesi non è del tutto finito troverà la sua conclusione nel prossimo.

Spero che il capitolo sia stato abbastanza esaustivo, che parli da sè perchè per me ciò che ho raccontato, seppur di fantasia, mi ha turbata.

Il Monsignor Favalli è di mia invenzione a differenza del Cardinale Antonelli e le Stragi di Perugia, nonché il Piccolo corriere Nazionale, che sono realmente esistiti ed avvenuti.

Se avete domande sono sempre pronta a rispondere, ^^ quindi lascio a voi la parola.

Se volete trovate l'intera preghiera del Magnificat QUI

Ringrazio Giuly Red Rose per la sua assidua presenza.

Serva vostra.

Mally

   
 
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