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Autore: Nezu    08/12/2010    0 recensioni
"Thomas non si mosse quando l’uomo arrivò accanto a lui con passo malfermo, né quando con evidente difficoltà si sporse per chiudere l’imposta; non si mosse, ma gli subentrò nella mente una breve sequenza d’immagini, della piccola spinta che bastava, del volo e del corpo esanime del signor Mistache riverso sul marciapiede sotto la finestra."
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Fandom: Originale
Titolo: You Crazy Diamond
Beta: dylan_mx <3
Rating: arancione
Warning: contenuti forti (malattie mentali, tentativi omicidio/suicidio)
Note: [Scritta per il BigBang Italia] questa storia è decisamente un mio esperimento, sia per lo stile di scrittura che è completamente diverso da quello che uso di solito (pochissimi dialoghi, pochissime se non zero scenette divertenti e soprattutto zero sesso), ma mi è venuto così e ho voluto provare a portarla fino in fondo. Il cognome di Thomas è rubato al falso nome del Master su Doctor Who, e anche il nome di suo padre. Ah, e nonostante la storia si articoli in 4 capitoli più un prologo ed un epilogo ho preferito postare tutto in blocco. Buona lettura ^^
Introduzione: Di ritorno da uno stage estivo Mihail Kivic', uno studente delle superiori, scopre che suo cugino Thomas, di cui non conosceva nemmeno l'esistenza, si è installato a casa sua. Dopo poco il nuovo arrivato comincia ad attentare alla vita di Mihail, cercando di mutilarlo e di ucciderlo; da quel momento Kivic' cerca di scavare nel passato di suo cugino per scoprire il perché del suo comportamento e tentare di allontanarlo da sé e dalla sua famiglia.

Gifter: harriet_yuuko (che ringrazio tantissimo, il gift è meraviglioso *w*)
Link al gift: Qui <3

Prologo - Before crisis

Alla prima imposta sbattuta dal vento il signor Mistache aprì lentamente un occhio assonnato e scrutò la stanza: si accorse subito che il biancore delle pareti, generalmente accecante, era ridotto ad un grigio sporco e che il cielo fuori dalla finestra aperta appariva più scuro che mai, quasi fosse già sera inoltrata e non primo pomeriggio. Accanto alla finestra Thomas era immobile come sempre, fermo a scrutare il cielo, l'enorme giardino che circondava l'edificio e il via-vai di infermiere e dottori che diventava sempre più frenetico man mano che il brutto tempo si avvicinava. L'imposta sbatté nuovamente facendo fare un piccolo balzo a Thomas, ma nonostante tutto il bambino non chiuse la finestra né cercò di bloccare lo scuro: rimase là, immobile, lo sguardo fisso sul signor Brum che spazzava le foglie secche da terra, là fuori in giardino.
Il signor Brum era stato probabilmente uno dei primi pazienti dell'ospedale, ma, nonostante fosse là da più di vent'anni, nessuno, né medici né pazienti, l'aveva mai visto fare qualcosa di diverso da spazzare le foglie secche, qualsiasi fosse la stagione. Ogni mattina si alzava di buon'ora, si vestiva, afferrava scopa e paletta e usciva in giardino che ancora era buio; e lì rimaneva per tutta la giornata, andando su e giù, a ripassare continuamente sotto gli alberi, dove trovava sempre qualcosa da spazzare. Le infermiere dovevano portargli il cibo fuori e la sera lo costringevano con la forza a rientrare per dormire, altrimenti il signor Brum sarebbe rimasto nel giardino anche di notte.
Se gli si rivolgeva una domanda o si cercava di attaccare bottone lui rispondeva con un grugnito, al massimo due. Ma ormai le infermiere avevano rinunciato a cercare di parlargli e i pazienti erano troppo presi da loro stessi per poter badare ad un uomo tanto insignificante e trascurabile, che non eccelleva né per prestanza fisica né per intelletto. L'unico che passava del tempo con lui era Thomas, ma ad esser sinceri sarebbe più esatto dire che spesso i due si trovavano nello stesso luogo contemporaneamente, ma non c'era condivisione tra loro, né tantomeno un legame. Il bambino usciva in giardino e osservava l'uomo che spazzava, nulla di più. Lo osservava e pensava continuamente quanto fosse stupido passare il proprio tempo a spazzare via le foglie in autunno, perché tanto dopo cinque minuti sarebbe ricadute esattamente dove il signore aveva già pulito.
Quando oltre all'imposta sbatté anche la finestra, con un gran fragore di vetro, il signor Mistache si decise ad alzarsi per chiudere tutto: si attorcigliò i voluminosi baffi con le dita sottili e poi, puntellandosi con le mani sui braccioli della poltrona, si alzò lentamente, barcollando un poco. Non era abituato a muoversi, addirittura i medici gli avevano sconsigliato di farlo, dato che ad ogni sua azione corrispondeva una catastrofe per chi gli stava accanto e per se stesso. Thomas non si mosse quando l’uomo arrivò accanto a lui con passo malfermo, né quando con evidente difficoltà si sporse per chiudere l’imposta; non si mosse, ma gli subentrò nella mente una breve sequenza d’immagini, della piccola spinta che bastava, del volo e del corpo esanime del signor Mistache riverso sul marciapiede sotto la finestra. Il bambino scosse un poco la testa, lasciando che quelle immagini si dissolvessero da sole mentre l’uomo tornava vacillando alla sua poltrona, finestra ed imposta entrambe ben chiuse.

La signora Millicent Marrel era stata abituata, durante la sua lunga carriera di donna delle pulizie, badante e baby-sitter, a vedere sempre più spesso bambini lasciati soli dai genitori, piccoli che pur venendo nutriti e vestiti per bene erano di fatto abbandonati da padri assenti e madri troppo impegnate per badare alla prole. E ogni bambino sfogava la propria solitudine in maniera diversa, o rinchiudendosi in se stesso, o cercando contatti al di fuori della famiglia o ancora in atteggiamenti capricciosi e intrattabili. Dopo più di quarant'anni passati a pulire vetri, accudire nonni e badare a bimbi la signora Marrel credeva di aver visto tutto ciò che poteva e doveva vedere, ma quando entrò nella cameretta di Thomas Saxon, figlio unico di ricca famiglia, si rese conto che quel bambino non era affatto normale. Aveva un sorriso dolcissimo, che avrebbe fatto sciogliere chiunque, due occhi di un verde splendente, vivi come non mai, e un'aria così innocente che davvero sembrava la quintessenza della tenerezza; solo che il suo passatempo preferito era strappare con una forbice gli occhi ai suoi peluches più belli, oppure aprirne la pancia per poi richiuderla dopo averla svuotata. E finché si trattava di peluches andava bene, purché non mettesse le mani su qualche animaletto di piccola taglia o su una farfalla. Perché Thomas Saxon amava ciò che era bello da vedere, amava appropriarsene e tenerlo solo per sé, considerarlo unicamente suo, farne ciò che voleva, accarezzarlo e coccolarlo o aprirlo in due, analizzarlo pezzo per pezzo. Tutto ciò lo rendeva estremamente felice e soddisfatto. Ma non gli interessavano le cose esteticamente belle, la bellezza da sola dopo un poco diventava noiosa: voleva le cose che gli facevano tenerezza, che riuscivano a sciogliere quello spesso velo di apatia che lo avvolgeva continuamente. Lo facevano sentire vivo e allora ecco che le desiderava, voleva che non lo lasciassero mai, in nessun momento e l’unico modo perché ciò accadesse era quello di non farle più muovere: sarebbero rimaste ferme, immobili, lì dove voleva lui, fino a quando lui non le avesse sostituite.

Anche quel giorno il caposala lo aveva sgridato di fronte a tutti ed era tornato all’appartamentino di pessimo umore, con la certezza che Vera necessitava di un bel clistere e che Claude era senza ombra di dubbio un grande stronzo. Per non parlare del direttore che gli aveva risposto male un paio di volte e che l’aveva totalmente ignorato nonostante lavorassero a neanche due metri di distanza l’uno dall’altro. Mihail Kivic' fissò il suo pallido riflesso sullo specchio del bagno, passandosi una mano tra i capelli: era stanco, stanchissimo, e doveva lavorare ancora per due settimane. Sentiva in cuor suo che sarebbero state due settimane lunghissime. Si guardò le gambe contando i lividi sulle cosce: non gli facevano male, ma un poco d'impressione sì. Gli bastava sbattere contro una sedia o sullo spigolo del carrello ed ecco che la sera si ritrovava macchie violacee o nerastre sulla pelle. Si guardò le mani e le trovò piene di calli. Prese mentalmente nota di andare a farseli togliere una volta finita la stagione, voleva riavere le sue morbide e candide mani da nullafacente.
Uscì dal bagno sospirando: gli mancava casa, era stanco e non vedeva l’ora di infilarsi sotto le coperte del suo lettuccio e dormire fino a mezzogiorno. Gettandosi di peso sul materasso ripensò a quello che sarebbe successo trascorse quelle due settimane; tornare a casa dopo così tanto tempo (a dire il vero erano solo tre mesi, ma a lui sembravano un’eternità) sarebbe stato strano, rivedere i suoi genitori, ricominciare scuola e via dicendo. Sarebbe tornato a prendere in giro sua sorella, ad andare in biblioteca con Sladjan, a fare il filo a Karen… suo padre gli aveva accennato inoltre che avrebbero ospitato a casa loro per qualche tempo un suo cugino di quinto o più grado: non l’aveva mai visto e sinceramente, così preso com’era dal lavoro, non sentiva neanche la curiosità di incontrarlo. Tanto aveva davanti ancora quattordici fottutissimi giorni e suo cugino era l’ultimo dei suoi pensieri.

1 – Tendi la mano e ti strappano il braccio

Quando Mihail scese barcollante dal treno trascinandosi dietro a fatica le due borse che aveva con sé alla partenza c’era sua madre ad attenderlo sulla banchina, tutta trepidante e commossa, così come suo padre, in macchina, che tratteneva l'emozione a stento. Lui non sentiva tutto quell’entusiasmo: era felice di essere tornato a casa, ma si sentiva stanco come non mai, svuotato di ogni emozione e l’unico pensiero che continuava a ripetersi mentre sistemava i bagagli e si gettava sul sedile posteriore era quello di buttarsi a letto appena arrivato e non svegliarsi fino alla mattinata seguente.
Peccato che al suo arrivo a casa il letto fosse già occupato.
Mihail fissò per qualche secondo il ragazzo seduto sul suo letto, intento a leggere un suo libro, e non un libro qualsiasi, il suo “On the road” di Jack Kerouac, uno dei libri che lui amava di più. E soprattutto era un regalo di Karen, per cui ci teneva particolarmente. Sentì dietro di lui sua madre che gli diceva che quel ragazzo era il famoso cugino venuto a stare da loro, ma risuonava come un’eco lontana e l’ignorò totalmente.
Non gli importava chi fosse, voleva solo riprendersi il libro, il letto e farsi una dormita.
< Ciao.>
Sbatté un paio di volte le palpebre, mettendoci qualche secondo a capire che era stato suo cugino a parlare; il ragazzo si alzò dal letto e gli tese la destra.
< Mi chiamo Thomas.> si presentò semplicemente, tenendo ancora nella sinistra il libro.
Mihail non rispose, ma strinse la mano continuando a fissare il libro; Thomas dovette accorgersene per forza dato che in un istante adottò un’espressione addolorata e mormorò qualcosa.
< Come?>
< Mi dispiace di aver preso il libro senza il tuo permesso, ma erano secoli che lo cercavo in biblioteca e non sono mai riuscito a trovarlo…>
Mihail venne improvvisamente assalito dai rimorsi, forse per l’espressione così dolce del cugino, forse per la sua voce morbida e sincera, e in quel momento si sentì davvero uno stronzo.
< Fa niente, tranquillo. Puoi leggerlo.>
< Sicuro?>
< Certo, nessun problema.>
Thomas sorrise e Mihail sentì il senso di colpa scivolargli di dosso: aveva già la sensazione di essere meno stronzo. La stanchezza gli si leggeva sul viso e dopo aver congedato velocemente il cugino il ragazzo si spogliò in fretta e si ficcò sotto le coperte. Non fece in tempo a riflettere su quell’incontro né sul fatto che era davvero tornato a casa: appena abbassate le palpebre cadde in un sonno profondo, senza sogni.

Thomas chiuse dietro di sé la porta di camera sua, la camera degli ospiti, e ci si appoggiò con la schiena. Gettò con poco riguardo il libro sul letto e sorrise, felice, fin troppo felice. Suo cugino era carino, era davvero carino.
Il solo pensiero gli dava continui brividi lungo la spina dorsale.
Non bellissimo, ma carino, con quegli occhi stretti, scuri, e i capelli castano-rossicci, tagliati corti. E quelle dita, quella mano bella, magra, affusolata… gli era bastata un’occhiata e già conosceva l’aspetto fisico di suo cugino alla perfezione. Era proprio il tipo che gli piaceva, quella scarna trascuratezza che rendeva attraente anche una persona normale. Era fortunato, fortunatissimo. Avrebbe quasi gridato dalla gioia, ma sapeva di non poterlo fare.
Era in casa di parenti, in fin dei conti: doveva comportarsi bene. Ma quelle mani…

Dopo quel primo incontro Mihail non ebbe praticamente mai contatti con suo cugino. Il suo tempo era poco e lo spendeva tutto fuori, a riallacciare i contatti con i compagni di classe e a studiare in biblioteca come un matto: per tutta l’estate non aveva minimamente sfiorato un libro di scuola, non aveva neanche iniziato i compiti che gli erano stati assegnati e se non fosse stato per Sladjan, il suo migliore amico che gli passava tutto quello che poteva, sarebbe caduto in preda all’ansia nel giro di una settimana.
La scuola ricominciava a breve, le novità erano tante, professori nuovi, compagni nuovi che arrivavano e vecchi che cambiavano classe o indirizzo di studio, a Mihail girava la testa per tutti quei cambiamenti. E Thomas rimaneva l’ultimo dei suoi pensieri.
L’unico avvenimento degno di menzione fu che Sladjan venne una domenica a casa sua per tradurre assieme una versione di latino e si ritrovò faccia a faccia con l’ospite. O meglio, lo ritrovò intento ad armeggiare ai fornelli: era una delle occupazioni principali di Thomas in quei giorni, cucinare. Probabilmente ci trovava una soddisfazione particolare, perché lo faceva molto volentieri, accompagnando i propri gesti con motivetti fischiati o cantati. Sladjan e Mihail si misero a studiare sul tavolo della cucina e il fischiettio di Thomas era un allegro sottofondo, addirittura rilassante, o almeno questo era quello che riteneva il padrone di casa. Ma l’amico era di un altro parere: sulle prime non disse nulla a riguardo, non parlò mai con Thomas, quasi non lo guardò nemmeno, ma nei giorni successivi fece capire con brevi allusioni e silenzi che quel ragazzo non gli piaceva per niente.
Quando Mihail gli chiese il perché rispose soltanto che non gli piaceva il suo sguardo, ma l’altro non capì o almeno non subito.
Capì cosa intendeva solo la sera del il primo giorno di scuola. Al suono della campanella si ritrovò il cugino nella stessa classe. Inizialmente si stupì non poco, non si era minimamente posto il problema di in che scuola o in che classe sarebbe stato Thomas, non sapeva neanche quanti anni avesse!
Quando il nuovo arrivato si sedette accanto a lui Mihail notò un lampo d’odio negli occhi dell’amico che, senza dire nulla, si sedette davanti loro, dandogli le spalle. Suo cugino cominciò a parlare: non aveva un argomento preciso e faceva poche domande, si limitava perlopiù a esporre le proprie idee su tutto quello che gli veniva in mente.
< Hai mai suonato il pianoforte?>
Il castano si voltò verso l’altro, perplesso: sì, aveva suonato il piano per un paio d’anni, ma senza troppo entusiasmo, Glielo disse e mentre rispondeva notò come il cugino gli guardava le mani e capì cos’intendeva Sladjan: non era uno sguardo cattivo o dolce o particolarmente sgradevole, ma era malato. Ossessivo, per essere puntuali. Per un breve istante di follia Mihail ebbe l’impulso di ritrarre le mani, di nasconderle sotto il banco o dentro le tasche perché aveva l’assurdo presentimento che l’altro potesse improvvisamente strappargliele. Ma si trattenne e l’ingresso del professore lo distolse dall’attenzione del cugino.
Il resto della giornata passò senza particolari avvenimenti, tranne Sladjan che per qualche strano motivo evitava tanto Mihail quanto Thomas, specie se i due erano assieme, cioè praticamente sempre dato che il nuovo arrivato si era attaccato all’altro tipo ventosa, deciso a non lasciarlo. Il rumeno inizialmente se ne risentì un po’ di quell’abbandono da parte di Sladjan, ma conosceva bene l’altro e credeva di aver capito cos'era successo: probabilmente aveva frainteso, aveva pensato che in qualche insensato motivo Mihail avesse trovato in Thoms un nuovo migliore amico. Sarebbe passato tutto nel giro di qualche giorno, il ragazzo ne era certissimo.
Tornati a casa i due cugini non si parlarono nemmeno, Mihail si rinchiuse in camera deciso a non uscirne fino a che non avesse finito le due pagine di matematica che gli mancavano, ma verso le otto di sera fu costretto a cedere al brontolio del suo stomaco.
A cena Thomas parlò insolitamente tanto: sembrava entusiasta della scuola, descriveva con ammirazione il preside e i professori, trovava lodi per ogni singolo compagno di classe. Già sapeva perfettamente nome e cognome di tutti. Mihail si sentiva decisamente a disagio se pensava che che dopo tre anni ancora confondeva i suoi compagni tra loro.
Dopo cena tentò ancora una volta con matematica, ma dopo aver imprecato a denti stretti per un'ora intera sulla corda costruita sul cateto e parallela all’ipotenusa lasciò carta e penna sparse sul tavolo e andò a dormire.
Doveva aver spento la luce da parecchio tempo ed era quasi riuscito ad addormentarsi quando uno strano scricchiolio da oltre la porta lo sottrasse alla dormiveglia come una doccia fredda: sapeva perfettamente che i suoi genitori dormivano già da un po’, come d’abitudine. Che fosse Thomas? Magari stava andando in bagno e quindi era costretto a passare davanti a camera sua… Non si mosse rimanendo in ascolto, socchiudendo appena le palpebre. Contò piano, senza fretta e arrivato a sette sentì la porta di camera sua venire aperta: l’ombra che sgattaiolò dentro era senza dubbio quella di suo cugino, poteva sentirne l’odore e la cadenza dei passi leggeri non lasciava alcun dubbio.
Mihail rimase immobile, in parte raggomitolato su un fianco, un braccio sotto il cuscino e l’altro che penzolava inerte da una sponda del letto: forse Thomas si sentiva solo, forse voleva parlare, aprirsi a lui e raccontargli per filo e per segno ogni suo dubbio, ogni sua paura. Forse voleva spiegare il suo atteggiamento, il perché aveva modi totalmente incoerenti, il giorno prima distaccato e muto, quello dopo amichevole e logorroico.
In ogni caso lui non si sarebbe mosso di sua spontanea volontà: se l’altro voleva parlargli, ebbene avrebbe dovuto svegliarlo a suon di scrolloni.
Thomas s’inginocchiò ai piedi del letto senza fare alcun rumore, Mihail poteva sentire il suo respiro leggerissimo sfiorargli il viso; l’altro afferrò delicatamente con la sinistra il polso fuori dal letto e, con grande stupore del finto dormiente, chinò il viso su di lui e gli baciò il dorso della mano.
Poi improvvisamente alzò il braccio e lo abbassò con furia, la presa sul polso dell’altro era ferrea. Mihail non fece neanche tempo a notare cosa impugnava suo cugino, reagì d’istinto al primo movimento brusco voltandosi sulla schiena e bloccando il braccio dell’aggressore.
Forse il cugino non si aspettava una reazione, forse era davvero così debole o forse non gli importava più di tanto di perdere un corpo a corpo, fatto sta che dopo un breve attimo di stallo Mihail gettò con tutta la sua forza Thomas contro l’armadio, lontano da lui. Ci fu un clangore metallico e poi più niente.
L’assalito si alzò dal letto e accese in fretta la luce: suo cugino era a terra, la schiena appoggiata all’anta dell’armadio e il volto più rilassato del mondo. Un coltello da cucina di quelli più affilati stava a terra, ad eguale distanza tra i due ragazzi.
Per sicurezza Mihail lo raccolse e lo mise sul letto, fuori dalla portata dell’altro: Thomas non sembrava intenzionato ad alzarsi, ma era meglio non rischiare.
Si guardarono per quello che ad entrambi sembrò un’eternità. Il castano sentiva il cuore battergli a mille per lo spavento e l’unica cosa che riusciva a pensare era che i suoi genitori non si erano nemmeno svegliati, eppure gli sembrava di aver fatto un gran bel baccano, specie per il coltello. E poi il coltello… Gesù, che cavolo voleva fare quell’altro? Tagliargli una mano? Sembrava proprio di sì, o forse correva troppo con l'immaginazione.
Non sapeva se chiederglielo, che cosa avesse in mente. O forse la cosa più saggia era avvisare immediatamente i suoi genitori, oppure pestarlo un po’ prima di chiedere spiegazioni. Ma era tutto talmente assurdo… come avrebbe potuto dirlo ai suoi?
“Mamma, papà, non ci crederete mai, ma mio cugino è entrato in camera mia nel bel mezzo della notte con un coltello da cucina e ha cercato di tagliarmi una mano”.
Suonava assurdo ed effettivamente lo era… l’avrebbero preso per matto, gli avrebbero riso in faccia.
O, più semplicemente, avrebbero pensato a qualche crisi di gelosia, una sorta di vendetta perché non si sentiva abbastanza coccolato e riverito dopo aver passato gli ultimi tre mesi lontano da casa lavorare; come un bambino invidioso del proprio fratellino minore, il nuovo arrivato. Avrebbero pensato che cercava solo di mettere in cattiva luce Thomas, come un moccioso dispettoso.
La sola idea di essere considerato così dai suoi parenti gli fece passare la voglia di dire una sola sillaba sull’argomento.
< Perché?>
La domanda gli uscì spontanea. Thomas lo guardò un po’ perplesso: non si era mosso di un millimetro per tutto quel tempo.
< Hai delle belle mani.>
Mihail sentì un tuffo al cuore: nessun sano di mente avrebbe mai dato una risposta simile.
< E allora?> chiese esitante.
< Bé, le volevo io.>
Gli girava parecchio la testa, si sedette sul bordo del letto passandosi una mano tra i capelli: avrebbe voluto chiedergli di andarsene, ma non era certo che fosse una mossa saggia
Thomas si alzò sbuffando; temendo una nuova aggressione Mihail studiò le sue mosse febbrilmente, ma l’altro si diresse con noncuranza verso la porta.
< Buonanotte, cugino.> e detto questo uscì senza aggiungere altro.
Prima che si rendesse conto di cosa stava facendo il ragazzo chiuse la porta a chiave nel caso l’altro cambiasse idea e tornasse indietro per cercare di affettarlo nuovamente.
Rimase in piedi per qualche secondo prima di crollare sul letto: ora che era solo sentiva quanto forte batteva il suo cuore, mentre tutto il corpo era scosso da brividi di freddo e paura.
Suo cugino aveva cercato di farlo a pezzi, suo cugino aveva cercato di farlo a pezzi nel bel mezzo della notte in casa sua!
Di certo i suoi genitori non gli avrebbero mai creduto, stentava a crederci anche lui! Se non fosse stato per il coltello che giaceva accanto a lui sul letto non ci avrebbe creduto; prese l’arma e fece scorrere un dito lungo la lama: era fredda e decisamente reale. La appoggiò sul comodino, decidendo di aspettare l’indomani per rimetterla nel cassetto. Sempre se non fosse completamente ammattito prima di arrivare alla mattina successiva…
Avevano un pazzo in casa, un malato, completamente fuori di testa!
Mihail aveva paura, non sapeva dove sbattere la testa. Si alzò, girò un poco per la stanza, ma le gambe non lo reggevano bene, tremavano continuamente e dovette risedersi.
Ci avrebbe riprovato? Avrebbe cercato di aggredirlo ancora?
Il giorno dopo sarebbero dovuti andare a scuola insieme, avrebbe avuto centinaia di possibilità di farlo: spingerlo sotto una macchina, strangolarlo in un’aula vuota, buttarlo giù dalla tromba delle scale…
Chiuse gli occhi, stendendosi e cercando di dormire, ma ogni sforzo si rivelò sempre più inutile.
Alla fine, stremato, crollò, cadendo in un sonno agitato e pieno di mani che, amputate, camminavano sulle dita ballando un macabro tip-tap.
Il giorno successivo Mihail non andò a scuola.
Non ebbe difficoltà a far credere ai suoi genitori di stare male: il poco e tormentato sonno insieme allo shock del giorno prima si leggevano chiaramente sul suo volto, anche perché sembrava che stesse per svenire da un momento all’altro.
Passò la giornata in camera sua, a letto. La porta l’aveva richiusa a chiave dopo aver sistemato il coltello e non progettava di riaprirla a breve.

Le mosse della donna erano rapide, precise, impeccabili: per riuscire a tagliare così la verdura, per rendere ogni pezzetto delle stesse dimensioni, ci voleva un sacco di esperienza, di questo Thomas era certo. Continuò a guardare l’infermiera che gli preparava il pasto: non mangiava in mensa con gli altri, in genere consumava il suo pasto in camera. Aveva una dieta particolare e i medici preferivano non farlo avvicinare al cibo degli altri degenti, c’erano troppe cose a cui era allergico, cose che gli facevano male e peggioravano il suo stato
Un po’ gli dispiaceva, avrebbe voluto mangiare con gli altri, stare un po’ in compagnia… Non c’erano altri bambini nell’ospedale, ma a Thomas piaceva stare con i vecchi, gli piaceva ascoltarli. Era fermamente convinto che si diventasse anziani proprio per raccontare storie.
Sorrise piano mentre gettava un’occhiata alla cucina in cui si trovava: in teoria non avrebbe potuto entrare lì, ma conosceva l’infermiera, una sciocca donna, ingenua, così ingenua che era bastato lavorarsela un paio di volte per ottenere il permesso di sgattaiolare di nascosto dietro di lei per assistere alla preparazione del suo pasto.
Fissò la lama tagliare veloce, ritmicamente, scintillante alla luce del piano cucina. Avrebbe voluto essere in grado anche lui di fare come la signorina, avere un polso così fermo, la forza di tagliare tutto al primo colpo, come un vero chef. Purtroppo sapeva di non poter neanche toccare i coltelli, i piani alti avevano dato disposizioni rigidissime: nessuna possibile arma da taglio doveva essere lasciata dove lui avrebbe potuto trovarla. Neanche una.

2 – Volare nel blu dipinto di blu

Era passata circa una settimana da quando Thomas era entrato in camera di Mihail con il coltello e, a dire il vero, da dopo quella notte non era cambiato assolutamente nulla: Thomas non aveva più tentato di tagliuzzarlo e Mihail non era più tornato sull’argomento, neanche un accenno. Aveva tenuto il più assoluto silenzio con tutti, non aveva confidato nulla neanche a Sladjan, che era tornato a chiacchierare con lui come al solito quando Thomas non era nei paraggi.
A casa il ragazzo cercava di stare il meno possibile con suo cugino: tornavano assieme per pranzo, mangiavano qualche avanzo della sera prima e poi si rinchiudevano a studiare ognuno nella sua stanza fino al tardo pomeriggio, quando i genitori di Mihail tornavano dal lavoro.
Nelle ore che trascorrevano senza adulti in casa Mihail aveva preso l’abitudine di chiudere a chiave non solo la porta della sua stanza, ma anche il cassetto dei coltelli e lo sgabuzzino, nel caso al cugino venisse in mente di cavargli gli occhi con un cacciavite.
A dire il vero ogni tanto si chiedeva se sul serio era realmente accaduto tutto o se forse era solo il frutto della sua immaginazione.
Pochi giorni prima era tornata dal campeggio anche la sua sorellina a complicargli la vita, ma per fortuna la piccola peste aveva iniziato la scuola a tempo pieno e quindi riusciva ad evitarla cinque giorni a settimana.
Inizialmente Mihail si era chiesto se anche sua sorella non fosse in pericolo con un pazzo criminale in casa, ma poiché sembrava che Thomas fosse interessato unicamente a lui decise di tenere la bocca chiusa, senza contare che se l’avesse detto a Vikitza nel giro di due minuti sarebbero venuti a conoscenza della storia anche i suoi genitori.
E poi non era più così certo di aver rischiato la vita, quella notte. Per paura di scoprire che quello forse era stato davvero tutto un sogno si era ripromesso di non parlarne con nessuno e sperava che niente venisse a galla.
Speranza vana.
La loro classe era al terzo piano della sede staccata, un edificio grande, di un bianco sporco e abbastanza fatiscente, ma c’era di peggio (Sladjan ricordava ancora con orrore l’altra succursale, dov’erano stati un anno, un ex-carcere minorile più o meno riadattato, ma con ancora le sbarre alle finestre).
Mihail in genere passava la ricreazione con Sladjan e gli altri in cortile, ma quel giorno era rimasto in classe a copiare dal quaderno dell’amico le risposte di una scheda di filosofia che si era completamente dimenticato di fare; non c’era nessun altro con lui e anche il corridoio appariva semi-deserto, salvo un paio di professori che controllavano che tutto andasse bene e dei piccoli gruppetti di ragazzi che parlavano di sport.
Da bravo perfezionista Mihail ricopiava piano, attento alla calligrafia, cambiando ogni tanto parole per non far capire di avere spudoratamente copiato. La mano gli faceva male, l’estate l’aveva disabituato a scrivere.
Era talmente concentrato nel copiare che non si accorse nemmeno di Thomas: suo cugino entrò a passi lenti nella stanza, senza fare il minimo rumore. I suoi occhi verdi era più freddi del solito, la sua espressione più dura, meno amichevole: sembrava profondamente irritato.
Si appoggiò al muro, aspettando che Mihail finisse di copiare; quest’ultimo si accorse dell’altro solo quando depose finalmente la penna sul tavolo e si sporse in avanti per rimettere il foglio sul banco di Sladjan.
< Ciao.> fece laconico Thomas.
Mihail per poco non cadde dalla sedia, si voltò di scatto a guardarlo con un fremito di paura, ma una volta constatato che non aveva nulla che potesse essere utilizzato come oggetto contundente si rilassò un poco.
< Ciao. Che ci fai qui?>
Era quanto di più amichevole gli riuscisse di dire in quel momento.
< Mi annoiavo in cortile. Gli altri stanno giocando a calcio e io non so giocare.>
Questo stupì molto Mihail.
< Non sai giocare a calcio? Cioè, non sei bravo?>
< Non so proprio le regole.>
Guardò il cugino sempre più basito: era impossibile. Era certissimo che tutti, bene o male, conoscessero quello sport, anche senza averci necessariamente giocato: era universale e soprattutto i maschi sembravano trovarci un non so che di vitale. E suo cugino, fino a prova contraria, era un maschio.
Ci furono urla dal giardino, qualcuno sembrava insultare pesantemente un’altra persona; Mihail si alzò dal suo posto, incuriosito, gli occhi di Thomas non lo lasciavano un istante.
Avrebbe voluto scendere anche lui e giocare, ma la campanella sarebbe suonata a momenti.
< Vuoi andare?> chiese piano l’altro, nel suo tono basso c’era qualcosa di leggermente sinistro.
Mihail annuì e raggiunse la finestra aperta, affacciandosi per vedere la scena: chi continuava ad insultare era quell’idiota della 4° D, Steven, che era stato messo in difficoltà da due primini che, a quanto pareva, erano più bravi di lui sia a calcio sia con le parole. Dando le spalle alla porta non vide il lampo che passò negli occhi di Thomas, un semplice attimo di pura gelosia, perché suo cugino gli dava le spalle, gli nascondeva il viso, suo cugino preferiva guardare quei banali ragazzini piuttosto che parlare con lui.
Non lo vide neanche avvicinarsi piano a lui, da dietro, senza alcun rumore; si sporse un poco per vedere meglio la scena che si svolgeva in cortile. Era alto dal terzo piano, deglutì un poco. E poi lentamente gli venne in mente cosa stava rischiando e gli venne un tuffo al cuore. Si voltò tremando, gli occhi spalancati.
Thomas era davanti a lui: una spinta, forte, rapida e Mihail sentì la terra mancargli da sotto i piedi e il corpo circondato solo ed unicamente da aria.
Annaspò con le mani e riuscì ad aggrapparsi miracolosamente alla cornice laterale della finestra: si trovava col corpo mezzo fuori, le cosce appoggiate al davanzale e le mani strette più che poteva agli infissi. Gli occhi di Thomas si fecero più scuri di rabbia; Mihail lo vide prepararsi ad un’altra spinta e si ritrovò a pregare ad occhi chiusi che qualcosa, qualsiasi cosa, accadesse.
Ci fu un tonfo, ma la seconda spinta non arrivò mai.
Il ragazzo aprì gli occhi e vide davanti a sé un groviglio di corpi, solo dopo qualche secondo poté riconoscere i capelli neri di Sladjan, che avvinghiato a Thomas l’aveva trascinato sul pavimento e lo colpiva alla cieca cercando di fargli più male possibile. Dal canto suo l’altro rispondeva ben poco, giusto proteggendosi il viso e difendendosi le parti basse con le ginocchia.
La campanella interruppe il pestaggio: il moro si rialzò, lasciando Thomas a terra, piegato in due dal dolore, nuovamente con la sua solita espressione indifferente.
Mihail approfittò di quella pausa per riprendersi da tutto quello che stava succedendo e tornare coi piedi per terra; chiuse la finestra prima di rischiare un’altra volta di finire giù (o più probabilmente, prima che Sladjan alzasse Thomas di peso e lo scaraventasse giù dal terzo piano).
Il moro effettivamente afferrò per un braccio il ragazzo a terra e senza tanti complimenti lo sollevò di peso rimettendolo in piedi, lanciandogli un’occhiata che voleva evidentemente fargli capire che non sarebbe stato affatto conveniente denunciare il pestaggio ad un professore o agli altri ragazzi. In quel momento gli altri cominciarono ad entrare in classe; Thomas, con passo un po’ malfermo, sgattaiolò in bagno.
Sladjan si avvicinò a Mihail e mormorò: < Noi due dobbiamo parlare.>
L’altro annuì gravemente.
< Non ora, comunque, e non qui.  – rispose – Finita scuola aspettami, ne parliamo uscendo.>

Thomas non lo aspettò quel giorno per tornare a casa assieme, non ebbe la faccia tosta di farlo e in cuor suo Mihail ne fu più che contento; lui e Sladjan aspettarono che tutti gli altri fossero usciti dall’aula e si diressero assieme lentamente giù per le scale.
Andarono in un parco vicino alla scuola, dove da piccoli trascorrevano i pomeriggi; faceva caldo e a quell’ora non c’era anima viva.
< Non è la prima volta, vero?>
Si guardarono e Mihail capì come aveva fatto ad intuirlo: non si sentiva poi così spaventato. La prima volta aveva avuto una mezza crisi di nervi, silenziosa e repressa, ma pur sempre una crisi, invece questa volta aveva avuto paura solo all’inizio, quando stava per cadere, ma ora si sentiva insolitamente calmo, normale.
< E’ già successo un’altra volta.>
Sladjan scosse la testa.
< Quel ragazzo è fuori di testa, completamente. L’hai detto a qualcuno?>
< No… non mi crederebbero mai.>
Il moro non era d’accordo: continuava a scuotere la testa, il volto scuro di preoccupazione.
< Va assolutamente detto, Mihail! Non puoi stare fermo ad aspettare che ti ammazzi, quello lì è un pazzo psicopatico, va rinchiuso.>
“Sempre che non l’abbiano già fatto”.
Quel pensiero automatico fu un fulmine a ciel sereno per il ragazzo: non si era mai chiesto come potesse avere un cugino con tendenze omicide. Di certo non poteva essere l’unico ad essersi accorto che Thomas non era esattamente tutto a posto con le rotelle, di certo qualcuno aveva preso provvedimenti a suo tempo.
Rifletté un poco. Suo cugino era apparso dal nulla, prima di allora non ne aveva mai sentito parlare: sapeva che era il figlio di una cugina di sua madre, ma non aveva mai visto né lei né suo marito. Sapeva solo che esistevano in qualche angolo del mondo, sapeva che lui era di famiglia molto ricca e che era continuamente in giro per il mondo, così come la moglie.
Non sapeva se il figlio li avesse mai seguiti nei loro spostamenti o se fosse stato affidato a qualcuno, ad una governante o simili.
Improvvisamente gli venne voglia di rinchiudersi in camera sua, attaccarsi al pc e cercare le risposte che voleva, convintissimo che le avrebbe trovate in fretta.
Si separò da Sladjan con la promessa che uno di quei giorni avrebbe detto tutta la verità ai suoi genitori, cosa che in realtà non aveva la minima intenzione di fare.
Tornò a casa di corsa, buttò via gli avanzi che Thomas gli aveva lasciato, casomai in un ennesimo raptus ci avesse messo del veleno, e saltando il pranzo si fiondò in camera al computer; cercò malattie, disturbi della personalità, tendenze omicide che coincidessero con i comportamenti del cugino.
Dopo ore di ricerca le risposte non volevano saperne di uscire allo scoperto e la sicurezza del ragazzo cominciava a vacillare. Mihail scosse la testa, irritato, e si passò una mano tra i capelli: aveva caldo e il ronzio del pc gli faceva venire mal di testa. Spense tutto e si ficcò a letto, riflettendo su quanto gli conveniva fare.
Avrebbe dovuto cominciare dall’inizio: tracciare un albero genealogico della famiglia di Thomas, vedere se quella stessa malattia l’aveva avuta anche qualcun altro della famiglia, cercare quindi se esistevano disturbi mentali ereditare (a riguardo ne sapeva davvero molto poco), trovare le strutture che provavano a curarle, contattare qualcuno che l’aveva conosciuto quand’era bambino… scovare qualcosa, qualsiasi cosa che potesse avvalorare il suo racconto quando si sarebbe deciso di dire tutto ai suoi genitori e denunciare le aggressioni.
Gli venne in mente che avrebbe potuto anche chiederglielo di persona al diretto interessato, ma qualcosa gli faceva credere che non fosse affatto una buona idea, chissà come poteva reagire? Magari l’avrebbe aggredito in un impeto di furia o forse si sarebbe ritrovato solo con una di quelle classiche risposte che in realtà non rispondono a un bel niente.
Decise di non chiedergli nulla, nel caso tutto il resto non avesse funzionato ci avrebbe provato, del resto il suo progetto non gli sembrava così stupido, anzi, gli sembrava un piano sensato, di certo più sensato di stare fermo ad aspettare di farsi ammazzare da suo cugino.
Per qualche giorno Mihail e Thomas non si parlarono, evitando addirittura di guardarsi; Sladjan cercò di convincere l’amico a cambiare di posto e a non stare vicino al cugino, ma lui si oppose fermamente: almeno sapeva che rischi correva, non poteva certo lasciare che un suo ignaro compagno finisse accanto ad un potenziale assassino. Se poi fosse successo qualcosa non se lo sarebbe potuto perdonare.

Le foglie cadevano piano, trasportate dal vento, fino a depositarsi sul pelo dell’acqua: Thomas sarebbe andato avanti per ore con quel gioco. C’erano cose che non si stancava mai di fare, come osservare il cielo e le nuvole, oppure per l'appunto lasciar cadere le foglie dal davanzale della finestra dritte dritte nelle pozzanghere. Se riusciva a farle cadere nelle pozzanghere piccole erano cinque punti, in quelle grandi uno. Se una foglia cadeva sul terreno e non in acqua, erano otto punti in meno. Il suo punteggio attuale era di venticinque.
Sorrise. Avrebbe potuto continuare in eterno, tanto aveva molto tempo a sua disposizione.
Aveva tutto il tempo di questo mondo perché sapeva che da lì non se ne sarebbe mai potuto andare; non ricordava quando c’era entrato, ma era più che certo che non ne sarebbe uscito.
Si immaginava spesso da vecchio a lasciar cadere foglie nelle pozzanghere mentre raccontava a qualche bambino una storia inventata sul momento, con voce lenta, bassa, stanca.
Sì, di tempo ne aveva anche troppo.

3 – Chi cerca trova

Mihail si rese conto che per trovare tutte le informazioni che gli servivano avrebbe dovuto essere un hacker o qualcosa di simile: non era come nei film dove il protagonista smanetta per un paio di minuti al pc e trova esattamente quello che vuole, dopo due giorni di navigazione in rete il ragazzo non aveva cavato un ragno dal buco. Scosse la testa, irritato: stava solo sprecando il suo tempo.
L’unica alternativa era cominciare a fare domande in giro, passare ad una ricerca vecchio stile; avrebbe intanto potuto chiedere a sua madre il nome di sua cugina, la mamma di Thomas, vedere con quali parenti a portata di mano aveva stretto legami forti e andare da loro per saperne di più.
Quella sera stessa Mihail si avvicinò a sua madre in salotto, intenta a cucire mentre Vikitza giocava sul tappeto con un orsacchiotto e le raccontava per filo e per segno tutto quello che aveva fatto a scuola quel giorno; Thomas si era già ritirato in camera sua.
Mihail si sedette accanto alla madre e, approfittando di una pausa della sorella, cominciò a chiacchierare con lei, avvicinandosi pian piano all’argomento che gli interessava; le disse che gli sembrava che suo cugino si fosse ambientato abbastanza bene a scuola, che anche se non aveva amici in particolare era comunque rispettato dai suoi compagni e altre cose così. La donna commentò che Thomas era molto riservato e temeva che tendesse ad isolarsi.
< E’ solo un po’ timido, tutto qui. In fondo è arrivato da poco, avrà tempo di vincere la sua timidezza… quanto tempo è che si fermerà da noi?> chiese con noncuranza il ragazzo.
< A dire il vero sua madre non me l’ha specificato, ha chiesto se potevamo ospitarlo per qualche tempo.>
< Ma l’hai sentita in questi giorni? Sarà contenta di sapere che Thomas si trova bene da noi… a proposito, lei come si chiama?> insistette attendendo con impazienza la risposta.
< Elena.>
< Ah, e suo padre?>
< Henry. Ma lui non l’ho mai visto, in fondo hanno abitato sempre molto lontano da noi.>
Il ragazzo si fece dire dove abitavano e quando seppe il nome della città sentì molte delle sue speranze svanire: era praticamente dall’altra parte della nazione, a centinaia di kilometri di distanza. Per lui era irraggiungibile, era un viaggio troppo lungo e costoso: se avevano stretto legami forti con parenti di quella zona lui non avrebbe potuto fare domande di persona.
Si frenò dal chiedere a sua madre se sua cugina avesse rapporti particolari con qualcuno, non voleva far capire che le stava facendo un terzo grado. Tornò a parlare di suo cugino e dopo poco, fingendosi stanco, scappò in camera sua a riordinare mentalmente quanto aveva scoperto. Accese nuovamente il computer e cercò informazioni su Henry Saxon e sua moglie, per l’ennesima volta trovò ben poco su di loro e zero sul possibili referti medici del loro figlioletto. Sfruttò le pagine bianche per avere un elenco di quanti portavano il cognome Saxon o quello di sua madre e, tramite il prefisso, controllò in che zona abitavano, ma c’erano troppe persone, di certo non tutte suoi parenti, con lo stesso nominativo e la ricerca fu quasi del tutto inutile. Spense il pc, ancor più irritato di prima, e decise che ci avrebbe ripensato l’indomani.
Il giorno dopo venne in classe Loredana a trovare Mihail e Sladjan: era una loro vecchia amica d’infanzia, si conoscevano da anni e ancora lei riusciva a sorprenderli. Era una ragazza energica, piena di buoni propositi che riusciva quasi sempre a portare a termine, solo per poi non essere gratificata per il suo lavoro.
Qualche giorno prima era stata eletta tra i quattro rappresentanti d’istituto e subito lei si era messa a passare di classe in classe a distribuire schede da compilare, proposte di lavori extra-scolastici su cui voleva un parere degli studenti. Mihail l’aveva avvisata che al 90% del corpo studentesco non interessavano minimamente i progetti che la scuola proponeva e l’unica cosa che volevano era tornarsene il più in fretta possibile a casa una volta suonata la campanella: la ragazza poteva ottenere solo una grossa delusione se pensava di far partecipare attivamente ai progetti gli altri studenti, ma lei non si era scoraggiata.
Rubò due minuti alla professoressa di inglese per illustrare brevemente in cosa consistevano quelle proposte e distribuire le schede personalmente. Passando davanti ai loro banchi strizzò l’occhio a Sladjan e a Mihail, i quali si guardarono per un istante come per dire “non l’ha ancora capito che è fatica sprecata”.
Quel pomeriggio, mentre cercava con scarsi risultati di tradurre una versione di latino, Mihail ricevette un sms di Loredana che gli chiedeva chi fosse quel bel ragazzo accanto a lui. La sua prima reazione fu quella di prenderla in giro, ma quando realizzò che il presunto “bel ragazzo accanto a lui” era quel pazzo omicida di suo cugino per poco non si strozzò con la sua stessa saliva.
“E’ mio cugino, ma ti assicuro, non è il tipo per te, anzi, non è proprio tipo da ragazze, lascialo perdere” le rispose.
Ovviamente sapeva che era del tutto inutile. Lei non si fece dissuadere e il giorno dopo, assieme a Sladjan, Mihail andò a parlarle durante l’intervallo.
La trovarono al piano terra accanto ai distributori automatici, circondata da ragazze e ragazzi che chiedevano cosa esattamente dovessero fare con le schede che aveva distribuito il giorno prima.
< Dovete solo mettere una crocetta sulle proposte che ritenete interessanti e scrivere in due righe cosa cambiereste di quelle che non vi hanno convinto del tutto… non è difficile, vedete? Qui e qui…>
La portarono via a forza dal gruppo per parlare in un posto più tranquillo, inseguiti dalle proteste dei ragazzi che ancora non avevano capito cosa dovessero fare con quel pezzo di carta.
I tre si imbucarono nell’aula di informatica al secondo piano, che era deserta: il tecnico era a bersi un caffè e ai ragazzi non era permesso restare lì in ricreazione; Loredana aveva l’aria alquanto stanca e un poco sconvolta.
< Tutto bene?> chiese Mihail, preoccupato, ma lei annuì.
< Non ne posso più di ripetere continuamente le stesse cose… era già tutto spiegato sulla scheda, eppure non capiscono, continuano a inseguirmi per farmi domande idiote!> sbottò mentre si sedeva su una sedia girevole.
< Non ditemi che anche voi siete venuti per chiedermi come compilare quella scheda…>
Passarono tutto il resto della ricreazione a sconsigliarle Thomas, a dirle che era un ragazzo problematico, disturbato, che non era proprio adatto ad avere una vita sociale, figurarsi una relazione! Tuttavia lei rimaneva della sua idea: Thomas le piaceva, e molto anche.
< Ma perché?!>
< Ha degli occhi molto belli. Tristi, ma belli. A dire il vero sembra un ragazzo molto triste, ma decisamente attraente.>
Mihail aveva una gran voglia di sbattere la testa contro il tavolo; ad un certo punto, giusto qualche secondo prima che suonasse la campanella, decise di agire.
< Sai che ti dico, Lore? Se vuoi te lo presento.>
Un attimo dopo si ritrovò il gomito di Sladjan tra le costole e capì che l’amico non condivideva la sua brillante idea; in realtà un piano c’era: Thomas non brillava per doti eccezionali, sarebbe bastato che Lore ci parlasse un poco per classificarlo come “ragazzo normale e assolutamente non interessante”.
Decisero che potevano organizzare un uscita tutti e quattro, andare al cinema o a bere qualcosa; in breve Lore e Mihail organizzarono tutto, mentre Sladjan, con una mano sulla fronte, manifestava il suo dissenso. Incredibilmente Thomas accettò subito la proposta e due giorni dopo uscirono tutti assieme la sera a mangiare una pizza in compagnia; Mihail non credeva che si sarebbe mai trovato in un’atmosfera tanto surreale: era seduto accanto a suo cugino, un ragazzo disturbato con tendenze omicide, che in quel momento chiacchierava amabilmente con la sua migliore amica che, almeno in teoria, non avrebbe dovuto apprezzare così tanto quell’uscita. Lui e Sladjan si sentivano completamente fuori posto e per un istante si chiese se non avesse davvero fatto nascere un’improbabile storia tra Thomas e Lore. Pregò che non fosse così o Sladjan glielo avrebbe rinfacciato per tutta la vita.
Quando tornarono a casa era notte fonda; Mihail non si preoccupò nemmeno di essere da solo al buio con suo cugino, quella sera Thomas gli era sembrato così umano, così amabile che non si sentiva affatto in pericolo.
Si azzardò addirittura a chiedergli se per caso gli piaceva Loredana, ma tutto quello che ottenne fu un laconico “è simpatica”. E di nuovo gli venne il pensiero di aver dato vita a qualcosa di assolutamente sbagliato.

La loro uscita a quattro aveva solo fatto aumentare l’interesse di Loredana per Thomas, cosa che Sladjan giudicava assolutamente negativa e deleteria sotto ogni aspetto; Mihail si asteneva dal fare commenti, ma d’altro canto non gli sembrava affatto che suo cugino ricambiasse i sentimenti dell’amica.
E a causa di tutta quella faccenda il castano aveva perso di vista la sua ricerca di informazioni riguardo Thomas, per cui sabato pomeriggio si ritrovò di umore nero, il naso schiacciato contro i vetri del salotto mentre fuori pioveva che Dio la mandava; era pieno di sensi di colpa, gli sembrava di aver letteralmente sprecato il suo tempo e di essere un vero e proprio buono a nulla.
A fargli scendere il morale sotto i tacchi si aggiunse anche sua sorella, che arrivò in salotto saltellando allegramente e cantando una canzoncina che sembrava molto la sigla di Sailor Moon.
< Che vuoi?> mugugnò seccato osservando un nuvolone che assomigliava terribilmente ad una balena con un cespo d’insalata in testa.
< Fratellone, posso raccontarti di cosa ho fatto ieri matti-…>
< No.>
< E ti ho già detto che..?>
< No.>
< Non è che..?>
< Assolutamente no. Sto cercando informazioni sulla mamma di Thomas, quindi sparisci dalla mia vista.>
Vikitza rimase ferma per qualche secondo a fissare il fratello, che già si preparava a sentirla scoppiare a piangere.
< Io so chi conosceva bene la mamma di Tommy.>
Mihail la guardò incredulo, gli occhi spalancati.
< Guarda che se è una bugia…>
< Ma è vero!>
< E come fai a saperlo?>
La risposta era sua nonna; Mihail l’aveva vista di rado in quegli ultimi anni, in fondo era cresciuto e si era abbastanza stancato di ascoltare i discorsi della vecchietta, che superata una certa età aveva cominciato ad avere vuoti di memoria e ripeteva continuamente gli stessi due o tre episodi della sua vita, oppure sempre le medesime frasi di circostanza. Ma sua sorella andava molto spesso a trovarla e, a forza di sentirle, si ricordava bene le storie di famiglia che la nonna raccontava: circa una decina d’anni prima la madre di Thomas era stata ospite dalla vecchietta per qualche mese. Parlavano quasi esclusivamente di suo figlio, di affari di famiglia e cose varie.
Mihail era tanto euforico che quasi abbracciò sua sorella, ma si trattenne, non voleva in tutta risposta essere trascinato in camera da lei per giocare con le bambole: Vikitza era così, le dimostravi un po’ di affetto, o pietà, e subito lei ne approfittava.
Lei gli ricordava effettivamente qualcun altro.
Il ragazzo scosse la testa: era tutto più facile, adesso! Sua nonna abitava a dieci minuti a piedi da casa loro, una passeggiata davvero, altro che treno per raggiungere l’altra parte del mondo! Aveva una gran voglia di andare subito da lei, così com’era, senza giacca o ombrello e l’unica vera ragione per cui non lo fece fu che il tempo fuori peggiorava di attimo in attimo, la pioggia di prima si era trasformata in un vero e proprio acquazzone con i controfiocchi, come non ne vedeva uno da secoli.
Il vento sbatteva feroce contro i vetri esterni e forse presto avrebbe anche grandinato. Ad una folata di vento più forte che fece tremare violentemente la finestra esterna Vikitza cacciò un urletto e si aggrappò a suo fratello, impaurita.
Mihail deglutì, mentre cercava di togliersela di dosso e cacciarla in camera a fare i compiti, o almeno convincerla ad andare da sua madre; sapeva che avrebbe dovuto sperare nel bel tempo il giorno dopo, per andare da sua nonna, ma almeno si sentiva più realizzato di appena dieci minuti prima.

Il vento che sbatteva contro le finestre gli ricordava qualcosa. Thomas chiuse un poco gli occhi, la testa appoggiata sul cuscino; si era messo steso sul letto anche se erano solo le quattro del pomeriggio, ma gli piaceva dormicchiare a quell’ora, quando non aveva compiti o altre cose da fare. A dire il vero, era raro che avesse qualcosa da fare, specialmente il sabato pomeriggio: non c’era nessun amico che lo aspettasse per un giro in centro o che lo invitasse a casa sua per studiare o semplicemente divertirsi. Non c’era mai stato nessuno e Thomas si rendeva conto a malapena di quanto fosse strano per un ragazzo della sua età, ma in fin dei conti non poteva sentirne la mancanza se nemmeno sapeva come ci si sentiva ad avere amici. Ad essere sinceri si era divertito con Mihail, Sladjan e Loredana.
Sorrise, ricordando quella serata. Gli sarebbe piaciuto ripetere l’esperienza, ma suo cugino ed il suo amico non gli erano sembrati molto a loro agio. Probabilmente a causa sua.
Come sempre, a causa sua, pensò.
Voltò un poco la testa e socchiuse le palpebre per guardare fuori, cercando qualche altro argomento che non fosse quello, lo trovava abbastanza deprimente.
La ragazza.
Ci pensò su un poco: era ovvio che quell’uscita serviva solo a fargliela incontrare, un incontro combinato.
Sinceramente non gli importava, lei non gli interessava: aveva un carattere forte, certo, era una ragazza di una certa cultura, con cui era bello parlare, ma lui la trovava assolutamente scontata. Troppo diretta, troppo aperta, non gli piaceva più di tanto.
Lui amava solo ed unicamente le cose che lo stregavano al primo colpo e lei non c’era riuscita.
Il fragore di un tuono fece tremare con forza le finestre; in corridoio Vikitza piangeva per la paura.
Thomas si girò su un fianco e chiuse gli occhi, stanco: voleva che quel pomeriggio non terminasse mai.

4 – A pelo d’acqua

La mattina seguente pioveva ancora, ma non ai livelli dell’enorme temporale del giorno prima, si trattava solo di una pioggerellina leggera. Dopo aver cercato per tutta la casa un ombrello che non fosse rotto Mihail si arrese e  uscì verso le dieci circa, quando Thomas e Vikitza stavano ancora dormendo e i suoi genitori sorseggiavano il loro caffè mattutino; c’era poca gente in strada, il temporale e il freddo sembrava aver fatto cadere l’intera città in letargo: il ragazzo si strinse nella sua giacca a vento rossa, la pioggia tamburellava sul suo cappuccio calato sul viso. Sperava che sua nonna fosse già in piedi.
Pochi minuti dopo era davanti al cancello della casa, attaccato al campanello; sua nonna da qualche anno aveva problemi di udito e bisognava suonare per un bel pezzo prima di farsi aprire.
Non rispose nessuno. Mihail le telefonò sul fisso e dopo un poco lei rispose, mentre lui si sgolava e gesticolava per farsi capire da sua nonna, attirando gli sguardi perplessi e scandalizzati.
Alla fine, senza capire esattamente come, riuscì ad entrare.
La casa di sua nonna era un disastro, carte e riviste ovunque, briciole sul pavimento, pacchetti di medicine sparsi sul tavolo della cucina; doveva essersi dimenticata più volte di chiamare la signora delle pulizie, era un vero disastro.
Parlare con sua nonna non fu esattamente facile, era completamente persa, tanto che lo accolse in cucina ancora in vestaglia e pantofole, la testa piena di bigodini e il latte sul fornello che rischiava di fuoriuscire dal pentolino.
Il ragazzo cominciò a chiacchierare del più e del meno mentre lei faceva colazione e lui ne approfittava per dare una sistemata alla stanza; dopo un po’ cominciò a fare domande su Elena Saxon.
Le risposte non erano sempre sensate, ma riuscì a capire che la donna aveva realmente vissuto qualche mese da sua nonna, dieci anni prima, ma anche dopo era tornata qualche volta, per tre o quattro giorni, a dormire da lei.
Veniva senza il marito e il figlio, da sola e, a dire il vero, era venuta anche pochi mesi prima.
Mihail trovò la cosa alquanto anomala e chiese chiarimenti alla vecchietta, ma lei non fu in grado di dargli una spiegazione.
< Dov’è che dormiva, quando stava da te?> chiese mentre finiva di spazzare il pavimento dalle briciole.
< Nella stanza al piano di sopra.>
< Ci è entrato qualcun altro dopo di lei?>
< No, non direi… sai, è difficile che qualcuno si fermi a dormire da me. La stanza è com’era quando ci dormiva lei, non ci entro spesso neanche io. E la tengo chiusa a chiave.>
Mihail aggrottò la fronte.
< Chiusa a chiave?>
< Elena ha lasciato delle carte, da quanto ne so. Carte e alcuni oggetti di valore. Non volevo che la signora delle pulizie entrasse in quella stanza e trafugasse qualcosa. Anche perché, non essendo più stata utilizzata, non è una camera che bisogna pulire.>
Sua nonna gli consegnò le chiavi senza problemi, per nulla insospettita dalle sue domande, non chiese neanche perché voleva vedere quella stanza.
Il ragazzo salì le scale lentamente, sperando di trovare qualcosa che si ricollegasse a Thomas; nulla di quanto gli aveva detto sua nonna poteva ricollegarsi in qualche maniera a suo cugino, ma le visite occasionali di Elena, da sola, lo lasciavano perplesso: erano troppo rare per poterle ricollegare ad un amante o cose simili.
Raggiunse il secondo piano, trovò la porta e provò ad inserire la chiave: girò nella toppa con un po’ di difficoltà e l’uscio si spalancò rivelando la stanza più polverosa che Mihail avesse mai visto.
Rabbrividì quando vide delle ragnatele belle grandi: lui aveva il terrore dei ragni. Si fece coraggio ed entrò; la stanza era buia e Mihail non riuscì a trovare l’interruttore della luce, ma andando a tentoni raggiunse la finestra e tirò su la tapparella quel tanto che bastava per poter leggere il contenuto delle carte, se le avesse trovate.
Cominciò a frugare per la camera, ogni angolino, ogni ripiano; fuori continuava a piovere e le gocce tamburellavano allegramente sul vetro della finestra. Ad un certo punto, dentro un vasetto di ceramica, trovò una piccola chiave, probabilmente di un cassetto o di un tiretto.
Si allontanò di qualche passo e si voltò verso una delle pareti della camera, completamente occupata da una libreria con vari cassetti e, in angolo, uno stipo.
Si avvicinò a quest’ultimo e constatò che la chiave ci entrava perfettamente; aprì con impazienza e trovò una busta gialla. Non c’era altro.
La prese e notò che non era sigillata, doveva servire come raccoglitore o una cosa simile. Tirò fuori i fogli contenuti e ci diede un’occhiata; il suo cuore mancò un battito quando vide il nome di Thomas sui fogli.
Nascose la busta sotto la maglietta, infilata dentro i pantaloni, chiuse lo stipo e rimise a posto la chiave. Abbassò la tapparella e, chiusa a chiave anche la porta, si fiondò giù per le scale.
Due minuti dopo correva sotto la pioggia, che ormai si era fatta forte e cadeva a goccioloni, rimbombandogli nelle orecchie; nonostante stesse imprecando tra i denti per non essere riuscito a trovare un ombrello neanche da sua nonna era euforico. Non si era mai sentito così realizzato, aveva quasi centrato il suo obbiettivo e questo lo riempiva di orgoglio.
La busta sotto la maglietta gli dava fastidio a contatto con la pelle e temeva potesse cadergli; la tirò fuori dal suo riparo e corse più veloce, stringendosela al petto e coprendola con la giacca per proteggerla dall’acqua.
Arrivò alla palazzina dove abitava e si fermò davanti all’ascensore, togliendosi il cappuccio. Aveva una gran voglia di leggere tutto subito, ma si trattenne: meglio in camera sua, lontano da occhi indiscreti.

La busta gialla era appoggiata sulla sua scrivania, le carte sparpagliate sul pavimento. Mihail dava di spalle alla porta, intento a leggere; gli tremavano le mani e si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore di continuo. Aveva chiuso la porta a chiave, era certo di aver chiuso la porta a chiave, ma improvvisamente sentì due mani stringersi attorno al suo collo. Gli uscì dalla bocca un grido strozzato mentre cercava di staccare le mani dell’aggressore con le sue, agitandosi, divincolandosi; cercò di vedere chi era che lo aggrediva, ma non poteva voltare la testa abbastanza.
Le mani lo lasciarono improvvisamente e lo scaraventarono a terra, sentì qualcosa di duro che lo colpiva alla tempia e vide nero per un istante. Riaprì gli occhi, le carte erano diventate rossastre.
Si voltò e si trovò davanti Thomas. Un altro colpo e un altro, un altro…
Si svegliò di colpo, le tempie bagnate di sudore, il corpo scosso da brividi.
Aveva paura. Si alzò un poco e bevve dell’acqua; si era abituato a tenere un bicchiere d’acqua sul suo comodino per non dover uscire da camera sua di notte.
Aveva letto tutto il plico e quello doveva essere la causa dell’incubo.
L’idea che suo cugino fosse rimasto dieci anni rinchiuso in un ospedale psichiatrico lo aveva sconvolto; abbandonato là, come un sacco. Stava male solo a pensarci.
Il plico che aveva trovato conteneva referti medici e lettere che Elena Saxon aveva ricevuto da un suo vecchio amico, uno psichiatra, che le aveva consigliato il luogo dove far curare Thomas. C’erano anche altre lettere, destinate alla migliore amica della donna, ma lei non le aveva mai spedite: parlavano di come avevano vissuto quel dramma in famiglia, di come avesse reagito Henry Saxon una volta scoperto che suo figlio aveva tendenze omicide, di come volesse allontanarlo dalla famiglia, quasi nasconderlo. Di come Elena si fosse opposta.
Thomas una volta all’anno riceveva la visita di sua madre, ma suo padre non era mai andato a trovarlo.
E dopo dieci anni i medici avevano deciso che il ragazzo riusciva a mantenere almeno una parvenza di normalità ed avevano deciso di concedergli qualche mese di prova per vedere se riusciva a relazionarsi in maniera normale, sempre assumendo le pillole prescritte. Ma i suoi genitori erano troppo presi con il loro lavoro, sempre in giro, e non potevano controllarlo; Mihail e la sua famiglia invece potevano.
Il ragazzo scosse la testa: gli sembrava impossibile che Elena non avesse detto ai suoi genitori dei problemi di Thomas, anche perché avrebbero dovuto almeno accertarsi che il ragazzo prendesse regolarmente i medicinali. Quindi erano loro che non l’avevano detto a lui e a Vikitza, non solo, l’avevano anche nascosto per bene, lui non ricordava di aver visto una sola volta quei famigerati farmaci.
Probabilmente i suoi avevano creduto che il loro figliolo sarebbe partito con dei pregiudizi verso il cugino, avevano creduto che, se Thomas l’avesse aggredito, lui lo avrebbe subito riferito a loro.
Aveva una gran voglia di andare da loro e ricoprirli di ingiurie, ma si trattenne.

Il giorno dopo non aveva ancora deciso cosa fare. La cosa più sensata sarebbe stata quella di andare subito dai suoi genitori e dire loro tutto quello che avrebbe già dovuto dire settimane prima, ma qualcosa lo tratteneva.
Ci pensò a scuola, per tutta la mattina. Era un chiodo fisso e non riusciva a trovare una soluzione.
Ci stava pensando anche mentre si dirigeva in camera sua, dopo pranzo; solo che trovò la porta aperta.
Sbarrò gli occhi: si era dimenticato di chiuderla a chiave.
In camera sua c’era Thomas, chino sulla scrivania, dove c’era la busta e i fogli sparsi.
Suo cugino lo sentì arrivare e si voltò di colpo; Mihail deglutì e il ricordo dell’incubo lo fece rabbrividire, ma lo sguardo di Thomas era ben diverso da quello che si aspettava.
Non era furioso, assassino, cattivo. Suo cugino aveva paura: quello che gli leggeva negli occhi era puro terrore, disperazione. Niente odio, niente rabbia. Solo tanta, tanta paura.
< Thomas, posso spiegarti…> balbettò, cercando di improvvisare qualcosa, ma suo cugino non lo ascoltò. Uscì in fretta dalla stanza, passandogli davanti senza guardarlo negli occhi. Corse per il corridoio, sparendo dalla vista di Mihail, che rimase là davanti all’uscio, imbambolato, nella stessa posizione in cui aveva scoperto Thomas.
La porta d’ingresso sbatté violentemente.
Mihail cominciò ad insultarsi con ferocia, perché si sentiva un idiota, ad aver lasciato la porta aperta, ad aver permesso che Thomas scoprisse le sue indagini, le carte di sua madre. Quelle carte lui doveva averle già viste, i referti medici li conosceva già. E le lettere di sua madre, quelle su suo padre…
Avrebbe voluto sbattere la testa contro lo stipite della porta.
Cosa doveva fare? Thomas era pericoloso in quel momento?
Cercò di mettersi un poco nei suoi panni, ma gli risultava molto difficile. Sospirò una, due volte. Poi si decise, entrò nella stanza, rimise le carte nella busta e ficcò il tutto nel suo cassetto. Uscì chiudendo la porta a chiave, si mise le scarpe e corse in strada, cercando suo cugino.

Lo aveva perso; si guardò attorno con il fiatone: aveva girato per tutti i luoghi che Thomas poteva conoscere, la scuola, il parco, la biblioteca… non sapeva più cosa pensare. Aveva chiesto in giro se lo avevano visto, ma sembrava scomparso nel nulla. A dire la verità suo cugino non usciva mai di casa se non per andare a scuola e quindi probabilmente non conosceva quasi per nulla la città: rimuginò su dove potesse scappare qualcuno in una città come quella.
Poi gli venne in mente il fiume. Non distava molto da casa sua e proseguiva per un bel tratto lungo un sentiero pieno d’alberi, nascosto alle macchine dalla folta vegetazione; ci andava molta gente di domenica, ma di lunedì di certo era quasi deserto, soprattutto a quell’ora. Il cielo poi era grigio e faceva freddo: quanto di meno invitante per una passeggiata sul lungo fiume.
Si diresse di corsa laggiù e percorse rapidamente il sentiero, guardandosi bene attorno; il vento scuoteva ferocemente le fronde degli alberi, faceva davvero freddo e il sole non accennava a fare capolino. Mihail aveva fatto tempo a prendere la prima giacca che si era trovato davanti, ma era troppo poco anche quella.
Ad un certo punto vide Thomas e quasi gli venne un colpo: aveva scavalcato le barriere che delimitavano il sentiero ed era lì sul bordo, rivolto verso l’acqua con fare meditativo. Si voltò anche lui e lo vide, impallidendo.
Giusto quando Mihail provò ad avvicinarsi si voltò e senza pensarci due volte si gettò in acqua: non era un tratto in cui le correnti erano particolarmente forti, ma era molto profondo. Il ragazzo si inabissò senza alcun urlo; l’altro scavalcò la barriera, si tolse la giacca e le scarpe il più rapidamente possibile si tuffò nel fiume.
Aveva seguito un corso di salvataggio in piscina, qualche mese prima, per poter lavorare come bagnino e questo gli tornò utile. Afferrò suo cugino da sotto le ascelle e lo trascinò verso l’alto. Lui fortunatamente non oppose alcuna resistenza.
Non gli era mai capitato prima di mettere in pratica quanto aveva studiato, ma riuscirono a raggiungere entrambi la terra ferma, sani e salvi: pensò che tornati a casa avrebbe dovuto ringraziare vivamente sua madre, che lo aveva spronato a partecipare a quel corso.
Erano bagnati fradici e il ragazzo sentiva i vestiti congelarsi addosso a lui; prima che Thomas potesse anche solo pensare di ributtarsi in acqua si rivestì, lo prese per un braccio e lo trascinò sul sentiero, dritto a casa.
Non c’era nessuno a casa in quel momento; andarono di filato in bagno dove Mihail gettò un asciugamano a Thomas.
< Muoviti o prenderai un raffreddore.> fu tutto quello che riuscì a dire.
Thomas non si mosse, lo guardò con uno sguardo spento.
< Che c’è?>
Il ragazzo si morse un labbro, evidentemente spaventato.
< Non voglio tornare là dentro.>
Mihail non disse nulla, mentre l’altro continuava.
< Non ci voglio tornare.>
Non ci fu risposta, solo la voce del ragazzo che ripeteva all’infinito la stessa frase, come una preghiera, la voce che si incrinava ricordando tutti gli anni di bianco, di silenzio, di foglie nelle pozzanghere, di solitudine, con la sola certezza che se era lì era solo per colpa sua, perché non era normale, non era come gli altri.
Mihail non rispose.

Epilogo – The call

I suoi genitori si stupirono molto quando chiese il numero di Elena, della madre di Thomas, ma non fecero domande; si limitarono a scambiarsi degli sguardi preoccupati prima di dettarglielo.
Mihail fissò a lungo lo schermo del cellulare con le sopracciglia aggrottate, pensando a cosa avrebbe potuto dire a quella donna.
Voleva tornare alla normalità, niente più paure, niente incubi, niente porte chiuse a chiave; voleva solo vivere come sempre. Ma c’era un ma.
Schiacciò il tasto di chiamata ed aspettò, seduto sul bordo del suo letto; la porta di camera sua era aperta.
Lasciò che gli squilli gli scivolassero addosso piano, lentamente: uno, due…
Chiuse gli occhi e al terzo squillo una voce femminile rispose.
“ Pronto?”
Mihail aprì gli occhi lentamente: Thomas stava passando davanti a camera sua, diretto in cucina; si scambiarono un’occhiata.
“Pronto?” chiese di nuovo la voce femminile, un po’ preoccupata.
Mihail sorrise.
“Mi scusi, signora. Ho sbagliato numero.”
Riattaccò; due settimane dopo dormiva ancora con la porta chiusa a chiave.
   
 
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