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Autore: SomewhereOverTheRainbow    09/12/2010    1 recensioni
E' la prima storia che scrivo, spero vi piaccia! Parla di una ragazza che riscopre il senso dello scoutismo e ritrova la fiducia in se stessa.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Può andare, le faremo sapere. Avanti un’altra – dice la collega accanto a me. Ed ecco entrare una nuova ragazza venuta al colloquio per entrare nel mondo del lavoro. Come le altre si siede di fronte la schiera di esaminatori e mostra il suo curriculum di studi. – Vediamo…laurea in economia, due anni di specializzazione…- .
Dalla faccia di quella ragazza si capiva che era molto motivata, mi ricordava un po’ me da bambina.
Da piccola sognavo di viaggiare per il mondo, visitare nuovi Paesi, conoscere la gente del luogo e la loro cultura. Mio padre mi raccontava spesso dei suoi viaggi in Inghilterra, in Giappone e in America, e forse è stato proprio il suo modo di descrivere quei luoghi che ha fatto nascere in me questa grande passione. Ogni sera prima di andare a dormire mi fermavo a guardare i ritagli di giornale e le foto delle più importanti capitali europee, sognando il giorno in cui avrei passeggiato per le loro vie. “Da grande viaggerò per il mondo e diventerò una grande donna d’affari” rispondevo sempre a chiunque mi domandasse cosa avrei voluto fare da grande. Aspettavo con ansia il giorno in cui avrei potuto scegliere di partire e sembrava che la mia fanciullezza non passasse mai.
E quel giorno arrivò, ma non come me lo immaginavo. Dov’era finito tutto l’entusiasmo che avevo? Nella mia anima regnavano paure, ansie, stupidi timori che non facevano altro che mettere in dubbio la mia partenza. Dovevo prendere una decisione, così per riflettere meglio andai al porto a fare un passeggiata. Le onde del mare si infrangevano con forza sulla spiaggia, mentre piccole navi approdavano nel silenzioso porto. I gabbiani volavano in alto nel cielo inscenando stupendi spettacoli pirotecnici con aria di chi è sicuro di essere al posto giusto nel puzzle della vita. Il mio posto, invece, dov’era? Avevo paura. Paura di scegliere e di sbagliare. Paura del futuro, come un bambino il suo primo giorno di scuola. Guardai l’orologio e realizzai che si era fatto tardi e che a casa tutti mi stavano aspettando, così salii in macchina per tornare a casa. All’improvviso sentii una strana sensazione, rallentai e mi guardai intorno: mi sentivo osservata da qualcuno che però non riuscivo a vedere.
-Sarà una mia impressione – pensai, ma subito vidi che, in un vicolo buio e lercio, c’era un ragazzino seduto a terra. Aveva la pelle scura e i capelli neri come la notte, dai tratti somatici si poteva capire che proveniva dall’India o da qualche Paese del Medio Oriente. Aveva comunissimi occhi castani ma la cosa che mi colpì di più fu il suo sguardo: mi guardava fisso negli occhi come se mi stesse chiamando, come se mi stesse chiedendo aiuto, come se mi stesse dicendo di non rimanere a guardare cosa succede nel mondo ma di rimboccami le maniche e agire. Scesi dalla macchina per andare da lui ma non lo vidi più, era sparito nel nulla. Decisi che era stata la stanchezza a farmi immaginare tutto così mi avviai verso casa. Appena arrivai salii subito in camera mia e mi misi a pensare a ciò che mi era accaduto qualche minuto prima e una domanda sorse spontanea: “Quello che ho visto era vero o una fantasticheria?”. In quel momento mi venne in mente il suo sguardo ed i tanti significati che gli avevo dato mi ronzavano incessantemente in testa. “Rimboccarmi le maniche e agire”…cosa vorrà dire?
Iniziai a guardarmi intorno, come se stessi cercando la risposta tra i tanti oggetti nella camera; i quaderni e i libri sulla scrivania, la divisa della squadra di pallavolo buttata sulla sedia,  le tante “snowglobe” raffiguranti le città italiane visitate e accanto uno spazio vuoto, nella speranza di riempirlo con quelle di altre città che avrei visitato. Ma lì in un angolo qualcosa mi guardava, attendendo che qualcuno la rispolverasse dopo essere stata per un paio di anni abbandonata su uno scaffale. Mi avvicinai per vedere e mi accorsi che era il mio vecchio fazzolettone scout, odorante di polvere ma pieno di ricordi ormai indelebili. Come quello del mio ultimo campo estivo nel reparto, l’ultimo fuoco di bivacco, l’ultima notte a dormire in tenda con le mie compagne. Oppure come quello del giorno dei passaggi: la fine dell’avventura in reparto e l’inizio di una nuova in noviziato. E poi come dimenticare tutti i momenti, belli e brutti, allegri e tristi, divertenti e noiosi, passati insieme a quelli che ormai consideravo miei fratelli. Mentre questi ricordi riemergevano dentro di me, una lacrima scivolò lentamente sul mio viso fino a cadere sul fazzolettone creando una piccola macchiolina sulla stoffa.
In quel momento mi venne un lampo di genio: era quella la mia vocazione, era quella la via giusta da seguire, era quello il mio posto nel puzzle della vita. Mettermi al servizio degli altri per la gioia di farlo, per la gioia di vedere gli altri sorridere e per la serenità d’animo che si prova dopo che si è compiuto il proprio lavoro.
Avevo finalmente capito che lo scopo della mia vita non era entrare nel mondo degli affari, come volevo fare da piccola, e che la mia passione per i viaggi poteva essere vissuta in altro modo, portando vantaggi sia a me sia a chi mi sta intorno.
Riuscii a mettermi in contatto con i capi del gruppo scout del mio paese e in breve tempo tornai a far parte della grande famiglia che in passato mi aveva ospitata. Un giorno, però arrivò a casa una telefonata particolare: era avvenuto un terremoto in una località abbastanza lontana dal mio paese che aveva distrutto le città vicine e il mio capo scout voleva che andassimo ad aiutare. Saremmo partiti il giorno stesso quindi mi dovevo sbrigare. Chiusa la telefonata, corsi sopra a preparare lo zaino, che non facevo da molto tempo e avevo quasi dimenticato il metodo. Sì il metodo, perché dovendo camminare per un bel po’ di strada, gli scout preparano lo zaino in modo che il peso sia equilibrato e non penda tutto da una parte. Presi l’uniforme scout, la posai sul letto e cominciai a fissarla, a esaminare ogni suo minimo dettaglio ed improvvisamente un brivido mi percosse la schiena: non era dovuto al freddo ma all’emozione di rindossarla dopo tanto tempo. Ed ecco che, appena infilata, i ricordi cominciarono a riemergere di nuovo ma questa volta non erano piacevoli come i primi. Soprattutto il giorno in cui presi la terribile scelta di lasciare gli scout: non dimenticherò mai la faccia dei miei compagni quando dissi quella frase “Non me la sento di continuare, lascio gli scout”. “Ormai quel che è passato è passato” pensai, così preparai le ultime cose e raggiunsi gli altri all’aeroporto. Il viaggio non durò molto e appena arrivammo ci recammo subito nel luogo prestabilito, dove stavano già costruendo una delle tante tendopoli.
Lo scenario mi fece venire la pelle d'oca: edifici crollati, pezzi di mattoni dappertutto, la folla per strada in preda al panico, gente afflitta che cercava, invano, i propri cari. Ci mettemmo subito a lavoro, sgomberando alcuni edifici dalle macerie e dai calcinacci e assistendo le persone in difficoltà. Io e altri due miei compagni ci occupammo di aprire un passaggio in una casa diroccata per permettere alle squadre di soccorso di recuperare alcuni beni primari. A un certo punto vidi spuntare qualcosa sotto un cumulo di macerie, qualcosa simile a una sfera rossa grande quanto una pallina da ping-pong. Mi avvicinai per vedere meglio e constatai che non era una pallina: era una piccolissima manina, ricoperta di sangue che cercava, a stento, di muovere qualche dito. Mi bloccai, non riuscivo a muovermi, a parlare, ero come pietrificata. Uno dei miei compagni mi vide e mi chiese cosa mi stesse succedendo ed io cercai di rispondere, guardando fissa in una direzione, ma dalla mia bocca uscì soltanto un debole suono simile a un “”. Il mio compagno guardò in quel punto e la vide pure lui.
Subito chiamò un vigile del fuoco che accorse e ci aiutò a spostare le macerie che erano sopra quella piccola bambina che non doveva avere più di sei mesi. L’ambulanza arrivò in pochi minuti e la portarono subito all’ospedale. Io ero ancora traumatizzata per quella scena così mi sedetti in un angolo qualche minuto per riprendermi. Si avvicinò un bambino e mi chiese “Cosa ti succede?” ed io risposi “Non sono più sicura di farcela, non sono così forte da resistere in questo posto”. Lui mi guardò fisso negli occhi e mi disse “Passare attraverso le difficoltà e decidere di non arrendersi, è questo che fa la vera forza”. Rimasi un po’ sbigottita da una risposta del genere, ma all’improvviso mi sentii come se quella scena l’avessi già vissuta. Subito mi venne in mente lo sguardo del bambino indiano che  avevo incontrato nella mia città, così capii che erano la stessa persona ma non feci in tempo a rialzare lo sguardo che era già scomparso. Non ci pensai due volte a seguire il suo consiglio così tornai a lavoro più carica che mai.
Da quel giorno non fui più insicura sulla mia vita (ero riuscita a diventare una manager d’azienda rimanendo, comunque, negli scout), ma soprattutto avevo capito che il misterioso bambino che compariva ogni volta nel momento del bisogno era quella parte di me che mi diceva di andare avanti e di non darmi per vinta. Inoltre mi dissero che la bambina che avevamo salvato era sopravvissuta alla nottata e che, dopo qualche settimana in ospedale, era tornata a casa. Le avevano messo al polso un bracciale con scritto il motto scout “Estote Parati”, in ricordo dei suoi soccorritori che le avevano salvato la vita.
“Luisa stai bene?” mi dice la mia collega. Come se mi stessi svegliando dal sonno, rispondo “Si si tranquilla…” e ricomincio a guardare la ragazza. Noto con stupore un bracciale più particolare rispetto agli altri: era blu e bianco con la scritta ESTOTE PARATI in rosso. – Sai il significato della frase scritta sul tuo bracciale? – le chiedo. Lei un po’ stupefatta per la domanda risponde di no così aggiungo – Significa: “siate pronti”, in spirito e corpo, per compiere il vostro dovere. Spero che non tu non lo capisca troppo tardi, come è successo a me.
  
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