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Autore: BigMistake    13/12/2010    2 recensioni
Dal prologo:«Sapete Colas, mia madre mi diceva sempre di aver paura dei vivi non dei morti!» le labbra truccate si distorsero in un sorriso sadico. «Non temo i fantasmi!»
Ispirato al musical cinematografico del 2004: Mentre si consuma il dramma del Fantasma dell'Opera la Parigi del 1870 sta cambiando. Gli ideali della Rivoluzione sembrano essersi dispersi, i ceti medi vanno via via scomparendo mentre la borghesia ed i nobili si preoccupano solo delle proprie tasche. Gli assetti della società mutano in maniera drastica, vecchie fazioni amiche si trovano su fronti diammetralmente opposti. La Guerra incombe sulla Francia con la sua scia di morti innocenti e corpi straziati, viziando il giudizio del popolo sull'Imperatore e decretandone il declino. Nell'ombra i vecchi giochi di potere e politica continuano a muovere i fili dei propri burattini. Questo è lo scenario mentre l'Opera Garnier è al rogo. Qualcuno osserva la scena, attende risposte da tempo. Ci sono mostri mascherati da Angeli, Angeli caduti che cercano di rialzarsi, ali strappate... Ed al Fantasma dell'Opera non resterà che adeguarsi al mondo che l'aveva rifiutato ...
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christine Daaé, Erik/The Phantom, Madame Giry, Nuovo personaggio, Raoul De Chagny
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lumière Noire - Deux anges tombés'
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CHAPITRE ONZE: Envie d'un ange.  

 

 

L’attendeva da più di un’ora. L’attendeva da tre giorni, da quando erano giunti nel cuore della notte al vigneto accolti da un Colas in festa, contento di averla domata in un certo qual senso.

L’attendeva perché tutto quel silenzio sembrava essere piombato troppo precocemente e troppo pesantemente.

L’attendeva perché il tumulto che lo afferrava quando la sua mente tornava a quegl’istanti era un nuovo brivido, bollente, che inspessiva la pelle al ricordo delle delicate labbra di Lucia su di essa.

Lucia.

Un nome, un nome vero reale, come reale era lei ed il suo tocco lieve.

Lucia.

Che lo evitava come gli appestati, che si nascondeva nelle sue stanze, facendo brevi apparizioni per poi scomparire da dietro un porta.

Che quella sera avrebbe incontrato il conte ad una cena. Che avrebbe continuato la sua seduzione gentile, che sarebbe stata desiderata, sfiorata, toccata da pelle non sua, mani nobili che avrebbero vagato sul velluto del suo corpo.

“Bene, bene, bene! La pecorella smarrita è tornata all’ovile.”

Era un lampo continuo di ricordi e frasi, tratti di un passato recente ed ingombrante che traboccava, approfittando di tutto quel vuoto attorno a sé. Si alternavano i momenti alle frasi dell’omuncolo sbiadito, il suo ego sfrontato di quando l’aveva visto arrivare in sella con il profumo di lei ancora intenso sui suoi vestiti.

Ancora per poco avvolta dalle sue braccia.

 

Tic, toc, tic,toc.

 

Vedeva il dorso della mano di Colas passare fuggevolmente sulla gota di Lucia.

Il suo viso ancora provato contorcersi in una smorfia di disgusto e sfuggire inclinandosi leggermente.

Gliele avrebbe volentieri staccate le dita.

Odi quando si toccano le tue cose. Ora più che mai.

E la lingua ancor più volentieri.

“Farete la brava adesso che vi siete … sfogata?”

Non si era lasciato di certo sfuggire il palese guanto che gli era stato lanciato attraverso uno sguardo troppo veloce ed allusivo su ciò che fra loro due era in realtà accaduto.

Incredibilmente, perché Erik non avrebbe mai osato neanche pensare una cosa simile potesse succedere a lui. Ma era uno scrigno, prezioso alquanto, dove tutto doveva rimanere di loro dominio, non rivelarsi alla malizia e alla curiosità di Colas. L'omuncolo stava entrando in un campo che non gli competeva e questa volta, Erik, non si sarebbe limitato ad una sfida amichevole in giardino.

Era entrato in quella cappella, nel loro peccato vissuto alla luce smorzata di una candela completamente consumata, un luogo che gli sarebbe stato per sempre precluso.

Un campo dove non doveva arrischiarsi il caro Colas.

Sciocco, misero, infame.

Avrebbe risposto anche nell’immediato, con la stessa rapidità con cui avevano cominciato a fremergli le mani, se solo non fosse stato fermato dalla voce che lo aveva abbandonato nel silenzio dopo aver rigettato ogni verità appartenutale.

Malice era tornata.

“Per favore Erik, lasciateci soli!”

 

Tic, toc, tic, toc.

 

Solo il perpetuo ticchettio del pendolo sul camino sovrastava quella cappa pesante, che ancora li ricopriva. Si erano concessi solo pochi attimi ancora stretti, con i corpi tra di loro avvinghiati in un abbraccio asfissiante.

Pochi attimi piacevolmente intensi.

Istanti che servivano solo a placarsi, per riprendere quella parte di ragione completamente abbandonata a sé stessa.

Il tempo di raccattare i vestiti, indossarli dandosi le spalle con una rinnovata pudicizia e ritornare alla propria vita, dove Malice conosceva un limite invalicabile che non avrebbe mai solcato.

Un confine che Lucia invece aveva osato ignorare.

Pochi attimi piacevolmente intensi, ma sbagliati.

La lancetta scorreva troppo lentamente per i suoi gusti. Non era mai stato un tipo paziente, capace di aspettare. Un burattinaio dirige, lo spettatore assiste allo spettacolo.

E lui non assisteva.

Mai, ed era già da troppo che rimaneva a guardare, osservando inerme il mutare degl’eventi.

Ubbidiente, troppo ubbidiente.

Detestava il senso d’impotenza, l’apatia che stava stagnando in lui come viscido e putrido limo in uno stagno.

In cosa lo stavano trasformando? In cosa lo stava trasformando?

 

  

Tic, toc, tic, toc.

 

Inquieto, guardava oltre le sue mani giunte sul mento la porta. Il corpo poteva sembrare rilassato così adagiato sulla poltrona con la camicia di batista profumata di bucato aperta sul torace fiorente che si muoveva al suono del placido respiro, le lunghe e tornite gambe fasciate di nero piegate in maniera naturale. Ma nemmeno il suo mezzo volto bianco poteva celare da sotto l’apparente tranquillità, i denti rigidi digrignati furiosamente dietro quelle labbra distese, o i muscoli e le ossa che crepitavano ad ogni minimo spostamento tanto erano inarticolati.

 

Ti inalberi mentre scorre il tempo Erik.

Ti inalberi perché è con lui, il de Chagny.

Ti inalberi perché non vuoi che lui conosca il suo segreto, non vuoi che disegni con le labbra i segni lividi orientali che giacciono sul suo ventre così come hanno fatto le tue.

Non vuoi che si tocchino le tue cose.

 

Non è mia.

 

Allora perché la stai aspettando ancora? Perché nutri ad ogni rintocco il desiderio che quella porta si apra?

Non negare ciò che invece è evidente: la senti tua, forse più di quanto tu abbia sentito tua Christine.

E sei un pazzo, un pazzo che si sta gettando di nuovo in un baratro, un bambino che non ha imparato quanto il fuoco possa scottare.

Non ora con chi non ha indietreggiato nemmeno una volta alla presenza della tua maschera.

Nemmeno davanti a tutti i tuoi mostri.

Nemmeno davanti al Fantasma dell’Opera.  

 

Dlin, Dlin, Dlin.

 

Il pendolo indicò così la terza ora del mattino, prima di riprendere a scandire il tempo con il suo picchiettare tra gl’ingranaggi. La tenebra ancora si avvolgeva salda nel cielo buio, senza stelle. E di lei alcuna traccia.

Ad ogni rintocco avvertiva il fascio di nervi da sotto la sua pelle tendersi sempre di più, corde tenute da piccole chiavi in ottone tirate dalla smania cocente di sapere troppe cose e tutte assieme.

Apriti, maledizione!

 

Tic, toc, tic, toc.

 

Cla – clack …

 

Il pomello della porta scattò, rispondendo al suo richiamo.

Sfinita, visibile persino alla penombra della stanza, ma non per motivazioni banalmente fisiche. Ordinata e composta come la docile Constance, non aveva nulla fuori posto.

L'aspetto illibato di come quando l’aveva vista uscire.  

Si spostò sicura verso una delle lampade vicina ad uno specchio antico, senza curarsi della presenza che, da in fondo alla stanza, continuava ad osservarla.

Era stanca, stanca di tutto, lo si avvertiva dal passo pesante che calcava il pavimento con colpi duri, come se faticasse a sollevare il piede gettandolo a terra appena le forze finivano.

Si guardò allo specchio senza osservarsi. Lì, in quel riflesso poté ammirarla anche Erik, ma lei non scorgeva ciò che gli altri vedevano: c’era solo Lucia con gli occhi ancora cerchiati e gonfi che sembravano sconfinati, i capelli selvaggi a cui cercava di dare un garbo togliendo alcune foglie secche, il viso pallido e scavato come se quelle ore passate a piangere l’avessero risucchiata.

Non era piacente, non era attraente, non era l’infingarda seduttrice.

Ma aveva qualcosa di più del personaggio che indossava ogni mattina.

C’era la Lucia di quella notte, la notte in cui si era aggrappata alla disperazione, a delle spalle forti. La notte in cui non si era sentita sola.

Aveva ancora un briciolo della sua umanità.

“State cambiando, sembrate più compassionevole … non è un bene …”

«Divertita in compagnia del conte?» non fu ciò che disse, ma come lo disse a farle tremare le gambe. Era cupo, sottile, un tono sfumato che non cercava di coprire il sarcasmo. La voce cavernosa, bassa, una battuta detta in un teatro dall’acustica pessima che non presenta imperfezioni, una voce partita dal diaframma che, viaggiando in lui, era divenuta ardente, cromatica, espressiva.

Una voce a cui, se fosse stata colta di sorpresa, probabilmente avrebbe ceduto crollando miseramente cadendo appassita come un fiore reciso.

La raggiunse silente.

Incombeva su di lei come l’ira di una divinità arcana.

La macchia bianca appariva inconfondibile, anche se questa volta il sesto senso che possedeva nel trovarlo si era disperso tra i mille volti di una donna che non sapeva più chi fosse e cosa volesse. Non si girò, rimase a fissarlo dal riflesso nello specchio attendendo la sua mossa.

Aveva fatto tanto per non ritrovarsi da sola con lui, non voleva rischiare ancora.

Eppure, quella piccola parte di lei che ancora cercava inesorabilmente di lottare, ne era soddisfatta. Perché da un lato Malice avrebbe voluto incamerare il colpo, prendere la sua debolezza ed archiviarla tra gli errori da non ripetere, ma Lucia, con la sua voce flebile, il tono appena udibile di un bisbiglio, le stava chiedendo di ascoltarla.

Ignorarla era difficile quando si trovava insieme ad Erik.

«Non dovresti intrufolarti così nelle mie stanze, potrei ucciderti senza neanche guardarti in viso …»

«Dimmi Constance, come spiegherai i segni sul tuo grembo al conte …» una carezza sul suo ventre la fece vibrare come le corde di un violino sotto l’insistente sfrigolio dell’archetto. Provocatorio, sfrontato, la costrinse a cercare spazio in quella infinitesimale distanza creata. L’arte di una tortura mentale che ti conduce alle confessioni più disparate, peggiori persino di quelle che nella sua prigionia aveva avuto l’onore di provare. «Tacerai il suo significato come stai facendo con me …»

Ricordava i segni impressi con l’inchiostro nero su di una pelle bianca, una tecnica antica con cui in oriente amavano dipingere il corpo. Poche linee disegnate sotto l’ombelico, una provocazione.

“Perché volevate parlare del Fantasma dell’Opera a vostra sorella, Malice?”

Perché Erik è come me e perché lui forse potrà avere ciò che io sapevo in cuor mio di non poter avere.  

«Lo vuoi davvero sapere che cosa significa …» sembrava ubriacata dalla sua influenza pressante. Gli occhi ben stretti si chiusero quando sentiva di non poterglielo negare, il capo inclinato da un lato e la bocca dischiusa alla ricerca dell’aria necessaria a sopravvivere, le spalle che tremarono impercettibilmente quando afferrò i lati del mobile che aveva di fronte per sorreggersi sotto la gravità dell’affermativa risposta muta del Fantasma.

 

Hai  ancora il tuo potere. Sono qui, sarò sempre parte di te.

 

«Significa che anch’io sono un Demone, un spirito volpe inquieto, che si trasforma in ciò che vuole e che può nascondersi sotto mentite spoglie. Kitsune!» disse spirando cercando di arrancare con ansimi sempre più profondi. «La Sûreté mi aveva lasciata sola dopo l’uomo impegnato nel commercio di contrabbando mascherato da imprenditore per l’acciaio che stavo seguendo, smascherò il mio doppio gioco. Mi nascosi a Nara dove lo conobbi. Aveva gli occhi sottili ed un viso gentile. Si era invaghito della donna occidentale, di me. Mi regalò un Tanto ed un Kogai. Io non sapevo che li avesse rubati al suo maestro, mi ero limitata ad assecondarlo con qualche moina felice di poter imparare qualcosa di più su questo popolo affascinante. Non conoscevo il Giappone prima di allora, ma con lui, con Izumo, uno dei pochi a sapere qualche parola inglese oltre il giapponese, iniziai ad imparare qualcosa. Fu lui ad insegnarmi l’arte del combattimento. E poi, il gentile ragazzo apprendista, mi tradì. Scoprirono il furto e, piuttosto che confessare il suo reato, accusò me di essere un demonio, una Kitsune, di averlo ingannato ed indotto a rubare per me. Per impedirmi di irretire giovani ragazzi sprovveduti, mi marchiarono come un animale, tatuandomi al centro della mia anima ciò che io stessa confessai: Kitsune. Avevano ragione, io sono un Demone …»

«E lui ti ha ritenuta un DemonioInsistette prepotente, come prepotente era la voglia morbosa di sapere .

Malice tacque, ma aprì gli occhi. A quel gesto Erik seppe che lo aveva sentito e lo stava evitando come gli ultimi giorni.

«Non hai risposto alla mia domanda!»

Comprese.

Comprese che non aveva modo di allontanarsi che se voleva trovare una via di fuga doveva affrontarlo.

Doveva affrontare le sue domande, doveva allontanarlo perché lei non poteva essere di nessuno.

Non era mai stata di nessuno.

Ne era convinta. Almeno fino alla fatidica notte in cui, per sua volontà, aveva ceduto a lui, alla sua anima.

Non posso scappare, ora.

«Non credo di doverti alcuna risposta …» aveva esitato, poco convinta dalle sue stesse bugie.

O dalle bugie che gli altri le riservavano, si nutrivano della sua fiducia continuando a suggere da lei ogni singola stilla di rammarico, odio, frustrazione. La volevano annientata nel corpo e nella mente, una mera macchina di metallo che risponde doverosamente agl’ordini.

Non una persona.

Ma come poteva mentire a sé stessa così? Come poteva separarsi quando lo sentiva così vicino?

Su cosa avrebbe dovuto far leva?

“Non vuole voi …”

L’affermazione di Colas riaffiorava ogni volta che la sua mente pensava che forse, Erik, la vedeva sotto una luce diversa. Un luce debole di candela, la stessa con cui si era addentrato nel suo passato e che le aveva fatto crollare ogni barriera di fronte a qualcuno che come lei aveva imparato a reagire all’odio con altrettanto odio.

“Non vuole voi, chi vorrebbe una mela a cui hanno già dato un morso … ”

Chi vorrebbe una donna che si vende per mestiere, che uccide senza rimorso. Chi vorrebbe una persona incapace ad amare. Nemmeno un Fantasma.

 «Invece mi devi molte risposte …»non era una richiesta, ma un ordine. Era questo il modo per lui di imporre la sua esistenza, quando ancora viveva come un imperativo invisibile, presenza artistica ed inconfondibile in un mondo che l’aveva rinnegato.

“Christine …”

Camminare di spalle su di un terreno accidentato non è mai una cosa saggia e questo Malice lo sapeva molto bene. Lo stava facendo in quel momento aggiungendo un nuovo ostacolo al loro sentirsi, toccarsi carezzevolmente con quello che erano riusciti a condividere, lo aveva fatto quella notte quando si era abbandonata al languido abbraccio di Erik, lo aveva fatto alcuni giorni addietro quando aveva tentato di mettersi in contatto con la sorella.

La buca in cui era incappata e che l'aveva fatta cadere.

La terza lettera intercettata dalla Sûreté in dieci anni , come se non sapesse che anche questo tentativo sarebbe andato in fumo ancor prima di essere attuato.

L’aveva scritta consapevolmente, conoscendo già il destino a cui andava incontro quel pezzo di carta sigillato.

Le piaceva scrivere, tanto.

Il riversare nero su bianco ciò che sentiva parlando dei suoi incontri di quanto iniziasse a pesarle convivere con il fardello di Malice e il suo ruolo così imponente nella sua esistenza. Era una richiesta d’aiuto la sua, verso sé stessa, verso la piccola Lucia che cercava di uscire in qualche modo.

“Questa volta state preoccupando davvero Vidocq, teme di perdere il suo sicario ed io non lo biasimo per la scelta che ha compiuto! Ci sono voluti anni per trovarvi Malice, anni … e per cosa? Malice, quando vi ho presa dal carcere eravate solo agl’albori e già si vedeva in voi il grande potenziale che avete dimostrato in tanto tempo di onorato servizio. Siete disposta a rinunciare ad un mestiere per cui sembrate nata per divenire lo stabile passatempo di un uomo che non vuole voi? Già, non vuole voi, ma come biasimarlo: nessuno vorrebbe una mela a cui hanno già dato un morso … e poi non conviene a nessuno che vi rifiutate a compiere il vostro dovere!”

Sulle spalle sentiva ancora le mani di Colas stringersi dopo la loro conversazione chiarificatrice.

Non l’aveva mai detestato così tanto, nemmeno quando in Giappone l’aveva abbandonata per quasi un anno. Comunque le sue parole avevano sortito il giusto effetto: d'altronde un truffatore deve saper giocare con la dialettica con la stessa arguzia di un borsaiolo che sfila il borsellino ad una bella signora.

L’aveva convinta a rinunciare. A rinunciare alla sua vendetta, ormai priva di ogni scopo, a rinunciare ad avere una vita vera, un’identità che ormai apparteneva ad un cadavere senza Dio e senza nome.

«No, non c’è nulla di cui valga la pena discutere monsieur le Fantôme.»

Erano passi, tanti ed enormi, volti all’indietro.

Così indifferente da sembrare fasulla nel pronunciare il nome che non usava più. L’aveva colpito al volto, proprio da dove la piaga sotto il cuoio bianco aveva iniziato a pulsare mentre la guardava attraverso uno specchio, con un volto che era cambiato radicalmente da quando l’aveva conosciuta.

I tratti gentili e delicati erano scomparsi dietro una maschera di durezza scostante. Pentita di quello che aveva compiuto in una notte così vicina da avergli segnato la pelle e l’anima.

Sembrava gridargli di nuovo Illuso. Lei, che lo chiamava sempre per nome.

Non Angelo o Fantasma. Con lei era stato Erik.

Lei, che lo poneva di fronte all’essere un umano non uno spettro, lei che aveva cercato di convincerlo di non essere un mostro, lei che non era nemmeno voltata per parlagli.

 

Pietà.

Questo l’ha mossa a regalarti qualche spicciolo.

La pietà che leggevi sul volto delle persone che ti guardavano con una smorfia di disgusto, che ti disincantavano su quello che sarebbe stato il tuo futuro dietro le sbarre. La stessa pietà di Christine quando le hai chiesto di guardare oltre il mostro.

Tante belle parole, dette in un momento in cui sembrava incline a confidarsi in cui ti ha donato solo false speranze, perché in realtà nemmeno chi ha toccato il fondo potrebbe volerti.

Perché volere un mostro deturpato in viso?

Un mostro a cui si è donata, non perché fosse ciò che voleva ma solo per la commiserazione di una povera anima come la sua. Ora ti sta trattando come un estraneo, come uno dei tanti a cui ha dato per dovere quell’immenso calore che tu non avresti mai osato sperare di provare.

Non hai bisogno della sua pietà. Non hai bisogno di lei.

Non hai bisogno di nessuno.

Sei solo, come lo sei sempre stato.

 

«Bene  …» disse all’improvviso, dopo una lunga pausa dove i suoi occhi avevano disegnato ogni venatura del legno cercando di trovare la giusta freddezza per incontrare il suo sguardo di giada. Lo sentiva addosso come se la stesse circondando, come se stesse sospirando sul suo collo con il suo fiato piacevolmente caldo e le sue labbra ovunque il corpo le richiamasse.

Di certo, il ricordo di lui sulla sua pelle non l’aiutava. Delle sue mani, forti, decise e delicate che si trovavano ovunque e da nessuna parte. Le sue mani tanto ammirate che avevano utilizzato la loro avida conoscenza da musicista, le sue mani che potevano uccidere ma che, come nemmeno nelle sue fantasie, erano riuscite a donarle un piacere immenso.

Le sue mani setose, che sembravano impazienti e timorose, incerte ed esperte, contraddittorie dietro ogni inibizione che si era andata a nascondere.

Le sue mani che riuscivano a soffocarla persino al ricordo, strozzandole un respiro frustrato quando il corpo ne avvertiva l’inganno della mente.

Le sue mani che non cercavano me, le sue mani che vagavano su un corpo non mio … Christine.

Ma lui voleva di più di un modo titubante di scacciarlo.

Voleva la verità, voleva che gli dicesse quanto lo ripugnasse, quanto le sue parole fossero false e spinte da una compassione stomachevole.

Voleva che confessasse la sua pietà.

Cercò di sfuggirgli, provando a sgattaiolare di lato per non sentirsi così oppressa, il tempo di ricacciare torbidi pensieri lascivi in un angolo oscurato. Tentativo vano perchè ad Erik bastò allungare un braccio sul mobile per bloccarle ogni via di fuga. Gli oggetti depositati su di esso iniziarono a tintinnare fra di loro scossi dall’urto, le sue dita si strinsero così fortemente allo spigolo che con poca pressione avrebbe lasciato il calco sul legno.

Eppure lei non sobbalzò, non si spaventò a quella reazione.

«Abbi il coraggio di guardarmi quando mi parli, Lucia …» ringhiò sul suo collo. Quel nome detto di proposito perché a lei si stava rivolgendo.

Non c’erano Malice, Constance, l’assassina o qualsiasi altra persona risiedesse in quel corpo. E non c’era il Fantasma, il Signore delle Botole o il Figlio del Diavolo.

Lui, Erik, voleva la verità da Lucia.

E la voce ora, era divenuta chiara e limpida, rimbombando nella sua mente non più come un sussurro indistinto.

Hai ancora un cuore. Non sei solo un arido terreno. Puoi ancora avere dei sentimenti.

E una persona che ha conosciuto la fame, non dienega la mela a cui hanno dato un morso ...

Un colpo basso, meschino avrebbe osato definirlo. Questa volta Dio si stava davvero divertendo con lei.

Il gioco era ancora in atto, non si era smorzato sotto il grave errore commesso.

E lei ora doveva dimostrarsi inflessibile e non riusciva.

Osservò il braccio disteso di Erik davanti a sé, seguendolo fino ad incontrare il suo sguardo di rimprovero, stavolta acceso dall’onta che gli stava muovendo.

Eppure non poteva dimenticare, non poteva fare a meno di riportare alla sua mente ciò che invece le rimestava l’anima, le attorcigliava lo stomaco e le faceva logorare ogni singola porzione della sua pazienza divenuta sottile come l’ultima lastra di ghiaccio in una pallida mattina di primavera ancora legata all’inverno.

 “Christine …” 

Ora ricordava il suo nome, ricordava Lucia, una donna che si era abbandonata ad una folata passeggera di passione?

O almeno, quello che lei cercava di definire tale, provando a convincersi che non c’era dell’altro in lei nascosto ad indicarle quanto la turbasse averlo accanto. Quanto l’avesse sorpresa piacevolmente trovarlo lì, ad aspettarla. Quanto avesse provato piacere nel vedere quel minimo interessamento a lei, in una notte scura quando era scappata.

Non è voi che vuole ...

“Christine …” 

Gli occhi castani di Lucia si fermarono nei suoi, cercando di forzarsi nell'ascoltare quel nome.

Erik ebbe un brivido, qualcosa di strano, che lo prese alla gola per l’intensità con cui lo stava osservando. Non si era mai sentito così messo a nudo da qualcuno come da quegl’occhi, penetravano insolenti in lui come due mani che lo privavano della maschera indossata.

Togliendogli il fiato.

E quando Lucia socchiuse le labbra per parlare cercò di concentrarsi su queste, spostando il suo sguardo da quello di lei con piccoli movimenti incerti.

«Io non sono ciò che cerchi, non rischiare una delusione troppo grande ... soprattutto non confondere una notte con una promessa. Io non sarò mai la tua Christine …» 

Era solo un nome per lei, sulla bocca di troppe persone ed ora persino sulla sua.

Le dava addirittura fastidio sentirlo, ormai nauseata dall’eccessiva importanza che le riservavano.

Christine.

L’aveva detto, pronunciato quando si era aperta a lui così tanto che aveva toccato i bassifondi della sua anima.

Quando Lucia gemeva per Erik e lui soltanto.

Quando era in lei.

La innervosiva, troppo. Un piccolo tarlo che aveva iniziato a prendere possesso in lei, un tarlo che doveva uccidere prima ancora che potesse consumare il legno. Ma lui rodeva inesorabile, come l’acqua che cade sulla roccia e con l’azione di secoli ne crea una più grande e più forte. Non doveva provare nulla di tutto quello, non doveva sentirsi seccata.

Purtroppo il negarsi la gelosia che la corrodeva non  lo fermava, continuava a mangiare e mangiare senza riguardo alcuno del pregiato mobile che stava distruggendo.

Ed era un azione lenta e devastante, tanto che riusciva a controllarla appena ora che se ne stava liberando.

Erik amava Christine.

Erik avrebbe voluto Christine.

E lei non sarebbe mai stata l’angelica figura della giovane cantante.

Mai.

Nessuna scenata per questo, nessuno vorrebbe immergere le mani in un acquitrino.

Devo essere ciò che mi chiedono di essere, con altri nome, altre personalità.

Quello che hai avuto durante quella notte era solo la parvenza di ciò che ti aspettassi.

Sono uno strumento e nulla più.

Ora più che mai.

«Quindi è per questo …» non sapeva come continuare. Forse niente lo avrebbe fermato dallo scappare se non lei, il suo viso e i suoi occhi colmi di una rassegnazione che mai le aveva letto fino ad allora.

La stessa che, probabilmente, si poteva leggere nei suoi di occhi mentre per l’ultima volta avrebbe pronunciato il suo amore per Lei.

Amore, perché gli sembrava una parola così sconosciuta, così lontana …

Tutte le sere, nel suo Regno, si era addormentato con la convinzione di conoscere l’amore ed ogni mattina, Erik, aveva aperto gli occhi con la speranza di viverlo appieno. Eppure, ora, non sapeva più cosa volesse dire amare.

Era confuso, come un ragazzino alle prese con i primi sentimenti importanti, non riuscendo a gestirli a causa della scarsa esperienza.

Ma poi qualcosa proruppe nella silente attesa.

Una risata amara a quell’obbiezione, una risata aspra.

Un risata finta.

Si stava forse prendendo gioco di lui?

Tremendamente fasulla.

«Non sei né il primo, né sarai tantomeno l’ultimo a chiamarmi con un altro nome …» era come se un cumolo di neve fosse piombata sul suo corpo, fredda e paralizzante lo stava avviluppando nelle sue volute di ghiaccio.

Né sarai l’ultimo, questa è una realtà contro cui non puoi combattere, Erik. E nemmeno io.

C’erano solo le sue braccia incrociate al petto, i suoi occhi resi esili da un’espressione contrariata e la bocca tirata in una linea retta terribilmente seria.

Non triste o arrabbiata.

Seria.

«… io sono diventata …» deglutì cercando la giusta metafora che la rappresentasse. Cosa meglio del vile contraccambio che serviva a comperare polvere da sparo e gioielli, al pari di una vita o del dolce letto mercenario di una meretrice?  « ... una banconota, una banconota che passa di mano in mano, uno strumento, un mezzo. Un oggetto. Sono stata tante persone in dieci anni, tutte quelle che mi hanno ordinato di essere … in quel momento volevi Christine, sono stata lei. Fine della questione. Non mi offendo, non più ormai, ma ora devo essere solo Constance, non posso farmi distrarre. Siamo troppo vicini per fallire …»

Determinata e fredda, come desideravano.

 ... in quel momento volevi Christine …

Ed i piedi di Erik sentirono che sotto di essi il pavimento sembrava sgretolarsi.

Erik, puoi continuare a negare che l’amore per Christine era solo una chimera?

Un desidero irrealizzabile di un mero sogno?

Puoi affermare con sicurezza che ciò che continui a volere è lei?

Puoi continuare a giocare con i tuoi sentimenti testardi, incaponirti con la stessa caparbietà con cui ti sei convinto di come è l’amore?

Non stai aspettando solo di poter lasciare il pazzo folle innamorato di un idea a Christine?

«Se non potrò avere la mia di vendetta, giuro che avrai la tua Erik!» la veemenza con cui si pronunciò fu scagliata come un duro colpo, difficile da comprendere ma pieno del significato dell’invidia che diceva a sé stessa di provare. Posò delicatamente la mano sulla sua guancia scoperta, frapponendola a loro così poco distanti. «Ma per farlo devo essere concentrata su Constance, devo essere lei in ogni momento. E dovrò essere solo di Philippe de Chagny d’ora in poi, in modo che possiamo assicurare alla giustizia del popolo un deturpatore della libertà, la stessa che ci viene negata. Un de Chagny Erik, capisci di cosa parlo: lo stesso nome di chi ti ha privato del tuo Angelo, della tua gioia, della tua musa!»

Come lei doveva essere algida e spietata, così Erik doveva ritornare per Malice. 

Lo voleva forte e sicuro come l’aveva conosciuto al Teatro dell’Opera. Lo voleva pieno di lui, del suo genio.

Lo voleva accanto e voleva che risorgesse dalle ceneri della sua umiliazione. Dalle ceneri dell’Opera Populaire .

Lucia era la sua alleata, era Erik, il bambino fenomeno da baraccone. Malice, che era stata fino ad allora la sua rivale, rappresentava il Fantasma assassino privo di scrupoli, imperatore del suo Teatro, ed ora era piombata dalla sua parte.

Una maschera difficile da cancellarle sul volto, come lui non riusciva a separarsi da quella fisica.

Una maschera incisa nell’anima.

Passava il pollice con piccole carezze sulla sua guancia perfetta ed i suoi occhi, caldi ed imperscrutabili, saettavano tra quelli di lui e le sue labbra dichiarando un piccolo desiderio inconfessabile. Tacito e muto come il polpastrello che andò a sfiorare la sua bocca, nella silente bramosia di un’attrazione che ormai non aveva molto segreto.

E si trovò a chinarsi di nuovo su di lei, per un attimo.

Un gentile attimo di distrazione, un fremito avvertito quando si trovarono così vicini da sfiorarsi, schiacciandola contro il mobile ansante come se non riuscisse a sopportare il peso opprimente di lui.

Era difficile anche solo respirare, le ciglia si fecero pesanti calando le palpebre stanche, stremate ed incapaci di lottare.

Magari perché non voleva combattere ciò che provocava in lei Erik.

Così perso, non si avvide della mano fresca posata sulla sua guancia scoperta, scivolare lungo il collo fino al suo petto.

«Ti invidio Erik, non sai nemmeno quanto!»

La voce bassa e roca ad un passo da lui, lo fece ridestare dall’intorpidimento. Un segreto uscito come se non fosse premeditato. Una confessione questa volta sincera.

Sentita.

Sua.

Era così vera da bruciare, quasi Erik avesse posato le mani sulla lampada accesa.

La stretta s’intensificò lungo la mascella nerboruta dell’uomo, che strinse i denti quasi istintivamente cercando di porre una certa distanza per non cadere di nuovo in triste tranello del Fato.

Ma Lucia si protese in avanti, spostò addirittura il piede e fu costretta ad arpionarsi ad una qualsiasi cosa pur di non cadere tramortita dall’effetto che ora si trovava subire. 

Scomparve spaventato nel buio di quella notte lasciando un indicibile vuoto davanti a lei che si ritrovò sola.

Totalmente sola.

  

Note dell'autrice: Buonasera fantasmine! Come potevo nel giorno di Santa Lucia non pubblicare? E no! Era prorpio dovuto,inoltre il giorno di nascita della nostra eroina è proprio il 13 dicembre del 1843 quindi tanti auguri alla mia bambina!!! A parte gli scherzi con questo capitolo si conclude la faccenda dello scorso e nel prossimo ci avviamo verso la conclusione. Non so di preciso quanti capitoli si svilupperanno, però diciamo che entriamo in quelli che saranno gli eventi che porteranno alla conclusione.

Per quanto riguarda il tatuaggio che ha Lucia ha sul ventre ha un significato preciso. Inanzitutto per i Giapponesi la sede dell'anima è il ventre (tanto è vero che la forma di suicidio per preservare l'onore o per purificarsi da una colpa,  il famoso harakiri - taglio del ventre che veniva praticato secondo un rituale codificato con un taglio ad L da sinistra verso destra e poi in alto per poi essere decapitati ed evitare al morto di avere un espressione sofferente cosa non prevista nel seppuku una forma di suicidio analoga applicata per le stesse ragioni.)

Il tatuaggio non aveva solo uno scopo ornamentale: specialmente in giappone era considerato un marchio per i criminali anche se veniva fatti in maniera particolare ovvero dovevano coprire quasi totalmente il corpo ecc. Vi rimando a questa pg di Wikipedia per maggiori informazioni sul tatuaggio giapponese molto interessanti QUI.

Ovviamente quello di Lucia non è un vero e prorpio Irezumi, piuttosto un marchio per distinguerla. Questo perchè viene accusata di essere una Kitsune, uno spirito Youkai, anche se in realtà più che essere una Kitsune, ovvero un demone volpe, sarebbe un ibrido o meglio un figlio fra il demone ed un umano un han'yo di kitsune, ho deciso di abbreviare . La leggenda delle Kitsune è molto bella (come tutta la mitologia Giapponese ed Orientale) ma il motivo per cui ho scelto il demone volpe lo potete trovare nelle caratteristiche di tale demone. Ora non mi dilungo perchè la mia ricerca è stata particolarmente interessante ma lunga e più per una cultura personale. Santo Wikipedia ci assiste anche in questo caso e trovate diciamo un bel sunto QUI. Se deciderete di leggerlo capirete il perchè di un demone volpe.^^

Anche lei è stata chiamata figlia del Diavolo in qualche modo come potete vedere, mi piaceva come analogia.

Il Kanji per kitsune è questo  e diciamo che è quello che ha tatuato Malice.

Ovviamente ho adeguato alcune usanze e tradizioni per descrivere la mia storia, però mi sembra doveroso riferirvi la mia ispirazione da cosa è stata scaturita.

Spero che questi piccoli spunti e riferimenti siano graditi.

 

Vi aggiungo qui un piccolo riassunto della vita di Lucia che ho usato come risposta alla recensione di Giuly, in modo che anche chi magari non l'ha vista può beneficiarne:

"Beatrice è la sorella maggiore, ed è lei quella che subisce le violenze dal padre(forse non mi sono soffermata abbastanza su questa faccenda, se vuoi però, e soprattutto hai tempo, nei capitoli precedenti c'erano piccoli riferimenti al fatto che Beatrice proteggesse la nostra eroina dal suo incubo, - vedi metti la benda che gli Angeli ti portano i sogni e bla bla- ovvero dal padre che sgattaiolava nel suo letto accanto a quello di Lucia. Una notte quando ancora era una bambina sente dei rumori e si toglie la benda e vede quello che il padre fa alla sorella e lo sente dirle che Beatrice è il Diavolo). Il padre - se un verme simile possa definirsi padre - non riserva le stesse attenzioni a Lucia solo perchè già da piccola aveva attirato gli occhi del Monsignor Favalli, uno dei pupilli del Cardinale Antonelli (ripeto solo il cardinale è realmente esistito ed è stato lui a dare il via libera per le Stragi di Perugia, un massacro di cui la Chiesa non deve andare fiera. Tra l'altro è stato uno scandalo all'epoca, una delle tante gocce che ha portato alla presa di Roma: le guardie svizzere hanno persino rapinato i turisti che a loro volta hanno denunciato il fatto alla stampa.) che l'avrebbe voluta per sè già da bambina per farci i suoi porci comodi prendendola come protetta (capitava all'epoca che chiamassero le loro amanti protetta). Ma suo padre voleva aspettare che fosse abbastanza "matura" solo perchè sperava di ricevere in dono un bel nipote bastardo(scusa ma non c'è termine più adatto, la storia è piena di figli illeggittimi di papi che prendono potere e vengono aiutati da i loro genitori), quindi la vende letteralmente quando Lucia raggiunge i tredici anni. A quell'età si trasferisce nella residenza del Monsignore e diventa la sua amante, iniziando a mutare inquella che poi sarà Malice. Infatti si lascia convincere che sia tutto normale, riceve di buongrado i regali che le fa (come il crocefisso che porta con sé da sempre) e lei, comunque una ragazzina ingenua, la notte lo lascia libero di farne quello che vuole. Poi arriva il giorno che ascolta la sua prima conversazione politica, a sedici anni, quella relativa alle Stragi di Perugia riesce a trovare documenti, ascolta cose e si mette in contatto con alcuni patriottici che vogliono l'Unità d'Italia. Inizia a scrivere per il Piccolo Corriere Nazionale sotto l'acronimo LADL, spifferando per ben due anni tutti i crimini a cui riesce ad assistere dalla residenza del Monsignor Favalli (grazie a questa attività rivoluzionaria la Sureté la nota).
Ovviamente viene scoperta dal Monsignore che in un impeto di rabbia tenta di ucciderla. Per difendersi riesce a colpirlo con un sopramobile, ma non si ferma per collera o per disperazione fino a ridurre la sua faccia in poltiglia. Viene presa la mattina seguente, incarcerata a Castel Sant'Angelo, torturata per un giorno ed una notte cercando di farle confessare l'eresia (ho immaginato che in un carcere religioso per condannare a morte ci voglia almeno una piccola eresia o una partecipazione demoniaca)ed infine condannata a morte per decapitazione ( la ghigliottina allora piacque molto evidentemente. ^^). Il giorno in cui dovrà essere giustiziata viene prelevata da Colas e portata in Francia, dove diventa Malice la spietata assassina che conosciamo.
Per convincerla le promettono di ottenere una revoca dell'esilio anche per un giorno solo, per permetterle di compiere la sua vendetta, ovvero stecchire il padre, e lei diventa molto più che efficiente nel suo lavoro per ottenere questo "privilegio". Nella lettera scopre che le hanno tenuta nascosta la morte del padre solo per tenerla vincolata, fredda ed efficiente."

Il resto credo che ormai sia storia.

Rigrazio come sempre tutti, ma in particolar modo GiulyRedRose e Sidney Bristow.

Ora mi rimetto a voi. Con tanti bacini pieni di fantasmi Geraldini/Erikucci ...^^

I remain, Gentlemen,. Your obedient servant.

Mally

   
 
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