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Autore: Ruta    13/12/2010    2 recensioni
Non le chiese di restare, non le domandò di tornare. Aveva menzionato argomenti di cui avrebbe voluto discutere con lei, ma non avevano parlato d’altro che della sua famiglia; domande riguardose, quasi banali. Si chiese che significato avesse quel comportamento. Teddy mugolò qualcosa stringendo i pugni minuscoli contro i bottoni che le chiudevano la veste alla gola e la tenerezza ammansì gli occhi di Andromeda, mitigando il dolore che urlavano in ogni momento tranne che posandosi su di lui, una tranquillità lenta e affossatrice.
Tornerai?- avrebbe voluto chiedere. Perdonerai mai?- ma rimase zitta.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Andromeda Black, Narcissa Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Ecco, ecco. E’ la prima volta che scrivo qualcosa nel fandom di Harry Potter e beh, spero il risultato non sia una mezza stupidaggine o una completa schifezza. Ho sempre sognato di poter realizzare qualcosa su questi personaggi, Narcissa e Andromeda in particolare. Mi affascinano i loro caratteri, della seconda appena accennato e l’idea del loro rapporto, di come potesse evolversi dopo la fine della guerra, la realizzazione di tutti questi elementi uniti era una sfida che mi sono imposta. E’ una shot semplice, una trama piuttosto banale credo, ma spero ugualmente possa piacervi ;).  

 

 

 

 

 

 

 

Come un giorno di neve

 

 

*

 

 

 

 

 

 

 

«Quando la guerra sarà finita voglio che Teddy conosca Draco, mamma» aveva pronunciato una grigia mattina di marzo Ninfadora.
Andromeda per poco non si era scottata dietro ai fornelli preparando la colazione e Remus, complice al pari suo in quello stupore e pur così pacato di solito, aveva strabuzzato gli occhi e tossicchiato il caffè che stava bevendo, con sommo divertimento del figlio che aveva dovuto credere il papà fosse diventato blu come i suoi capelli per farlo ridere e battuto allegramente le manine.

«Dora…» l’aveva richiamata col suo tono più esterrefatto, quello che un tempo aveva conservato ai tempi di Hogwarts, nei momenti in cui mantenere un aspetto dignitoso davanti alla Mcgranitt spettava a lui solo in qualità di caposcuola, maledicendo però in cuor suo la vena comica dei due Malandrini per eccellenza che li avrebbe portati all’ennesima, inevitabile punizione.   
Lei si era voltata, un’espressione truce nell’indignazione –non buffa, o forse solo un pochino- e le ciocche rosa le cui le punte viravano pericolosamente a una tinta di viola scuro come i vestiti che sua madre aveva iniziato ad indossare dalla morte del padre, le labbra sottili serrate in una smorfia senza sorrisi storti ad arricciarle gli angoli.
Gli occhi – che Merlino ce ne scampi, aveva pensato!- con l’identica sfumatura di feroce ostinazione che li aveva animati quando gli aveva riferito senza mezzi termini che sarebbe diventata sua moglie un giorno, con o priva del suo consenso.

«Trovi tanto bizzarro il fatto che io desideri nostro figlio conosca suo zio?» aveva chiesto arcuando un sopracciglio minacciosa. Remus aveva inghiottito a vuoto e trattenuto un mugolio che temeva sarebbe suonato disperato oltre che patetico, le lunghe dita intrecciate sul tavolo della cucina tra il bricco di latte e la ciotola della marmellata.
«E’ tuo cugino Dora. Tecnicamente è anche suo, ma di secondo grado»  l’aveva corretta paziente.
Aveva tentato di intercettare lo sguardo della suocera, ma Andromeda fissava il nipote seduto sul seggiolone, tutto concentrato nell’intento di gettare pezzi di muffin attorno, una strana aria cupa ad adombrarle i lineamenti del volto e renderla tanto simile alla sorella maggiore che avrebbe potuto farlo rabbrividire o fremere d’odio.

«Inoltre non credo quella parte della tua famiglia sarebbe propensa come te all’incontro» aveva aggiunto. Lei non era sembrata scandalizzata né presa contropiede a quella prospettiva.
Il cipiglio all’Hermione si era fatto più marcato – e buffo-. 

«Draco ha l’età di Harry, non conosce ancora la differenza tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Si è solo trovato dalla parte sbagliata della linea, tutto qui».
Tutto qui. Sua moglie aveva così semplicisticamente perdonato al cugino i pluri-tentati-omicidi preparati a danno di Silente e l’inequivocabile posizione rivestita all’interno delle file nemiche proselite a Voldemort. E l’aveva guardato senza distogliere gli occhi dai suoi, quella famosa luce determinata e sfacciata nelle iridi scure.
Aveva annuito stancamente allora Remus, pensando tra sé che quando – se- quella guerra avesse visto conclusione, Draco forse avrebbe potuto anche accettare l’idea di avere un cugino mezzosangue, figlio di un licantropo ed una metamorfomagus dall’improbabile capigliatura color gomma da masticare. L’eventualità che il ragazzino dall’aria apatica e gli occhi grigi di Sirius appartenente ai suoi ricordi d’insegnante prendesse in braccio suo figlio, gli era apparsa così irreale al momento che aveva preferito accantonarla in un angolo della mente senza neppure prenderla troppo sul serio.    
Ninfadora era tornata al proprio the. Aveva girato il cucchiaino sbattendolo contro i bordi della tazza con violenza goffa producendo un tintinnio ritmico, lo zucchero aggiunto poco prima tutto raggruppato sul fondo e ora a vorticare furiosamente nel centro come cristalli di ghiaccio in una bufera.

«In fin dei conti è quello che Sirius è stato per me, una specie di zio attaccabrighe» aveva aggiunto incolore con una strana smorfia.
Remus le aveva preso la mano stringendogliela nelle sue congiunte; l’aveva scoperta gelida e tremante.

«Anche se a volte non risponde esattamente alle nostre aspettative»  corrugò la fronte nello sforzo di non esprimere opinioni riguardo le citate posizioni, «rimane sempre parte di quel che siamo. Rappresenta quello da cui proveniamo, il punto da cui partiamo prima di dimostrare quanto valiamo. E’ sangue del mio sangue e spero diventi parte della nostra –sua- famiglia nel futuro che stiamo lottando per costruire. Che Draco sia un bravo zio attaccabrighe e gli insegni a rimorchiare professori che preferiscono far la maglia come zitelle piuttosto che uscire con eteree fanciulle».
Remus aveva alzato gli occhi al cielo, intimamente divertito- possibile fosse tanto astrusa la possibilità di riuscire a fare un discorso serio con lei?- prima di scoppiare in una risata franca.

«Fammi capire bene. Da quando in qua io sono diventato una precoce zitella e tu un’eterea fanciulla? Credo sia piuttosto confusa per quanto concerne la realtà, Dora cara. Quella che hai appena descritto in un impeto celebrativo è la storia di Bill e Fleur».
Ninfadora gli aveva elargito una generosa donazione del proprio amore, sotto forma di un pugno al braccio.
Andromeda alle loro spalle, invece, era rimasta in silenzio tutto il tempo, soppesando le parole appena sentite con la precisione di un pozionista nel misurare gli ingredienti.

Quando la guerra sarà finita voglio che Teddy conosca Draco, mamma.
Mamma, non Remus. Perché, perché dirle una cosa del genere? La richiesta di Dora ricordava terribilmente quelle che da bambina Ted era solito prometterle di accontentare. Aveva lo stesso sapore di quella che lui le aveva fatto poco prima di partire, l’ultima volta che l’aveva visto. Vivo.
Le provocava la stessa sensazione di paura e nostalgia, veleno rancido alla bocca dello stomaco.

Quando finirà la guerra io e te ci prenderemo una bella vacanza, Meda eh?
E aveva riso, la risata che anni e anni prima l’aveva fatta innamorare e spinta a disconoscere la sua stessa famiglia e un’intera esistenza, un’infanzia spesa nell’indecisione che l’incomprensione genera e sentimenti aboliti nell’adolescenza.
La risata di Ted uguale alla loro, in quell’istante lungo una vita intera che precede la fine. 
Aveva ascoltato con crescente ed indicibile orrore le risate della figlia e del genero, quella spensierata di Ninfadora intrecciarsi a quella roca di Remus e qualcosa di amaro le aveva ostruito la gola salendole direttamente dal centro del petto ed espandendosi a macchia d’olio come una bolla di paura.
La voce di Dora che rispondeva ad un impulso che poi lei avrebbe definito lungimirante, sovrapposta a quella del padre in un’eco trascinato di morte, quella che non poteva sapere sarebbe presto giunta, ma che sentiva ugualmente vicina, di fianco a sé paziente ed immobile.

Il brutto delle cose è che tendono a ripetersi, sempre.
Mamma,
capelli rosa e sorriso sbarazzino. Meda, occhi limpidi e risata rumorosa.
Ninfadora… Ted…- Dio mio, perché era successo?   
  

*
 

Eccola lì dunque. A mantenere una promessa mai fatta alla figlia morta, ad un anno esatto dalla fine della guerra e dalla sua –loro- scomparsa.
Strinse più forte le braccia intorno a Ted sotto il mantello, ascoltandone rapita il respirare lieve nel sonno contro il collo. Indugiò ancora una volta con gli occhi, spaziando con lo sguardo serrato per via del vento freddo sugli alti abeti che costeggiavano entrambi i lati del viale d’accesso a Malfoy Manor.
Si calò il cappuccio sul viso, sentendolo ghiacciato ed immaginandolo inespressivo come la tenuta che le si presentava dinnanzi, simile ad un’antica roccaforte di pietra levigata e finestre gotiche.
Il portone di quercia a due battenti sotto un arco traforato e portici sormontati da balconcini con capitelli a trifoglio. Chiuse le palpebre per qualche istante, sentendo il torpore invadere il lato destro del corpo e percependolo come qualcosa di benefico.
Il dolore le era consono, le apparteneva quanto la vita non sua che sentiva premere in palpiti di sangue e battiti di cuore contro il petto. Una vita la cui libertà aveva richiesto come prezzo il versamento di altre, spezzate nella caducità della loro fragile essenza tutta umana.
La debolezza di uomini e donne nati per sognare e nell’avverarsi di quei labili incanti sfumati sparire. Figli strappati alle madri e madri strappate ai figli: il macabro gioco della guerra e gli strascichi amari della sua tarda conclusione.
Non servì che bussasse. Un elfo domestico le aprì inchinandosi al suo cospetto in un gesto servile che lei sapeva non fosse dovuto ad un particolare rispetto nei suoi riguardi, ma solo a quello provato verso la signora che così doveva avergli ordinato di comportarsi.

«La padrona vi attende in salotto» l’accolse con voce gracchiante facendole strada e Andromeda lo seguì in silenzio, la presa salda, il mantello indosso ad ondeggiarle intorno all’abito da lutto in uno strofinio sommesso. Non prestò attenzione all’eleganza per nulla opulente degli interni e dell’arredamento, un agitarsi teso di viscere ad ogni passo sui pavimenti sontuosi delle anticamere che le mozzò il fiato.
Merlino, era come immergersi nel passato che credeva di essersi lasciata alle spalle e dove nulla pareva essere mutato nel corso degli anni. Tutto era come allora, ogni cosa, ogni sensazione: la stessa claustrofobia a soffocarla.
Fumo bruciante a schiacciarle i polmoni, una tossina corrosiva nelle vene, perniciosa.       
Arrivarono di fronte ad una piccola porta nera, alla fine di un lungo corridoio di ritratti che avevano storto il naso alla sua vista e a cui lei non aveva badato.
All’interno della stanza, un salotto accogliente e luminoso come non appariva il resto della casa, Narcissa alzò la testa dalle mani che aveva tenuto intrecciate tra loro così strettamente da avere le nocche imbiancate come lo stucco alle mura, qualcosa che lei sapeva – ricordava con dolorosa consapevolezza- da piccola facesse quando particolarmente nervosa o angustiata.
on fu quello quanto la vista del viso della sorella, lasciata bambina e ritrovata donna, la presa di coscienza dei cambiamenti avvenuti in entrambe, delle perdite comuni, a lacerarla in fitte di sofferenza penetranti. I capelli chiari come la luce che filtrava dalle finestre, di un biondo un tempo dorato e ora di una tonalità meno decisa, più sensibile al grigiore che intercorreva tra un filo e l’altro di quelle spighe di grano appassite. Una crocchia severa e una piega quella stropicciata delle labbra, che le rammentò il modo in cui Ninfadora era solita stirarle per mascherare un sorriso colpevole nella sua innocenza.
Ma gli occhi, gli occhi erano uguali, grandi polle d’acqua specchiante avvallate nei tratti scavati di cui ancora serbava memoria quand’erano gonfi, le guance rosse nell’acerba pienezza dell’infanzia.
Lampi azzurri di fiori d’acciaio, screziati nel biancore e nell’assenza di un colore definito in quel pulviscolo cenere che le volava attorno sotto i raggi del sole mattutino.
Entrambe si studiarono guardinghe, prendendo atto della presenza dell’altra e di ciò che essa presupponeva. Sorelle in un terrore comune mai domato, ma solo assopito alla vista altrui, divise da sentieri che avevano percorso direzioni differenti, ma parallele e che ora si rincontravano.

«Suppongo ti sia pervenuto il mio biglietto» iniziò con ovvietà Andromeda, infrangendo quel silenzio inquieto come gli animi che l’avevano mantenuto tale.
«Ammetto di esserne rimasta alquanto stupita».
«Io stessa lo sono stata nel mandartelo, ma ci sono cose di cui volevo discutere che ho ritenuto non fosse il caso trattare via gufo»  Fece un passo in avanti spostando il mantello e mostrando ciò che aveva celato. Teddy continuò a dormire placidamente sul suo seno, gli occhi chiusi in una posa serena e la testa piegata contro la spalla, quel giorno piena di ricci scuri della stessa sfumatura dei suoi.
Narcissa non diede segni di sorpresa o protestò per quel piccolo inganno. Si avvicinò allungando il collo sottile e fissò attentamente i lineamenti del bambino. «Questo è…».

«Mio nipote».
Sulle labbra della sorella si dipinse un sorriso piccolo increspato di rughe sottili come carta di pergamena.

«Sei invecchiata» notò senza traccia di ironia.
«Tu sei solo cresciuta invece» Andromeda incrociò il suo sguardo, lo stesso di allora, pensò Narcissa, quella dolcezza che si era scoperta tante volte a cercare in Bella senza mai trovarla, ma arricchita da un velo di durezza rivolto a nessuno in particolare a renderla più fragile e preziosa.
«Sei diventata una moglie e una madre»  osservò fissandola con l’affettuosità che era stata propria nei loro rapporti fino al momento dell’addio.
«Ho saputo da membri dell’Ordine di alcuni risvolti curiosi cui tu e la tua famiglia sembrereste aver preso parte durante l’ultima battaglia. Spero Lucius e Draco stiano bene» concluse con premura sincera.
Era tutto vero. Sua sorella era lì, dopo decenni di lontananza a separarle in modo irrimediabile, a domandarle della sua vita senza tracce percepibili d’imbarazzo o disagio.
Socchiuse gli occhi alla luce più forte, quasi accecante e con un colpo deciso di polso e bacchetta Andromeda mosse le tende chiudendole.
Non sorrise. Da quando era entrata non c’era stata occasione in cui lo avesse fatto, tranne che guardando il nipote da cui non riusciva nemmeno a staccarsi.
Era la stessa Andromeda gentile dei suoi ricordi, solo con una patina di tristezza maggiore, una malinconia palpabile, una sorta di caligine annebbiata intorno ai suoi occhi provocata da una vecchiaia prematura e una smorfia che le strangolava le labbra in un perenne vezzo imbronciato.
Le sarebbe piaciuto dirle che le dispiaceva, che si rammaricava per quel silenzio cui l’aveva abbandonata per anni, ma sarebbe stato mentire.
Le era mancata, ma nel combattere senza sosta contro il pericolo della morte che incombeva sulla sua famiglia non c’era stato spazio per il rimpianto o qualsiasi altro tipo di pensieri.
La sopravvivenza era stata una realtà, qualcosa cui assurgere con faticoso impegno ed aver raggiunto quel piano di sicurezza in cui da parola vuota e mera essere liberi dal terrore, liberi, libera, -la libertà di amare e vivere- era divenuta tangibile e terribilmente vicina, la rendeva piena di una soddisfazione agrodolce.
Rifletteva su quanto la finzione l’avesse intaccata e fosse costata ai fini di quella sopravvivenza, quanto fingere non fosse diventato più autentico e semplice dell’essere se stessa, della verità.

«Certamente» mormorò.
Andromeda inclinò il capo da un lato, dischiudendo le labbra come per un sospiro lieve.

«Devo andare» disse invece e Narcissa sgranò quello sguardo da bambina solo un po’ più adulta.
Non le chiese di restare, non le domandò di tornare. Aveva menzionato argomenti di cui avrebbe voluto discutere con lei, ma non avevano parlato d’altro che della sua famiglia; domande riguardose, quasi banali. Si chiese che significato avesse quel comportamento.
Teddy mugolò qualcosa stringendo i pugni minuscoli contro i bottoni che le chiudevano la veste alla gola e la tenerezza ammansì gli occhi di Andromeda, mitigando il dolore che urlavano in ogni momento tranne che posandosi su di lui, una tranquillità lenta e affossatrice.
Andromeda aveva fatto il primo passo, toccava a lei fare il secondo. Scansò con il palmo aperto l’elfo già accorso e accompagnò personalmente la sorella.

Tornerai?- avrebbe voluto chiedere. Perdonerai mai?- ma rimase zitta.
Sulla soglia Andromeda si voltò verso di lei. A differenza sua il tempo non aveva mostrato comprensioni di sorta. Aveva i capelli striati da più scriminature bianche di quante l’età non prevedesse, vecchia nella sua disperazione, nell’angoscia che le sprofondava le palpebre –gli occhi dolci di Andromeda scuri come non mai e simili a quelli neri di Bella prima che la follia se la portasse via, prima che tutto la rendesse fuori di sé-. Troppe cose da sopportare, troppa infelicità, insoddisfazione, desideri calpestati e infranti, c’era troppo nella figura scarna di Andromeda che le fece desiderare di poter ritrarsi, allontanare la vista dalla sua. Faceva male vederla così.
Aveva pensato che nella sua fuga sarebbe stata felice, si era consolata in quel sogno, cullandosi in quella visione bella come buona era stata lei, quella favola da principessa troppo meravigliosa per essere reale.
Fece per dire qualcosa, voleva dire qualcosa, non sapeva neppure lei, ma Meda la precedette, come sempre. Era lei la maggiore tra loro, la più grande e matura...        

«Tu sei stata migliore di me». C’era una nota orgogliosa di fondo che le scaldò il cuore, prima che le parole successive di lei glielo accoltellassero. 
«Sei riuscita lì dove io ho fallito» la elogiò stringendo appena i pugni, le falangi irrigidite in una postura resa dolorosa da una pressione troppo forte. «Hai protetto chi amavi».
Non era pena no, quella che la divorava come un cancro dall’interno, pezzetto dopo pezzetto con lentezza atroce. Sarebbe stato crudele e lei odiava la compassione. Era un supplizio maggiore del peso stesso della croce che ognuno riceveva nella sua esistenza. Prenderle la mano e abbracciarla come aveva desiderato fare vedendola diventare bruciatura in casa Black, sentendola così lontana da lei da odiarla, così coraggiosa da volerne seguire le orme. L’amore era coraggio e pianto, l’aveva imparato osservandola scappare e confondersi tra le ombre della notte per inseguirne il profumo. Cos’era rimasto ora del coraggio in quel lamento pieno di strazio?
Teddy si mosse ancora e Narcissa fu sicura di aver intravisto un lampo grigio -come Draco e Sirius- tra le palpebre abbassate, frementi di sogni che vi si accavallavano in punta di ciglia.
Andromeda le diede le spalle incamminandosi sul selciato. Fruscio della gonna a spazzolare la polvere e ticchettio di stivali, rumori di pioggia in un giorno invernale, ma lei fu altrettanto certa nel vederla scomparire sotto la cascata di foglie secche e ramate, che le avesse rivolto un cenno con la mano: una promessa. Sarebbe tornata.


*

 
Era tornata un anno dopo. In novembre, quando le foglie erano già tutte cadute e dell’autunno non restava che il bruciato dei colori, stemperato in un marrone- nero in cui tutto convergeva come in un vortice risucchiante. Tra le pieghe del mantello, non più nascosto, non più in braccio né addormentato, Ted Lupin l’aveva studiata sfacciatamente prima di rivolgerle un sorriso che gli aveva riempito metà della faccina pallida. Aveva gli occhi marroni quella volta, come il terreno umido di fango e melma che avevano calpestato e gli aveva sporcato la punta delle scarpe da ginnastica prima che Meda gliele ripulisse con un incantesimo, del colore che –lui questo non poteva saperlo- aveva fatto ricredere Ninfadora sull’essere noioso di un certo professore a caso.
Marrone castagna affogato nel miele e nell’ambra, pagliuzze d’oro al sole, ocra e bronzo al buio, nelle notti più lugubri e misteriose con lune sanguigne ad azzannare il cielo scuro.
La zazzera indomabile di un’eccentrica tonalità blu elettrica, una goffa marcia tra un passo e l’altro e smorfie strane.
Andromeda aveva lasciato la sua mano, indulgente, permettendogli di precederle nel corridoio dai pannelli in legno, con i quadri che brontolavano per il chiasso. Le aveva sorriso discreta e in quel sorriso nuovo che ancora non arrivava a sfiorarle l’iride spenta, Narcissa aveva visto un frammento dell’Andromeda gentile che continuava ad amare e sperare di riavere indietro.
E poi ancora. Visite sempre più lunghe e con pause sempre meno distanti l’una dall’altra.
Quando Andromeda le aveva scritto la sua prima lettera, Narcissa aveva dovuto rassicurare più volte Lucius di stare bene e che la sua fosse una semplice allergia causata dal cambio di stagione. La seconda aveva finto le fosse finito qualcosa in un occhio, alla terza lui non le aveva creduto più.
Teddy aveva detto la sua prima parola – non nonna né Harry come alcuni si erano aspettati con trepidazione-. Aveva pronunciato solo Vic che era la figlia di Bill e rappresentava già il più grande amore di lui, anche più grande della venerazione che nutriva per il suo lupetto di peluche e la coperta di lana rosa che era appartenuta alla mamma. La chiamava zia Cissy ormai e quando la vedeva le si buttava sulle ginocchia stringendogliele come a non volerle più lasciare. Era un bambino espansivo, sorrideva sempre a tutti e perfino Lucius ritrovandoselo nello studio per caso si era riscoperto colpito “dalle doti linguistiche del moccioso”, beninteso dopo scontati dubbi e sospetti al riguardo.

«Che tu sappia esiste la recondita possibilità Draco abbia un figlio?»  le aveva domandato con sconcerto incredulo e titubante. Lei aveva alzato di poco gli occhi da una lettera appena ricevuta da Andromeda, premunendosi però di nascondere al marito la vista del sorriso che le aveva gualcito le labbra come grinze in un tessuto di seta. 
«Se ti riferisci al bambino biondo nel tuo studio, Lucius, si chiama Teddy è sì, è tuo nipote. Il figlio di Ninfadora»  aveva sottolineato dopo essersi concessa in regalo una pausa di troppo.       
Lucius aveva presto imparato a ritrovarselo tra i piedi ad ogni sua visita e per distrarlo aveva altresì compreso fosse utile ad entrambi preparargli qualcosa da fare, così da occupargli il tempo in modo proficuo e non lasciarlo libero di bighellonare nelle sale vuote, a crear scompiglio a sua giustificazione.
 

*

 
A tre anni da allora, Andromeda tornò. Era sola e alla sua espressione interrogativa scrollò le spalle.

«Finale di quidditch» bofonchiò in tono pregno di disapprovazione e lei si ritrovò ad annuire compartecipe. Lo stesso Lucius non l’aveva forse costretta per anni a recarsi a quelle barbose partite d’altronde?
Percorsero l’usuale corridoio sentendo il silenzio pesante che l’assenza di Teddy e del suo correre festoso provocasse. Più di un quadro prese a mormorare infastidito al loro passaggio e una voce si levò tra le altre, sprezzante e arrogante. «Finalmente si avrà un po’ di pace. Niente moccioso fra i piedi oggi».

«Già, Phineas. Oggi potrai riposare senza che nessuno disturbi il tuo quotidiano riposino di diciotto ore. Ti pregherei però di fare lo stesso cercando di non allietarci con la tua voce soave» ribatté in tono denso di sarcasmo Andromeda. Non si fermò ai richiami oltraggiati che sovvennero dal quadro dello zio né a quelli di molti altri. Solo la voce burbera di uomo dalla cornice dorata e un insolito sfondo urbano riuscì ad attirare la sua attenzione.
«Mi pareva di aver sentito la deliziosa verve della piccola Andromeda ed ora eccola qui».
Andromeda si ritrovò ad osservare la folta barba di Alphard Black con affetto. «E’ un piacere vederti zio Alphard, ma ho smesso di essere piccola da tempo oramai» replicò con gentilezza.

«Questo lo vedo da me» rise lui soppesando la sua figura con approvazione.
Gli occhi grigi dello zio erano di una tonalità troppo familiare e dolorosa perché lei potesse scrutarvi dentro tanto facilmente. Sirius aveva posseduto la stessa malizia nello sguardo antracite dal sapore di rugiada, la stessa impetuosa forza bruciante, lo stesso sorriso malandrino. Sentì le spalle irrigidirsi e Narcissa accostarsi.

«E dimmi nipote è vero che sei già diventata nonna? Che il simpatico monello che gironzola qui di tanto in tanto è il figlio di Ninfadora?»
Dora. Un’altra fitta, più forte delle altre. Si costrinse a rispondere con una disinvoltura che era ben lontana dal provare. « Sì, si chiama Teddy».
Lo zio le rivolse una lunga occhiata indagatrice prima di aggiungere: «In onore di tuo marito, immagino».
Già, Ted. Ted e le sue mani grandi. Ted e il suo abbraccio soffocante. Ted e il suo senso dell’umorismo, la mania per le barzellette sconce che non la facevano ridere. Ted che adorava prenderla in giro e chiamarla perfettina e lasciava una scia di disordine ovunque andasse. Ted e quella sua risata profonda che sgorgava dritta dal petto facendolo gorgogliare e tremare sotto le sue dita.
Narcissa le artigliò il braccio e Andromeda non si accorse della lacrime che le rigavano le guance. Non si accorse neppure dell’espressione colpevole dello zio e colma di dispiacere. Seguì la sorella minore e quella presa intorno al gomito, i polpastrelli affondati nella piega morbida dell’avambraccio con fermezza che nulla aveva di delicato. Narcissa era sempre stata ben lontana dall’assomigliare al debole e capriccioso fiore da cui prendeva nome, forse simile solo nell’essenza mera di un’esteriorità fallace.
Alta per svettare con l’alterigia e la boria che solo un Black dal sangue nero poteva vantarsi di avere, l’illusoria gracilità di spalle e ossa cave come quelle di un uccellino e l’insospettata caparbietà delle sue idee, bianca e azzurra come un pallido giorno d’inverno al suo stoico splendore.

«Devi calmarti»  sussurrò con asprezza, le pupille dilatate e i lineamenti esili contratti nel condurla, un passo dopo l’altro. «Non dar loro questa soddisfazione e non privare te di quella data dal saperli invidiosi della tua forza».
La poltrona era vicino alla finestra, il fuoco nel camino acceso e riverberato da grandi fiamme verdastre, le lunghe code biforcute che spandevano nell’aria un piacevole tepore e un vago sentore fragrante di bosco ed erbe.
La luce non era abbagliante o forse era lei che non riusciva a scorgere nella spessa cortina di tenebre che le annebbiava lo sguardo, altro che non fossero i loro tratti evanescenti.
Li vedeva susseguirsi come in una processione e sentiva risuonare tra le pareti del cranio la perpetua scia ripetuta delle loro risate fragorose.

«Per carità Meda».  Il bisbiglio dolente di Narcissa e quel Meda carico di apprensione.
Sbatté le ciglia una, due, tre volte. Rughe d’impotenza a solcarle la fronte e le due estremità delle labbra arcuate verso il basso. Le falangi sovrapposte sul grembo insolitamente vuoto e freddo.          

«A volte…» Aveva la gola e il palato impastato, l’esofago reso stretto da un nodo aggrovigliato di buchi inconsolabili. «Sì, a volte penso avrei preferito non fare quello che ho fatto, non scegliere il cuore. Mi sarei risparmiata tutto questo dolore». Quella confessione probabilmente provocava più dolore di tutto il resto. Le faceva pensare che loro non avrebbero approvato ascoltandola parlare a quel modo, che ci sarebbe stato biasimo nei loro occhi, che quelle parole avrebbero suscitato scalpore e sorpresa riprovevole. L’avrebbero criticata, considerandola indegna della vita che a loro era stata negata?
«Non sarebbe stato da te».  La voce di Narcissa non era garbata né melliflua: una stoccata che nella doverosa durezza di cui era forgiata, la riportava a riaffacciarsi alla realtà che troppo spesso si era ritrovata in condizione di desiderare scomparisse sotto i cumuli di menzogne con cui la farciva. «L’amore è sempre doloroso, in ogni sua forma». Sembrava davvero capirla e lei anche se per poco se ne fece cullare e trascinare, come in una corrente di fiume.
«Rivedo tutti quanti in Teddy sai? C’è un po’ di ognuno di loro nei suoi occhi». Ma quel vuoto, quello squarcio insanabile che neppure Teddy -il sorriso di Dora sul viso di Remus e le mani di Ted con l’espressione birbante di Sirius- riusciva a colmare e risanare, era così  tormentoso.
Narcissa allungò le mani, in un gesto abbozzato pregno di un riserbo cauto, impacciato nell’esitazione che lo motivava. Quelle candide e lunghe di lei strinsero i pugni stretti di Meda aprendoglieli con risoluzione umile. Non avevano calli né cicatrici, al contrario palmi morbidi e lisci, unghie corte, ma curate. Linee appena accennate e dorsi con venature bluastre ad interrompere l’armoniosità di un rosa perla giovane come non lo era più la proprietaria. Erano mani da guerriera pur non conservando visibili le loro ferite da battaglia. Si chiese quante altre volte le avesse strette tanto da imprimere incisioni graffiate nella carne tenera come in quell’istante, quante volte ancora avesse morso l’interno delle guance ed evitato di dare giusto posto al grido che aveva a raschiarle la gola e non trovava mai suono.

«Forse è il cuore a mostrarti quel che desideri vedere».  
La felicità, l’infelicità… erano tutte opzioni vane, contorte. Colme di trappole ingegnose a macchiarle irrimediabilmente ed offuscarle come vetri appannati sotto gli aliti tremuli di una tempesta in arrivo. Trent’anni prima Andromeda aveva rinnegato il proprio sangue, la famiglia e il buon nome e tutto questo per una visione che le si era prospettata migliore, un anelito ingioiellato di mille promesse e aspettative. Ed era stata felice Andromeda, glielo si leggeva in viso, in ogni crepa che la perdita di quella gioia paga e completa le aveva causato. Non avrebbe sofferto a quel modo altrimenti, non così a lungo e tanto profondamente. 
Era stata felice e la felicità non poteva essere dimenticata né insabbiata al contrario della sua nemesi per eccellenza. Ogni sentimento felice arrecava un quantitativo non indifferente di pena e questo per renderlo più umano e bello alla fine della sua ricerca nonché al sospirato conseguimento.   
Erano fredde nelle sue quelle mani, come lo era stata la mattina che era arrivata lì per la prima volta col piccolo Teddy addormentato tra le braccia. «Suppongo tu abbia ragione».   
Andromeda levò lo sguardo che aveva tenuto puntato sul bracciolo di velluto della poltrona, lucido, ma in qualche modo più sereno ora. Sembrava così simile a quello che lei aveva gelosamente conservato nelle sue memorie che Narcissa pensò potesse non essere tutto perduto, che esistesse sempre la possibilità le cose andassero al loro giusto posto, si accomodassero.  
 

*

 
Era sopraggiunta la primavera del quarto anno. Era mezzodì di una nuvolosa giornata di fine aprile e Teddy era steso sul tappeto a pancia in giù a giocare con un Grattastinchi piuttosto vecchio e malconcio. Aveva i capelli di un rosso acceso e violento, gli occhi scuri e rare efelidi sparse qua e là. Lucius aveva storto il naso al vedere quello scempio e alzato gli occhi al cielo ringhiando qualcosa di incomprensibile, ma assai poco lusinghiero riguardo al fatto che quei dannati Weasley avrebbero finito col deviarlo.  

«Hai fatto un buon lavoro con Draco».
Narcissa, impegnata a rispondere ad alcune missive alla scrivania, sorrise moderatamente all’indirizzo del barbagianni di fianco a lei e appose la sua firma in fondo alla lettera.

«Ho cercato di fare il possibile» si schernì, nella fierezza che quel complimento le portava.  
Il gufo volò alla finestra, aperta dal movimento aggraziato di una bacchetta non sua e poi subito richiusa; lei l’osservò trasformarsi in un puntino nero nel cielo fumoso e infine scomparire.  

«Ho sentito del fidanzamento».
La voce di Andromeda era allegra, ma costellata di un’ironia soffusa e trionfante che ritenne fuori luogo in quella determinata occasione. Era logico pensare ne avesse sentito parlare, soprattutto in considerazione del soggetto del pettegolezzo e visti i rapporti amichevoli che ne intratteneva, come era oltremodo logico anche ritenere arrivasse a comprendere che di quell’argomento fosse vietata la discussione in modo esplicitamente implicito tra quelle mura.
«Immagino la famiglia di lei e gli amici non siano entusiasti come invece appari tu» si ritrovò costretta suo malgrado a dire, una punta di fastidio per quell’ammissione.  
E la guardò, come a chiederle silenziosamente cosa di preciso in quella notizia inaspettata per tutti riuscisse a trovare motivo di letizia. Andromeda scoppiò a ridere, sfoggiando quella sua nuova risata dal retrogusto antico e un poco amarognolo. «Non dovrei dunque mostrarmi lieta all’idea che mio nipote sposi una ragazza brillante come Hermione Granger?»

«Andromeda» la riprese lei, come ammonendola. L’altra sbuffò senza darsi però pena di nasconderlo. «Cosa c’è? Lucius deve ancora riprendersi dal trauma procurato dalla novella? O forse è il particolare delle origini non magiche della futura nuora a scuotere le fondamenta del suo fragile ego?»  insinuò scoccandole un’occhiata in sordina.
Narcissa nascose con prudenza riflessa il sorriso che le era spuntato involontario. «Trovo sia troppo impegnato nel programmare come sventare la sciagura per rendersi pienamente conto del resto e a quel genere di cose ha comunque finito con il soprassedere da tempo a suo modo».
Lo sguardo era scivolato sulle gambette in movimento di Teddy ed il sorriso si era mostrato in tutta la sua limpidezza. «Mi stavo domandando piuttosto» riprese, procedendo con la lettura di una nuova pergamena, «cosa di preciso ti abbia convinto a portare quel mezzo Kneazle con voi» concluse, alludendo all’oggetto di giochi che soffiava in sua direzione con fare bellicoso e ostile.  

«Una richiesta di Draco. Sembra tuo figlio quest’oggi avesse l’intenzione di rendere a parte del suo ambizioso progetto di matrimonio anche la sposa e non volesse elementi d’intralcio ad ostacolarlo».
Narcissa alzò di scatto il capo, sgranando gli occhi, di un celeste quasi trasparente nella luminosità bluastra di quella giornata uggiosa. «Vuoi forse dirmi che non gliel’ha ancora chiesto? Per Salazar!- cosa aspetta? Non si parla d’altro ed è sulla bocca di tutta la comunità magica oramai».
Andromeda scrollò le spalle e le dita continuarono a far passare l’ago con abilità nei punti della stoffa di lino. Era qualcosa la passione per il cucito, la tranquillità del sentire i fili unirsi e assumere una forma definitiva sotto gli incroci esperti dei ferri non incantati, che aveva abbandonato da anni e solo da poco riscoperto.

«Suppongo temesse un suo rifiuto e abbia preferito strapparle il sì per sfinimento» replicò, scatenando il disappunto della sorella. «Draco non ha certo bisogno di trincerarsi dietro simili trucchi perché lei accetti la sua proposta» obiettò con orgoglio tutto materno, benché giustificato.
«Sembra tu stia dimenticando chi è la lei in questione. C’è un decennio di odio reciproco e un’ascia di guerra da sotterrare, è chiaro il perché fosse tanto agitato all’idea di domandarglielo direttamente».
Narcissa sospirò stringendo le mani affusolate davanti a sé, fissando i petali schiusi delle primule sul tavolino nell’angolo della stanza e immaginando come sarebbe stato immergevi il viso, sentirne l’inebriante fragranza inondarle le narici.

«Credi esista…» inghiottì a vuoto prendendo un respiro profondo, «la remota possibilità che riceva un no in risposta?». Mascherava così anche il timore segreto che il pensiero di quella coppia le cagionava. Potevano individui tanto diversi ottenere la serenità che altri più assortiti e con meno problemi alle spalle non avevano saputo trovare nel loro cammino insieme?
Andromeda si prese del tempo, ponderando con calma prima di darle una risposta.

«Si tratta di un connubio improbabile quello tra grifoni e serpi, ma non impossibile. E d’altronde sono tra le quattro case sicuramente le più vicine nell’avversione che le accomuna e con la distinzione più acuta da cogliere; l’orgoglio è qualcosa di molto simile alla perspicacia dell’astuzia in fondo. Inoltre conosco entrambi abbastanza da credere non vi sia nulla di male assortito nella logica di Hermione che non possa combaciare e trovar riparo nella mente sofistica di Draco. Posso quindi dire a mio avviso che se la caveranno egregiamente».
Dava per scontato che lei avrebbe risposto positivamente ovvio, ma non aveva parlato di amore né di frivolezze come i sentimenti. Era stata un’analisi ingegnosa e accurata dei caratteri dei due ragazzi, nulla tuttavia che facesse trasparire vi fosse qualcos’altro che le permettesse di supporre cosa esattamente li avrebbe resi capaci di cavarsela egregiamente.
La piuma di pavone grattò contro la carta, la cera smeraldo della candela, lo stoppino ardente e sul punto di liquefarsi e il timbro di ferro pronto a marchiarne la chiusura una volta completata la stesura a poca distanza, di fronte alla boccetta trasparente d’inchiostro nero.
Prima potesse fare alcunché però venne distratta nuovamente dalla risata di Andromeda. Ne incontrò il viso, meno segnato e con occhiaie poco pronunciate pur se visibili, e non le sfuggì la scintilla di divertimento con cui le indicò un allocco sul davanzale. La voce curiosa ed eccitata di Teddy a ragguagliarla su un’informazione già in suo possesso: «Quello è l’allocco di zio Draco!».
Pregando in una notizia che neppure lei sapeva decidere a scegliersi tra le due sole possibili alternative, Narcissa si apprestò ad aprirla: poche, concise parole vergate nell’inconfondibile grafia spigolosa del figlio. «A quanto pare il tuo intuito non sbagliava, Meda. Presto avremo un’altra aggiunta in famiglia».
I trilli festosi di Teddy impegnato in un buffo valzer approssimativo con il gatto dal muso alla McGranitt e quella risata che nonostante tutto riusciva sempre e comunque a scaldarla.

 
*


Nel settembre del nono anno Andromeda occupava la stessa poltrona a fiori poco distante dalla finestra, in un posto che senza nessuno lo stabilisse aveva preso a diventare suo solo; Narcissa non era alla scrivania, bensì sul divanetto a leggere La gazzetta del Profeta e non c’era alcun Teddy ai loro piedi e nessun Grattastinchi, morto di vecchiaia parecchi mesi prima.
Nel treppiedi tra loro tazzine da the e dolci di Mielanda che Draco non mancava mai di mandare loro ogni settimana, insieme ad un biglietto di scuse circa un imprevisto tale che avrebbe impedito a lui e ad Hermione di essere presenti al consueto pranzo domenicale.
In effetti era la quarta settimana che le veniva recapitato lo stesso messaggio: scuse evasive e prevedibilmente diverse, medesimo l’intento. Ne aveva letto quindi il breve contenuto corrucciando la fronte, ma non aveva aggiunto niente a quell’espressione che parlava da sé sulla reazione che esso avesse ottenuto e riscontrato. Solo qualche anno dopo al loro fidanzamento, Narcissa era stata costretta a concordare con la descrizione che Andromeda le avesse fornito del figlio e della nuora. Superate le barriere create da pregiudizi antichi, poco amichevoli primi incontri e differenze difficili da sormontare, Hermione si era rivelata la moglie che lei stessa avrebbe scelto per Draco.
C’erano a volte pensieri ad offuscare la gioia di quella riflessione – ombre e spettri che niente riusciva a cacciare-, ma Narcissa aveva dato prova di essere una donna energica oltre che testarda e di quella nuora vedeva solo i pregi di un carattere determinato e non i difetti di un sangue che la magia doveva possederla per costrizione viste le innegabili doti della sua bacchetta nell’incantare questo e quello o trasmutare gli oggetti in furetti dal candido pelo bianco, cosa che -si era scoperta ad osservare con un certo susseguo perplesso- provocava non poca avversione tediata in Draco il cui colorito pareva virare misteriosamente dal rosa al terreo e viceversa.

«Mi auguro vada tutto bene. Non è ormai un mese che disertano i tuoi pranzi in un modo o nell’altro, Cissy?».
Andromeda aveva impietosamente girato il dito nella piaga, ma Narcissa non era stata troppo occupata ad afferrare il suono di quell’appellativo mai più usato prima di allora per rendersi conto dello sprazzo furbesco insito nella sua domanda.
Aveva sospirato lievemente allora e fissato con recriminazione la firma imputata. Qual era il motivo reale di quelle defezioni? Andromeda aveva riso sotto i baffi.

«Gradirei essere messa a parte del motivo che ti porta a ridere della sottoscritta, Meda. C’è forse qualcosa che sai e di cui io non sono ancora a conoscenza che vuoi dirmi?» aveva chiesto lei risentita.
«Mi stavo soltanto domandando se sarà possibile questa volta che sia io a dare la notizia a Lucius».
La comprensione farsi largo in lei prima della rassicurazione finale. «Sembra che Teddy presto avrà un altro cugino».
La risata limpida anche nelle ombre di Andromeda come condanna – la più meravigliosa riuscisse a immaginare- e quella che sarebbe stata per contro la reazione di suo marito.
Sorrise arricciando appena gli angoli della bocca, qualcosa che le sbocciava in petto come un fiore di felicità le cui corolle aveva timore di sfiorare e vedere sfiorire, come le ali di una farfalla che appena violate da goffe dita umane perdono il dono magico di volare.

«Ti ringrazio, ma no. Preferirei evitare a Lucius un altro collasso. Ricordi vero che l’ultima volta hai rischiato di mandarlo al San Mungo per esaurimento nervoso?» domandò in un rimprovero per nulla sottointeso. 
Le parole di Ninfadora si era rivelate da tempo nella sua mente rivolte a lei per un motivo preciso.
Che avesse voluto sin dall’inizio fosse soprattutto lei a ritrovare parte di quella famiglia perduta in nome di una altrettanto cara?
Andromeda sorrise con una dolcezza soffusa d’ironia e riprese a sferruzzare.

«Come potevo sapere che soffrisse di pressione alta?».
Narcissa scosse la testa in un diniego accennato e divertito, una risata muta come il cadere soffice di fiocchi di neve, ma che mise definitivamente a tacere il rimbombare di altre, frammenti di ricordi e squarci di cuore aperti, frenando il flusso irrequieto di sangue. Ghiaccio su ferite in via di guarigione, balsamo dal retrogusto sciroppato su croste irrobustite dall’abituarsi di un inverno temperato in vece di una primavera soleggiata.

Era anche quella la famiglia per cui aveva sempre lottato.

 

 

  

  
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