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Autore: bravesoul    24/12/2010    1 recensioni
Natale dovrebbe essere una festa. Si dovrebbe festeggiare. Ma a volte natale è l’ occasione per ricominciare daccapo, sia nel bene che nel male. Quando sei a pezzi, quando tutto intorno crolla e non riesci a vivere ma solo a sopravvivere e ti accorgi che- così- sta davvero lasciando andare tutto. Quando ti accorgi di amare, ma di non essere amato abbastanza.
Anche questo è Natale.
Questa Fic si è classificata quinta a l contest " Buon Natale!- FlashContest" indetto da Shark Attack, vincendo il premio della giuria e il premio albero di Natale.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Anko Mitarashi, Kakashi Hatake
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Nick: bravesoul
Titolo:   For those about Christmas
Pairing scelto:
kakashi anko
Genere:   dark sentimentale introspettivo
Contesto: 
giorni nostri, della stessa seria di un'altra delle mia shot che si chiama Blindness, se qualcuno avesse voglia di leggerla =D
Rating:  
yellow
Avvertimenti:  
Au
Betareader: 
no

Questa Fic si è classificata quinta a l contest " Buon Natale!- FlashContest" indetto da Shark Attack, vincendo il premio della giuria e il premio albero di Natale

E io mi mangio le maniii =P

For those about Christmas

By Bravesoul

 

Flesse delicatamente la gamba, lasciandosi sfuggire un gemito. Si guardò attorno, quasi aspettando un qualcosa, un qualcuno. Ma poi chiuse gli occhi, ricordandosi che da quel giorno non ci sarebbe stato più nessuno che si preoccupasse per lui.  Socchiuse gli occhi, appoggiò una guancia sul palmo della propria mano, notando che iniziava a spuntare un filo di barba graffiante.

Sbatté involontariamente le palpebre, si appoggiò ancora di più allo schienale della poltrona in pelle, si scostò i capelli argentati dagli occhi e reclinò il capo, sbuffando.

Prese il bicchiere colmo di scotch che aveva appoggiato sul tavolino accanto alla poltrona, di ciliegio. Si portò il bicchiere ghiacciato alle labbra, trangugiò quel liquido ambrato e fragrante, sentendo quella sorta di intorpidimento iniziale che gli causava sempre l’alcool.

Appoggiò nuovamente il bicchiere, tirò fuori una sigaretta dalla tasca della camicia sbottonata, l’accese con un accendino preso da una tasca dei jeans. L’odore acre del tabacco si diffuse rapidamente, impregnandogli inevitabilmente la pelle, i vestiti, i capelli, le dita, filtrando nella pelle lucida e costosa del divano e tra le fibre del tavolino lavorato a mano.

Fece un tiro profondo, aspirò, mentre il fumo caldo gli passava per la trachea, per i polmoni e usciva con uno sbuffo dal naso, lasciandogli impresso un odore strano.

  Rimase in silenzio, senza riuscire a fare null’altro che finire quella sigaretta ordinaria, non dissimile dalle mille fumate in che giacevano, ormai ridotte a mozziconi, nel posacenere d’ossidiana poggiato su di un tavolino di cristallo.

Distese la gamba dolorante, l’appoggiò alla superficie trasparente del tavolino, desiderando un po’di ghiaccio. Fece per chiamare qualcuno a voce. Poi si morse le labbra. Lei non sarebbe venuta, non quella volta.  Non perché stesse dormendo, facendo la doccia, parlando al telefono. No. Lei non sarebbe venuta  perché lei se n’era andata, andata per sempre.

Chiuse gli occhi, dolorante.

Li riaprì.

Si fissò una mano.  Le nocche erano ammaccate, e un paio erano spaccate, il sangue si era appena coagulato, formando una crosta.

Era il solito stronzo.

Le labbra si arcuarono leggermente: un’altra cosa che non sarebbe mai cambiata comunque. Si lasciò andare sulla poltrona, chiuse gli occhi definitivamente, mentre una stanchezza mai provata si impadroniva delle sue membra. Era stanco di questo.

Era stanco dell’agonia che raschiava nella gola, di quel senso di soffocamento che era sempre lì, tra l’esofago e l’epiglottide, pronto ad assalirlo. Era stanco della nausea che lo prendeva ogni volta nel guardarsi allo specchio. Era stanco della dannata gamba, che non si decideva a guarire. Era stanco di lottare, di litigare.

Era stanco di lei, era stanco di tutto. Voleva solo essere lasciato a languire nel dolore, come al solito. Perché a quello era abituato, quello non era nemmeno più straziante.

Ma il resto, il provare ad emergere dalla pece dell’anima, era troppo faticoso, troppo doloroso. Era difficile librarsi in volo con le ali rese pesanti dalla pece e con le piume incollate, con il becco sigillato ermeticamente e gli occhi ciechi.

Anche amare era troppo faticoso.

Ti dava la possibilità di affogare ancora di più nella pece. Ti poteva liberare ma rendere sempre più prigioniero, senza alcuna possibilità di fuga. Non poteva essere un palliativo, né un antidolorifico: poteva essere solo una cura o un omicidio. Ma in entrambi casi rischiare avrebbe richiesto un pagamento sin troppo alto.

Era più facile restare immobile mentre, lentamente, la marea nera prendeva il sopravvento, penetrando ovunque, impregnando la pelle, piano piano passando tra le labbra atone, ingoiata e risucchiata, tappando polmoni, gola, tutto.

Non lottare era facile.

Molto più facile.

Era una vita intera che non lottava, non avrebbe iniziato ora.

Non lottava da quando aveva nove anni.

Non aveva senso iniziare ora che il mondo crollava così inesorabilmente,  tanto sarebbe sprofondato comunque.

Sigillò gli occhi e, per un secondo, una furia distruttiva si impadronì di lui.

Prese il bicchiere di scotch e lo strinse dolorosamente, fino a fare incrinare il vetro,  poi lo lanciò contro una parete di stucco veneziano, facendolo rompere in mille pezzi. Il liquore colò per il muro.

Aprì gli occhi.

Ma la furia era passata.

Si strinse su se stesso, si rannicchiò e chiuse gli occhi di nuovo.

Sarebbe  dovuto passare dal cimitero, quel giorno. Era da tanto che non lo faceva.

Almeno la vigilia di Natale sarebbe potuto passare.

Sì, l’avrebbe fatto. Ma più tardi.

 Ora aveva solo bisogno di dormire.

 

Strinse i pugni con rabbia, le unghie affondarono nei palmi, incidendo delle piccole mezzelune rosse nella carne.

Due lacrime di rabbia le scivolarono per le guance, facendo sbavare il trucco nero che cominciò a colare assieme alle lacrime. 

Con voce irosa e tremante ordinò l’ennesimo shot di tequila al barista che le sorrise, comprensivo.

- Dammi la bottiglia, tanto uso le sue carte di credito.- Commentò amara, cambiando idea, poi prese il bicchierino di liquore e lo trangugiò senza alcuna esitazione.  Voleva essere come quel liquido. Voleva semplicemente distruggere tutto, passare veloce e calda in un secondo, lasciando solo voglia di avere di più. Voleva essere piena di alcol, voleva dimenticare. Dimenticare quello che aveva dentro, la rabbia e la tristezza che le pesavano addosso in quel momento.

- Figlio di puttana.- Ringhiò. Strinse i denti, mentre si versava l’ennesimo bicchiere. Figlio di puttana.

Aveva dato tutto per lui. Gli era stata vicina, aveva ricacciato indietro la propria indole bastarda per essere dolce con lui, per aiutarlo in quello che - lo capiva, lei- doveva essere un momento difficile. Lo aveva fatto. Aveva chiuso la bocca, aveva evitato di urlargli contro per farlo svegliare. Fino a quel momento.

Si era abnegata, si era detta di dover soffocare il proprio dolore per non fare soffrire lui, perché solo lui aveva il diritto di soffrire, costretto a casa, incapace di camminare, provato dal tentativo di suicidio di uno dei suoi amici e da un incidente che gli era quasi costato la vita.

Ma era stufa. Stufa di vederlo languire in quel nulla, senza nessuna voglia di riemergere. Era qualcosa che non sopportava di lui. Quando andava male, ma se per questo anche quando andava bene, lui non faceva nulla per reagire. Era passivo. Lasciava che le cose gli passassero sopra senza fare nulla. Senza esporsi troppo, perché oddio, se ci si espone troppo si soffre.

-E’la vita, stronzo.- Le lacrime ripresero a correre per il volto, mentre gli occhi diventavano sempre più rossi, e i singhiozzi cominciavano a scuoterla, nonostante si mordesse le labbra per non emettere un singolo fiato.

Stronzo figlio di puttana.

Aveva sparato ad un uomo, ad un carissimo amico, per salvarlo. Ci era stata male pure lei. Almeno lì, lui, aveva tentato di fare il carino, ma la farsa era durata poco. Qualche sorriso, qualche pacca, la solita stupida maschera dell’uomo forte, l’uomo che non ha paura di nulla.  Ma quella maschera la stufava.

Avrebbe preferito vederlo piangere.

Ma no.

Lui doveva continuare in quella assurda finzione che tutto fosse ok, per poi - in realtà-  lasciarsi scivolare in un baratro senza fondo, ingannando abilmente gli altri.  Ma non lei.

Perché lei era l’unica con cui quella cazzo di maschere non funzionassero per nulla, anzi con la quale le maschere peggioravano la situazione.

Si impediva di amare, lui. Non voleva mai soffrire lui. Preferiva rimanere in quella pallida imitazione di vita, soffocato dai rimorsi, senza la voglia di rialzarsi. Stupido, stupido stronzo.

Era meglio soffrire…

Davvero?

Anche se l’amarlo l’aveva ridotta in quello stato?

Anche se l’aveva ridotta a piangere?

Sì.

Ne valeva la pena.

Si versò l’ennesimo bicchiere, lo vuotò tutto di un fiato con ira.

Non era riuscito a lottare nemmeno per lei.

L’aveva lasciata andare.

Senza una parola.

Fottuto stronzo.

Ed era pure la vigilia di Natale, commentò fissando le decorazioni allegre.

Ma che merda.

Tintinnano, i campanellini.

La gente esce per le strade, sorridendo.

I bimbi giocano tra la neve.

Le madri contemplano con un misto di preoccupazione e divertimento quei furfanti.

 I padri guardano orgogliosi i pupazzi di neve.

Le buste dello shopping natalizio pesano, sono troppe.

Il profumo di dolci inebria l’aria.

Natale.

L’utopia del Natale.

Un bacio rapido, scoccato a fior di pelle.

Uno sguardo ansioso e caldo.

Il corpo di lei che si avvicinava al suo, caldo di voglia di fare l’amore.

Il proprio corpo che le si stringeva meccanicamente, sotto le coperte calde.

Le labbra che diventavano un tutt’uno, le lingue che si rincorrevano come se dovessero vincere una gara.

 Le mani che viaggiavano per il corpo …

Aprire gli occhi e fissarla per un secondo senza fare nulla, sola ascoltando i rapidi battiti del cuore, mentre quel’unico suono riempiva lo spazio tra loro, mentre il fissarsi negli occhi li portava lontani.

Stava riemergendo.

O precipitando.

 

Si svegliò di colpo, si strinse la gamba convalescente con un gemito. Faceva un male assurdo. Sentiva quasi le viti e le placche che avevano dovuto inserire nel piatto tibiale perforargli non solo le ossa, ma anche la carne.  Aprì gli occhi, pensando- per un secondo- di rivedere gli occhi ambrati del sogno, realizzando che non sarebbe stato così.

Una fitta leggera al cuore.

Si alzò in piedi, cercò con lo sguardo in modo maniacale il flaconcino di antidolorifici, senza trovarlo.  Aveva il fiatone, quella dannata gamba lo piagava.

Si ricordò di averlo poggiato sul tavolo della cucina, qualche … qualche ora prima.

Zoppicò, appoggiandosi alle pareti che parevano corpi sconosciuti con una disperazione quasi tangibile.

Trovò il flacone e ingoiò una pillola.

Fissò il tavolo della cucina.

C’era ancora la tovaglia con gli alberelli di Natale che a lei piaceva tanto. Era la tovaglia di quando tutto era finito. C’era ancora la bottiglia di vino aperta, un bicchiere ancora colmo di quel liquido vermiglio, il pane ancora tagliato e morso. Era tutto rimasto com’era, ritratto di una quotidianità, di un impegno e di una semplicità che l’avevano quasi tramortito.

Perché- per qualche istante- lui si era esposto davvero, per qualche secondo aveva davvero pensato di lottare e di portarsi in quel piano meno equilibrato e più pericoloso del vivere davvero e non del sopravvivere.

Ma era stato prima dell’incidente, prima di tutti quei problemi. Prima di Gai, prima della morte di Lee, prima che Anko lo salvasse.

Ma poi, come al solito, la vita gli aveva mostrato che era meglio solo sopravvivere piuttosto che impegnarsi a lottare, glielo aveva comunicato brutalmente, rendendolo zoppo se non a vita almeno per un considerevole periodo di tempo.

Strinse i pugni, le nocche sbiancarono.

Chinò il capo.

Ora era solo.

Ora era  perseguitato dai sogni.

Dal subconscio.

Ora poteva far cadere la maschera.

Si fissò i piedi nudi.

Fu scosso da un brivido per un secondo, un violento brivido d’ira.

Zoppicando malamente percorse a grandi passi la cucina ed aprì la porta- finestra che dava sul balcone. Uscì, mentre il contatto con l’aria fresca lo faceva rabbrividire.  Dal suo enorme appartamento nel cuore della città si poteva vedere l’immensa distesa degli edifici grigi, le enormi strade che si incrociavano, le macchine che correvano veloci e frenetiche, mentre i guidatori erano assorti nella loro sfida contro il tempo, incuranti di cosa un singolo istante di distrazione avrebbe potuto causare.

Per lui non era stata la distrazione, la causa del suo incidente.

Era un inseguimento.

Stava inseguendo un omicida di fama mondiale, al volante della propria macchina personale, una Porche Carrera. Accanto a lui c’era … c’era un ragazzo.

Chiuse gli occhi.

C’era. Che definizione giusta. C’era, perché in quel momento il ragazzo in questione non esisteva più. Era morto.

Diede un pugno alla balaustra.

Perché quella rabbia?

 Perché veniva fuori tutta in una volta?

Perché dopo tutti quei mesi passati in una frustrante apatia la rabbia veniva fuori così schiumante?

Non lo sapeva.

Ma sapeva che qualcosa lo corrodeva dentro.

Avrebbe voluto … ubriacarsi, cercare una rissa, per poi tornare pesto a casa, ma soddisfatto.

Non era da lui, però.

Kakashi fissò la città, perso dentro se stesso, perso in ogni senso. Fissò quel via vai frenetico, dominato da qualche strano ordine natalizio, che faceva parere quel caos una sorta di cosmo perfetto e vivente.

I fiocchi bianchi di neve cadevano leggeri, soavi, ricoprendo tutto con quel loro tocco gentile, delicato e ghiacciato, rendendo quel Natale ancora più magico.

Ma per lui non c’era magia a Natale.

Non quell’anno.

Scosse la testa.

Doveva andare al cimitero, fare visita ai resti anneriti del proprio passato, per ricordarsi di non dimenticare cosa succedeva a chi osava volare troppo vicino al sole.

Rientrò in casa e cercò il bastone, d’ebano e con il parte superiore in argento.

 Quanto lo odiava.

Era riuscito a volare accanto al sole, ma ne aveva pagato le conseguenze.

Precipitando.

 

 

“ Allora?!” aveva detto lei, con voce irosa.

 Lui l’aveva fissata con uno sguardo vacuo.

“ Non dici nulla?! Ti sto mollando e non dici nulla?!” strinse i pugni, mentre lacrime di rabbia minacciavano di scorrerle per il volto.

“ Se hai deciso di lasciarmi non posso fare nulla per impedirlo.”aveva replicato lui, con una voce glaciale e controllata. Non c’era emozione, non c’era nulla. Il vuoto.

Eppure lei lo fissava, passionale, calda, incazzata. Voleva… cercava…

Ma non avrebbe trovato né ottenuto.

“ Mi stai prendendo per il culo?!”

Lui l’aveva fissata per quella che parve un’eternità, poi di nuovo con quel tono indifferente e inespressivo le aveva risposto.

“ No. Se hai deciso così, fallo. “

Lei si era girata di scatto, aveva preso la borsa appoggiata al pavimento ed era uscita di casa senza voltarsi indietro.

Aveva sbattuto la porta, mentre le lacrime le inondavano il viso come una marea in piena.

Lui l’aveva fissata uscire.

Poi in uno scatto d’ira improvvisa aveva abbattuto un pugno poderoso sul tavolo.

“ Cazzo!-“-

 

 

Fissò il liquido trasparente contenuto nel bicchiere con aria interessata. La testa le girava alquanto. Fece oscillare il bicchiere, mentre il liquore si agitava tra quelle pareti di vetro, come un piccolo oceano in una scatola.

Sorrise, ormai alticcia.

La bottiglia era ormai mezza vuota, e lei stava perdendo la concezione di se stessa. Aveva versato tutte le lacrime, aveva serrato abbastanza  i pugni. Aveva lottato abbastanza.

Buttò giù lo shot, con un verso strozzato.

Si riempì un altro bicchiere, lo mandò giù.

Voleva solo distruggersi, per non sentire quell’angoscia che le opprimeva il petto.

Voleva scappare da se stessa, come sempre scappava lui. Ma lei, lei non poteva davvero scappare, lei era confinata da quella strana costante della sua vita: affrontare i problemi, direttamente, senza ripensamenti. Perché era così che lei era riuscita a sopravvivere.

Sentì l’acido che precedeva il rigurgito bruciarle la gola, lasciò il bicchiere sul tavolo, si lanciò verso la porta del bagno sulla quale vi era- aggiunto per l’occasione natalizia- un buffo babbo Natale.

-’Fanculo.- Borbottò, prima di precipitarsi al lavandino di ceramica bianca, che ormai aveva visto troppe scene come quella.

La ragazza serrò le mani attorno ai bordi bianchissimi, i suoi muscoli si contrassero, mentre veniva scossa dai conati di vomito. Aprì le labbra, vomitò una volta.

Si scostò i capelli dal volto sudato, appena in tempo, perché i conati ricominciarono.

Vomitò ancora ed ancora.

Strinse sempre i bordi del lavandino con foga, le nocche sbiancarono, gli occhi si spalancarono, si chiusero, il sudore colò, i capelli viola si sporcarono.

Staccò una mano, tremando girò la manopola del rubinetto, azionando l’acqua freddissima.

Si sciacquò il volto, lo ripulì dal trucco ormai sfatto e colato del tutto, si ripulì dal sudore e dal vomito che le aveva sporcato le labbra.

Si pulì le mani, poi girò la manopola dell’acqua calda e chiuse quella dell’acqua fredda. Infilò la testa sotto quell’acqua bollente, senza sapere l’esatto perché.

Sentì qualcuno entrare nel bagno ed aiutarla a tirarsi in piedi.

Per qualche secondo sperò che fosse lui.

Sperò che si fosse pentito di quello che era successo, sperò che - come al solito- si fosse salvato in corner.

Ma subito realizzò che non poteva essere lui e altrettanto prontamente capì che se anche lo fosse stato  avrebbe agito comunque troppo tardi.

Perché - se ne rendeva conto da ubriaca, solo dopo aver abbattuto tutti i limiti che la legavano alla razionalità e al mondo -  non sarebbe riuscita a perdonare.

- Come stai?- Il giovane barista la rimise in piedi. Era piuttosto carino, con quei capelli marroni e quegli strani tatuaggi sulle guance, i muscoli possenti delle braccia e quell’aria da ribelle.

Lo fissò interdetta, sicura che non avrebbe dovuto cedere a quell’impulso malsano che aveva dentro di sé, sicura che sarebbe stato un errore imperdonabile.

- Che idiota, è logico che non stai bene.- disse lui, con quell’aria ancora un po’fanciullesca e quel sorriso genuino e vagamente malizioso. Le cinse la vita e l’aiutò a camminare sino al bancone.

Lei lo fissò con la mente annebbiata, dominata da un singolo impulso sovrumano. Poi lui le porse una tazza di caffè bollente, nel quale versò qualcosa. - E’un rimedio speciale… ti sentirai subito meglio.-

Le si sedette accanto e l’aiutò a bere, mentre qualcosa cresceva sempre di più.

 - Come ti chiami?- Chiese Anko.

Lui sorrise. - Kiba.-

Lo fissò per un ultimo secondo, si avvicinò per dirgli qualcosa, qualcosa riguardo Kakashi, riguardo la troppa tequila, riguardo al caffè, riguardo alla propria vita.

Ma senza rendersene conto si trovò a baciarlo.

Chiuse gli occhi, lasciò che il proprio corpo prendesse il sopravvento, lasciò che gli impulsi la dominassero. Pensava che tutto avrebbe avuto un senso, pensava che - almeno così- sarebbe riuscita a lasciare andare il dolore, che così avrebbe potuto scivolare nell’incoscienza, in un Natale senza sogni, senza speranze e senza dolore.

Un Natale di solo sesso e null’altro.

Ma nemmeno la tequila poteva avere quel potere, nemmeno Kiba poteva staccare quella spina.

Spalancò gli occhi ambrati, la donna, mentre un dolore lancinante le trapassava il petto.

 

Kakashi.

 

 

Si staccò, con un gemito.

- Mi dispiace…- Balbettò, confusa.

Kiba la fissò interdetto, chiedendosi che diavolo le avesse preso.

Lei si infilò una mano in tasca estraendone una banconota da cinquanta euro. - Tieni il resto.-  Disse, si alzò ancora confusa ma stranamente intrinsecamente lucida. Si infilò il cappotto marrone e fece per andarsene.

- Aspetta…- Il barista la raggiunse, con una strana espressione negli occhi. - Cosa ho fatto?-

La donna sorrise per un secondo, sorpresa da quell’innocenza nascosta sotto quel volto malizioso.

- E’colpa mia. Io… devo andarmene. Andarmene da questa città, da questo Stato. Io devo… semplicemente partire.-

Lui la guardò, poi sorrise, capendo.

-  Allora sali sul primo aereo e ricomincia daccapo.-

Rimase sconvolta. Quella frase l’attraversò come un lampo. La sentì subito sua.

Aveva ragione, Kiba.

Era l’unica cosa che poteva  fare, l’unica cosa che volesse fare.

Ricominciare da capo.

In un posto senza nessun Kakashi, senza nessun obbligo, nessun rimpianto.

Chiuse gli occhi, si staccò dal mondo per un secondo.

Era l’unico modo per sottrarsi da tutto quello schifo e mondare via quel sentimento che l’aveva contaminata da cima a fondo, per ricominciare davvero.

Sorrise, amara.

Erano arrivati a quel punto, alla fine.

A lasciare un uomo che amava, perché non sopportava più quel carattere di merda.

Riaprì gli occhi, sorrise al ragazzo.

- Hai ragione.-

Le stelle di Natale decorano le strade, con il loro colore rosso acceso e i petali morbidi e simili a foglie.

Ancora, alberi di Natale, luci soffuse oppure pacchiane.

Pupazzi di babbo Natale appesi a balconi, ghirlande festose.

Ma in questo sfarzo c’è posto anche per coloro che non sono allegri e festosi.

C’è spazio per coloro che soffrono, che stanno male, che sono morti.

Sia fisicamente che moralmente.

 

Si appoggiava pesantemente al bastone, la gamba dolorante non riusciva a reggere tutto il suo peso.

Doveva stare attento perché la neve che cadeva rendeva tutto maledettamente scivoloso, e non aveva voglia di scivolare e farsi ulteriormente male. Il cappotto blu scuro frusciava all’incedere pesante ma al contempo nobile, quasi superbo dell’uomo.

Aveva il viso sepolto in una sciarpa argentata, solo gli occhi corvini scrutavano il mondo, critici e quasi impenetrabili.

Si fermò innanzi all’ampia cancellata nera, aspettando che il custode lo riconoscesse e gli aprisse la porta. Il cimitero sorprendentemente non era mai davvero deserto a Natale. Chiunque non avesse qualcuno con cui passare il dato giorno ci andava, alla ricerca di qualcuno con cui poter parlare, anche se il dato qualcuno non avrebbe mai dato risposta.

Salutò sorridendo il custode, e si incamminò il più velocemente possibile verso una data tomba, per evitare la domanda inevitabile che quello avrebbe posto -“Dov’è madame?”- a cui non aveva alcuna voglia di rispondere.

Tentò di accelerare, ma la gamba ferita non glielo consentiva, così dovette rallentare l’andatura per non crollare al suolo.

Abbassò gli occhi, fissandosi sulle pietruzze grigiastre dei sentierini curati che conducevano alle vari sezioni di quella casa di morte.  Gli erano fin troppo familiari, commentò tra sé e sé, e di solito andarci con Anko alleggeriva le cose, lo rendeva più semplice.

Di solito si fermava davanti a un’altra tomba, la tomba di un caro vecchio amico morto anni prima, per la cui morte si sentiva colpevole come non mai; ma sta volta si sarebbe fermato  davanti ad un’altra tomba, la tomba di colui che era stato il suo copilota in quel precipitare senza fine.

Solo che era finita nel modo sbagliato.

Era morto il ragazzino, Lee, ancora inesperto e allegro invece che lui, Hatake,  un disilluso figlio di puttana spacca cuori.

Si fermò dinnanzi a quella lapide candida come il cuore del giovane sepolto. Pensò per un secondo a quel corpo, una volta tanto vigoroso e ora divorato da vermi e batteri, che avrebbero reso possibile il ciclico ricominciare della vita. Provò una fitta intensissima alla bocca dello stomaco, si portò una mano alle labbra, quasi stesse per rimettere. Riprese il controllo di sé, chinò la testa  fissando il volto giovanissimo e sorridente della foto impressa sul marmo.

- Mi dispiace…- sussurrò. Si inginocchiò con un gemito nel piegare l’arto dolorante. I capelli gli coprirono gli occhi, illuminati di quella luce dolente e ferita che non mostrava mai a nessuno se non ai morti. E a lei.

- Mi dispiace così tanto di come siano andate le cose. Dovresti esserci tu, al mio posto perché io non faccio che rovinare le cose, io non sono abbastanza forte. - sfiorò quella foto con la punta delle dita, dolcemente.  - Probabilmente sarebbe stato tutto più facile… per Gai, forse anche per Anko. Lui non avrebbe tentato il suicidio e lei, in un modo o nell’altro si sarebbe ripresa. Se non altro non avrebbe dovuto convivere con… me. -  chinò la testa, mentre i capelli gli coprivano gli occhi. - Non sono mai venuto a trovarti, nemmeno al funerale, ero ancora in ospedale. Forse perché… non riuscivo ad ammettere, ad accettare che fosse davvero finita, che non avrei mai più visto le tue sfide inutili con Sasuke e gli altri…-  alzò il capo e sfiorò la data di morte, risalente a qualche mese prima.

17 settembre 2010.

-  Due settimane dopo l’incidente..- commentò stanco. - Avevo intenzione di chiederle di sposarmi… ho osato anche solo pensare troppo…-

Si voltò sentendo qualcuno avvicinarsi, temendo e sperando che fosse lei.

Ma non era lei, lo sapeva benissimo, non si illudeva in proposito. Lei non sarebbe tornata, quella volta. Lei non sarebbe corsa lì per salvarlo. Lo aveva lasciato, davvero.

E lui non aveva avuto le palle per tentare di trattenerla. Era rimasto apatico. Meglio non esporsi, meglio non osare, si era detto, lasciale fare quello che desidera, sapevi benissimo che era solo questione di tempo… eppure quando era uscita di casa in lacrime  Kakashi aveva davvero provato un dolore inimmaginabile, ed un’ira che non era davvero sparita.

-   Non sei mai venuto a trovarlo, Kakashi?- chiese una voce maschile e superba.

Kakashi sorrise amaramente e fece per alzarsi, ma la gamba non resse lo sforzo.  Il ragazzo lo aiutò a stare su, rivolgendogli un’occhiata preoccupata.

- Sasuke?- chiese, piacevolmente sorpreso. Era da secoli che non vedeva il ragazzo, che considerava come una sorta di figlio.  Lo fissò intensamente, notando che non era cambiato affatto. Sempre alto, sempre pallido, sempre animato di una bellezza quasi femminea ma al contempo estremamente virile, sempre con quell’espressione distaccata negli occhi neri come la notte.

L’altro ricambiò lo sguardo. Era da tanto che non vedeva l’Hatake in quello stato pietoso. O, meglio, che non vedeva gli occhi dell’Hatake così spenti, e il volto così tirato, così sofferente. Finse di non badarci, infondo che gliene importava?

-  Io ci vengo spesso. Non posso fare a meno di pensare che se fossi stato in caserma con voi, lui non sarebbe qui ora.- ammise.

Kakashi rimase basito da quella sincerità così insolita nel figlioccio.

- E allo stesso modo tu vorresti essere al suo posto.-

 L’albino trasalì, quel ragazzo era sempre troppo perspicace in quelle cose. Qualcosa che avevano in comune, dopotutto. Sorrise mestamente, recuperò il bastone finito a terra in precedenza e vi si appoggiò pesantemente, sottraendosi al tocco dell’altro e riacquistando la sua elegante compostezza. Non si sottrasse però allo sguardo dell’altro, leggendovi una domanda inespressa, la stessa domanda da cui era scappato prima.

- Lei non c’è.- disse secco, rendendosi conto di quanto ferissero quelle parole. Credeva davvero che lasciando tutto scorrere quel dolore sarebbe sparito? Credeva davvero che alla fine sarebbe tornato tutto come prima? L’aveva data per scontata, in un certo senso. Aveva creduto che lei potesse far parte di quel piatto microcosmo che si era costruito, che nel suo sopravvivere ci fosse uno spazio anche per amare senza rischi.

Ma la verità, lo capiva ora, era che quell’amore non poteva coesistere con la sopravvivenza. Quell’amore era stato in grado di renderlo Icaro, di farlo precipitare, di farlo ferire.  Quell’amore lo aveva reso umano, gli aveva ridato la speranza di vivere. Ma l’incidente aveva cambiato tutto, così radicalmente da fargli dimenticare cosa significasse lanciarsi nel vuoto senza alcuna paura, cosa significasse corre il rischio solo per sentire una scarica di pura adrenalina. Lo aveva ficcato, indebolito, ucciso.

Ma Hatake Kakashi, stoico, aveva continuato a fingere, fingere che non fosse successo nulla. Che tutto fosse apposto, che persino il nuovo nemico che si era procurato non gli creasse problemi, che il tentato suicidio di Gai non fosse che l’ennesima futile disavventura di una vita. Ma la verità era un’altra. Quel fingere, quel sopravvivere lo stava uccidendo per un semplice motivo: aveva capito cosa significasse vivere davvero.

Sasuke rimase in silenzio, non era mai a suo agio in quelle situazioni, oltretutto aveva l’intenzione di passare il Natale con i due.

- Avete litigato?- chiese quasi con noncuranza.

La reazione che l’altro assunse fu curiosa. Kakashi infatti alzò la testa e fissò l’orizzonte, quasi con nostalgia, mentre un vento freddo gli passava sotto il cappotto.

- Mi ha lasciato e non ho fatto nulla per impedirlo. - disse sincero e con in pizzico d’amarezza nella voce.

Uchiha sbuffò. Se lo aspettava. Rimase in silenzio, abbassò il capo, si morse le labbra, inconsciamente, quasi cercando qualcosa da dire, sapendo che -  però- non c’era nulla da dire.

Hatake prese a studiare il proprio bastone, immerso in quel silenzio tetro. Era la vigilia di Natale, e… cosa?  Non aveva mai creduto nella magia delle feste, né in cose come l’amore eterno, eppure qualcosa, qualcosa che non dipendeva dalla sua volontà lo spingeva a desiderare che qualcosa, qualcosa di magico accadesse, per salvare quella situazione, per salvare quel rapporto che lui non aveva avuto il coraggio di proteggere.

La neve riprese a cadere, coprendo il capo di ambedue gli uomini.

Silenziosa.

Perfetta.

Misteriosa.

Magica.

Sasuke aprì la bocca per parlare, senza volerlo, quasi come se qualcos’altro stesse prendendo il controllo del suo corpo. - Trovala, corri. Prima che parta, vai.-

Kakashi spalancò gli occhi.

Partire? Che diavolo?! Ma improvvisamente uno strano calore gli riempì il cuore malandato, portando un sorriso sincero su quelle labbra piegate in una smorfia amara.  Lei non poteva abbandonare qualcosa, lei non era capace di arrendersi e di lasciare andare, ma questa volta era decisa a farlo, e l’unico modo in cui ne sarebbe stata in grado era partire, fuggire e lasciarsi dietro il mondo per ricominciare daccapo.

Sorrise con dolcezza.

- Hai ragione.-

Le renne galoppano senza sosta.

Un vecchio panciuto le guida.

I bambini attendono insonni tutta la notte per il regalo desiderato, lasciano biscotti e latte per il vegliardo.

Mamme e papà mangiano e bevono quel latte.

Mantengono l’illusione che era stata loro tramandata, perché i bimbi non capiscano troppo presto quanto spietato possa esser il mondo.

Ma dentro, dentro ci credono ancora, alla storia del buon vecchio uomo panciuto.

 

Aveva comprato un biglietto di sola andata per Caracas. Almeno se doveva ricominciare da capo, tanto valeva ricominciare da un posto che aveva sempre desiderato vedere, la patria del rum.

Guardò quel biglietto, pagato con la carta di credito del suo ex fidanzato. Ex, come faceva strano quella parola, quasi non fosse riferito veramente alla propria situazione, ma piuttosto a quella di qualcun altro.

Appoggiò la borsa a terra, si sedette su uno sgabello foderato in pelle del bar dell’aeroporto.

Da un bar all’altro, che merda! pensò sarcasticamente. Quell’abbandono le stava facendo più male di quello che credesse.

Ordinò con voce spenta un cosmopolitan, si appoggiò con i gomiti al bancone, fissando con sguardo assente il tabellone delle partenze che era apposto su una parete.

Prese il cocktail, servito in un bicchiere da Martini, e se l’accostò alle labbra. Bevve un sorso, godendo del misto tra mirtillo, limone vodka secca e triple sec, poi si voltò accorgendosi di due uomini che la guardavano famelici. Fece per ignorarli.

Il più alto dei due,  con i capelli rossissimi e gli occhi di una strana sfumatura verdastra, le si avvicinò. Si sedette accanto a lei e le sorrise. -Cosa ci fa una bella donna come te, sola soletta la vigilia di Natale?- chiese con voce ancora più vogliosa dello sguardo.

Anko fece finta di non sentirlo, sperando che la smettesse da solo.

Ma lui non era il tipo, no davvero.

Le si avvicinò, la prese per il colletto della maglia e la attirò a sé. - Ti ho chiesto che ci fai da sola.-

Lei lo fissò con aria di sfida. - Lasciami in pace. -

L’altro compare, più basso e biondo, raggiunse il rosso.

Anko era pronta, pronta  a spaccare il culo a quei due pezzi di merda, senza bisogno di un solo secondo in più per prepararsi.

 Ma proprio quando stava per scattare, un bastone nero attraversò l’aria e si fermò a contatto col petto del rosso. Una cascata argentea le si parò davanti, nella sua maestosa eleganza, in quell’ira controllata  di cui solo lui era in grado.

- La signorina ti ha detto che non desidera unirsi a te.- disse con una voce glaciale, che tradiva un certo fastidio. Non era geloso di natura, ma certe situazioni gli rendevano impossibile mantenere il suo solito autocontrollo.

Anko lo guardò stupita. Era da secoli che non sentiva una nota di interesse in quella voce. Era da secoli che non lo vedeva così fiero e spavaldo, così incazzato.

Il biondo ridacchiò e gli sferrò un pugno, che l’albino non fece in tempo a schivare. Indietreggiò,  il sangue che colava dal labbro spaccato e gonfio. Si pulì le labbra con la manica del maglione blu che indossava, poi sorrise.

-  Non si attaccano gli zoppi di sorpresa, non te l’hanno mai detto? Potrebbero incazzarsi.-

Prima che l’altro avesse il tempo di rispondere Kakashi gli si avventò contro, facendo perno sul bastone e gli tirò un calcio in volto, spaccandogli il setto nasale. Il rosso tentò di emulare il compagno, ma l’albino si girò di scatto, colpendolo con  una stoccata di  bastone alla tempia, facendolo accasciare al suolo.

Li fissò gemere e strisciare con uno sguardo orgoglioso e duro, quasi da fiera.

Poi si voltò e il suo sguardo fu solo per lei. Gli occhi neri perforarono quello ambrati con una violenza, una passione tale da farla tremare dentro.  Mille parole stavano percorrendo l’etere, mille parole non dette sebbene tanto pensate.

 Kakashi le si avvicinò, le carezzò una guancia, mentre lei era ancora immobile, quasi sconvolta. Al suo tocco- tuttavia- parve risvegliarsi. Gli occhi ambrati ruppero il contatto, si riempirono di una frustrazione bruciante e senza fine, perse il controllo.

Uno schiaffo si abbatté sulla guancia dell’uomo, lasciando una manata rossa.

Lui rimase in silenzio, a guardare la furia repressa della sua donna, che schiumava di rabbia, schiumava di dolore, troppo sconvolta per parlare. Il silenzio rimase, come tensione invisibile tra i due a lungo, poi lei lo ruppe, troppo ebbra di sentimenti per poterli ancora tenere dentro, confinati dalle labbra.

- Cosa fai, ora? Mi vieni a salvare? Fai il principe azzurro? Kakashi tu non sei mai stato il principe azzurro! Tu sei solo un egoista egocentrico stronzo, che non sa fare altro che chiudersi in se stesso, convinto che il mondo sia più felice! Tu sei… -

Le labbra dell’altro premettero su quelle della ragazza, bloccandola. La lingua di lui si mosse, leggera nella bocca altrui, richiamando quella di lei, risvegliandola. Morse quella labbra femminili, assaporandone il sentore alcolico, mentre il sapore ferroso del sangue lasciava in quel bacio un’impronta unica e potente, primordiale, mentre lui la stringeva come se fosse l’unica cosa che davvero importasse.

Lei si lasciò trasportare da quel bacio, dimenticando per un secondo di voler smettere con quella droga argentata e pericolosa, dimenticando il dolore provato, dimenticando tutto quello che aveva capito, quello che sarebbe stato meglio fare.

Poi si staccò, lucida.

Lo fissò, così poco distante dalle sue labbra, ma così lontana da lui. Si  era bagnata di lui, si era immersa per un secondo in quel mare in tempesta che la sua anima, e ora voleva riuscirne annaspando, per non ridiventarne succube, succube  di una tortura senza fine.

- Un bacio credi risolva tutto? Pretendi che tutto torni come prima?! - non sapeva perché stava indugiando, non sapeva perché non riusciva ad allontanarsi, né perché quegli occhi neri erano di colpo così magnetici. Non lo sapeva. Quello che sapeva era che parlare era difficile, resistere era difficile, ragionare era impossibile.

Lui scosse la testa, poi con dolcezza le sfiorò una guancia, mentre lei tentava di ritrarsi. Kakashi non avrebbe trovato le parole per esprimersi, Kakashi avrebbe tentato qualcosa fallendo. Ma quella sera le labbra dell’uomo si aprirono senza che lui lo volesse, le corde vocali produssero suoni, la lingua li modulò, formando farsi che l’uomo non avrebbe mai osato pronunciare.

- No, non  credo risolva nulla. -  Fermati, si disse, fermati. Ma non era lui ad avere il controllo delle proprie azioni, quella sera. - non voglio ricominciare, è troppo tardi per quello. Non voglio che tutto torni come prima.-

Lei rimase basita. - Sei venuto qui per mollarmi, stronzo? Svegliati, ti ho mollato prima io!- Si aspettava un discorso diverso, si aspettava uno di quei discorsi mezzi non detti tipici dell’uomo, un discorso che non l’avrebbe toccata. Ma questo tipo di discorso la feriva…

Lui sorrise, gentile. Si inginocchiò, senza potere nulla. Le mani si mossero, senza che lui le potesse controllare. Prese un oggetto che non ricordava di avere mai portato con sé dalla tasca dei pantaloni.

Aprì quell’oggetto, mentre la ragazza sgranava gli occhi.

E- di nuovo- non poté fermare quelle parole che venivano dal cuore, ma che non avrebbe mai avuto il coraggio, la forza o qualsiasi altra cosa  fosse necessaria, per pronunciare.

- Voglio ricominciare daccapo con te, perché ho sbagliato tutto. Io non voglio essere il tuo ragazzo, io voglio essere di più.  Mi vuoi… - ma prima che finisse la frase qualcosa era successo. C’erano tante parole non dette, tante scuse da fare, mille e mille dichiarazioni di pentimento, d’amore che Kakashi avrebbe potuto aggiungere. Ma tra loro due non c’era bisogno di dichiarazioni palesi, smielate e vistose. Bastava uno sguardo per comunicare. Uno sguardo intenso, magnetico, ricco di mille e mille parole che non sarebbero mai bastate a descrivere quel tormento che rodeva l’anima ad entrambi. Il rimorso di lui, la frustrazione di lei.

Kakashi abbassò il capo, i capelli argentati gli coprirono gli occhi, interruppe quel contatto magnetico di proposito. Quella risposta, quella risposta la voleva ad alta voce.

- Mi vuoi…-

Ma prima che finisse la frase lei si abbassò, gli scostò i capelli dal volto, lo fissò di nuovo. Non poteva scappare, era sua prigioniera. Non voleva riemergere da quel mare, voleva restarci. O- almeno - ci avrebbe provato. Non poteva giurare amore eterno, ma un amore per la vita sì. Perché lei lo sentiva dentro. Quel mare non l’aveva solo bagnata, ma l’aveva resa  parte di sé,  l’aveva contaminata così profondamente che non poteva purificarsi, e non voleva.

Diede un occhiata all’oggetto che Kakashi aveva in mano: era un anello di diamanti. L’anello.

Lo fissò di nuovo in volto, sanguinante, deciso, vivo.. non stava sopravvivendo, lui stava vivendo. Stava vivendo il dolore, ma anche qualcos’altro.

- Sposami.- disse allora. Senza sapere perché, senza sapere come.

Si ritrovarono a baciarsi, troppo vicini per staccarsi, troppo uniti per cessare di esistere.

Kakashi si lasciò andare.

Non importava se volare accanto al sole lo avrebbe fatto precipitare.

Alla fine lo aveva capito.

Per quel secondo di pura ebbrezza, di puro potere, di pura gioia, valeva la pena cadere.

Valeva la pena rompersi dentro e fuori.

Alzarsi e cadere, come la sabbia.

 Si staccarono per un secondo, senza notare la gente che li fissava, senza notare nulla che non fosse l’esistenza dell’altro.

Sorrisero per un etereo secondo.

Lei si alzò, aiutandolo a fare lo stesso.

Lo aiutò a camminare, sorridendo di quell’andatura zoppicante a cui ormai si era abituata, sorridendo del suo progredire impacciato.

 Al dolore avrebbero pensato l’indomani.

In quel momento restava solo da guardare la finestra enorme, guardare gli aerei decollare.

Alzarono gli occhi, videro qualcosa nel cielo stellato che non poteva essere nulla di umano.

Erano esseri disillusi, razionali.

Lo sarebbero rimasti.

Ma per quella sera, valeva la pena di chiudere gli occhi e credere, credere in quella magia che li aveva riuniti.

- Buon Natale.-

Sussurrarono, ma quelle parole si persero tra le labbra,  tra le lingue, tra la saliva, tra le promesse e il pentimento, tra la frustrazione ed il rimorso, tra il dolore e l’ira.

 Si persero nel cosmo e nel caos di quegli esseri difficili e malandati, limitati ed egoisti chiamati esseri umani.

Le renne trainano la slitta.

Il vecchio lascia cadere pacchetti colorati per camini.

Sorride, sotto la barba.

Ridacchia.

I campanellini natalizi suonano, tintinnano.

Le stelle si chinano a quel passaggio, a quella slitta che- per una sola notte- è in grado di sovvertire l’ordine lasciando il mondo in un  più appagante caos.

Il vecchio lascia andare l’ultimo regalo.

Rimane un secondo a fissarne l’effetto.

Un secondo per lui, anni per gli uomini.

Sorride. Di nuovo.

Ancora una volta ha scelto il regalo adatto, perfetto.

Di nuovo le renne corrono, il profumo di dolci passa.

Torneranno tra un anno, a cambiare di nuovo il mondo per una sola notte.

 

Natale. 

Contest & co


For those about Christmas
di bravesoul
Grammatica: 15/15 punti;
Utilizzo dei dialoghi/descrizioni e andamento della trama in generale: 10/15 punti;
Originalità: 15/15 punti;
IC: 10/10 punti;
Atmosfera Natalizia: 10/10 punti;
Gradimento della giudice: 1/5 punti;
Totale: 64/70 punti.
Giudizio scritto del giudice:
Prima di tutto, inizio con la penalizzazione: il massimo di pagine per la shot (che è il genere più lungo previsto dal regolamento) era 8, non 15. Hai perso un sacco di punti per questo, sia nel gradimento della giudice perché il contest era “flash” apposta perché le fic fossero brevi e consegnate e valutate in breve tempo, sia nell'andamento generale, perché appunto non è stata rispettata la struttura richiesta. Sorvolando su questo punto... stupenda! Questa shot è veramente stupenda! Intrisa del senso Natalizio che si cercava, prima come piacere negato, e per questo barrato nel testo, poi come ricompensa per tanto, troppo dolore, sfociando in qualcosa che non può essere impacchettato e messo sotto l'albero. L'amore che riesce ad emergere dopo tanto angst è splendido, puro, sincero. Questo Natale è... beh, così bello che non so come altrimenti descriverlo, ti coinvolge davvero. Se non fosse stato per la lunghezza avresti avuto punteggio pieno totale, ottenendo 70 punti tondi, credimi. Ho apprezzato molto la coppia come la cornice catastrofica in cui l'hai inserita, sia l'IC sia la struttura parallela del Natale per gli altri mentre la desolazione incombeva su di loro. Primo posto assicurato... peccato. Beh, non abbatterti: la prossima volta basterà leggere meglio il bando e vincerai di sicuro! XD
 

cf     k

 

  
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